IN QUESTO BLOG NON SI PUBBLICANO COMMENTI ANONIMI.

venerdì 31 dicembre 2010

Pensieri visivi: MADONNA CON BAMBINO di Alessandra Ienco

- di Saso Bellantone
Chiaroscuro. Una donna tiene in braccio un fanciullo. Lo bacia. Il fanciullo si sorregge alla donna ma guarda altrove: guarda l’osservatore. Entrambi hanno l’aureola sulla testa. A primo impatto, l’opera sembra raffigurare le figure principali del cristianesimo, Maria e Gesù. Se però ci si lascia rapire dal chiaroscuro, ci si rende conto che Madonna con Bambino non rappresenta Maria e Gesù o, meglio, non ancora.
Il chiaroscuro è un viaggio, non è una tecnica. Oscura i particolari marginali, l’irrilevanza dello sfondo, del contesto, delle luci, dei colori e delle forme, e consente di chiarire, appunto, qual è il concreto soggetto dell’opera: una donna (madonna significa “signora”) con un bambino, una madre con il figlio. Questo è un soggetto onnipresente nel mondo umano, il cui significato si dà per scontato. La degenerazione della specie umana, che procede con il continuo ed esasperato perfezionamento tecnologico, calcolante ed economico della società-Terra, dimostra che il significato di tale soggetto non è davvero risaputo. Ogni giorno s’incontrano una donna con un bambino, in varie occasioni, nei luoghi più disparati. Ma ogni volta questo incontro è di poco conto, decade nella sfera delle ombre proprio perché si considera manifesto il significato di cui è portatore. Abituati a tale noncuranza, l’incontro di una donna con un bambino oltrepassa il fiume Lete della mente umana e si perde nel regno dell’oblio, svanendo persino come semplice ricordo: è rimosso. Con questa generale leggerezza dell’essere, la specie umana perde le fondamenta che gli occorrono per edificare una società più serena, equilibrata e pensante, e trascura alcuni baluardi secondo cui avviene la vita umana, come quelli rappresentati dall’incontro una donna con un bambino.
Incontrare una donna con un bambino, così come in questo dipinto, è come fare un viaggio. Vuol dire fare esperienza di alcune tipologia di vita, legate a dei sentimenti, come per esempio: l’amore; la volontà di vita. Il senso della vita è, per alcuni, abbandonarsi nell’amore per l’altro; per altri, abbandonarsi alla vita stessa. La nascita di un figlio è, ogni volta, l’inizio di una rivoluzione: tutto cambia, soprattutto per chi diviene madre. Per una madre, vivere vuol dire perdersi totalmente nell’amore che si prova per il figlio, annullarsi interamente in questo sentimento (la donna bacia il bambino, non si cura di altro). Per un fanciullo, piuttosto, nascere significa iniziare a smarrirsi pienamente nel fuoco della volontà di vivere che brucia dentro sempre più via via che si cresce; significa calarsi maggiormente nella vita, trascurando quanti invece donano se stessi, in ogni attimo e senza sosta, per lui (il fanciullo guarda alla vita, sembra volersi staccare dalla madre).
Una volta cresciuto, una volta sperimentata tutta la vita nelle sua poliedricità, anche il fanciullo comincia a capire che tutto cambia, che anche per lui vivere è una rivoluzione. Lontano anni luce dalla madre – la quale continua ad amarlo ininterrottamente persino nella distanza – il fanciullo si trova improvvisamente di fronte a un bivio nel quale deve decidere quale strada prendere: la volontà di continuare a vivere per sé o quella di cominciare a vivere per gli altri. Percorrendo a ritroso il tempo cronologico, l’osservatore scorge in bianco e nero infinite madri e infiniti figli che si separano definitivamente, intravede milioni, miliardi di esseri umani scelgono di svolgere ruoli, funzioni, arti e artigianati diversi, che decidono d’ora in poi se vivere per sé o per gli altri. Fino a quando, in questo viaggio al di là del tempo, l’osservatore scorge una casa semplice, un uomo che lavora la legna, una donna che prende in braccio un bambino che deciderà, più avanti, non soltanto di vivere per gli altri ma di sacrificarsi per la salvezza degli altri. Soltanto adesso l’osservatore scorge che cos’è quell’aureola sulla testa della donna e del bambino: incontrare una madre con il proprio figlio è come incontrare tutte le altre madri della storia con i propri figli, è come incontrare, ogni volta, Maria con Gesù.

giovedì 23 dicembre 2010

ADDIO ALLA LIBERA E AUTONOMA UNIVERSITA'

- di Saso Bellantone
Gli articoli 9 e 33 della Costituzione recitano rispettivamente che la Repubblica Italiana «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» e che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento […]. Le istituzioni di alta cultura, università e accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». In breve le arti, le scienze, i saperi non soltanto sono liberi ma il loro sviluppo è sostenuto dalla Repubblica. Almeno, prima dell’approvazione del DDL Gelmini era così. L’approvazione del disegno di legge, ormai della legge Gelmini sull’Università (161 i sì, 68 i no, 6 gli astenuti) dimostra che al Parlamento (per essere più precisi, alla maggioranza) non interessa rispettare quanto si afferma nella Costituzione né la volontà dei giovani studiosi.
I padri fondatori e firmatari della Costituzione della Repubblica, nonché i partigiani, i morti e i dimenticati, si rivoltano nella tomba come indemoniati. La legge Gelmini infatti stabilisce l’inaugurazione di un lento processo di manipolazione delle Università, allo scopo di togliere ai saperi, alle arti, alle scienze la linfa che occorre loro per essere se stesse: la libertà.
È svanito il tempo in cui un piccolo gruppo di studiosi, maestri e librai decisero di creare un luogo dove insegnare a tutti e studiare liberamente, per opporsi ai poteri temporale e papale mediante il libero sapere, la libera espressione e circolazione delle idee, della ricerca, dell’arte, della scienza, della cultura, in una parola del pensiero. Oggi, quel momento decisivo per la libera e civile formazione di milioni e milioni di coscienze future, svanisce in un baleno, con un semplice “sì”, cancellando oltre ottocento anni di storia. Da oggi, le arti, le scienze, i saperi, la ricerca, la cultura, il pensiero – questa è l’Università – non sono più liberi. Sono terre di confine delimitate dal filo spinato della politica da un lato e da quello dei capitalisti dall’altro lato (perché la legge Gelmini ne getta le basi)
L’ingresso di privati nel CdA (e anche altrove) dei singoli Atenei (termine che riecheggia il luogo d’origine di tutte le forme di pensiero, di scienza, di arte, di sapere occidentali), trasforma il mondo universitario in una grande azienda in cui vige la logica della fabbrica, della produzione cioè di beni “prezzabili e vendibili”; del pari in bilancio, qualora non si riesca ad essere in attivo; del lavoro. Tali privati potranno svolgere un ruolo determinante per direzionare tutta la produzione della grande macchina accademica verso obiettivi, soluzioni e progetti utili per le aziende che rappresentano.
Con la giustificazione di sedare l’orrenda epidemia del baronaggio e degli sprechi (e questo punto, così come alcune proposte di riorganizzazione amministrativa degli Atenei sono condivisibili), la legge Gelmini taglia i fondi agli studenti (ma anche ai ricercatori e ai dipartimenti), introducendo artificiosi “premi di produzione” gestiti su scala nazionale dal Ministero e finanziati “anche” da privati. Secondo criteri ancora oggi oscuri, (che saranno introdotti successivamente, come specifica il testo della legge in esame), gli studenti eccellenti e meritevoli avranno la possibilità di partecipare ad alcune prove nazionali standard per ottenere alcuni “bottini da cantiere” tratti da un “fondo speciale”, tra i quali, oltre ai premi di studio totalmente a fondo perduto (chissà chi li vincerà), buoni di studio e prestiti d’onore (chissà chi vincerà pure questi) di cui una parte è da restituire nel tempo durante la carriera lavorativa post-universitaria (chi avrà la fortuna di lavorare).
La legge Gelmini introduce un altro antipasto: la possibilità per le “fabbriche universitarie” più in difficoltà di “fondersi o federarsi” allo scopo di risolvere problemi di natura economica, amministrativa e dell’insegnamento;inoltre, istituisce un fondo triennale a rotazione per il riequilibrio economico degli Atenei (che esclude logicamente a priori quegli atenei che si fondono o si federano). In tale contesto, si propone ai dipendenti (qualsiasi sia la loro mansione) di segnalare al Ministero se si è disponibili oppure no a un possibile trasferimento futuro di sede e, qualora le liste di disponibilità relative non corrispondono alle aspettative del Ministero, quest’ultimo avoca a sé il potere di trasferire forzatamente chi preferisce.
Gli studenti perdono le borse per il diritto allo studio e, in questo modo, perdono la propria umanità, trasformandosi in macchine da lavoro che riecheggiano vecchi campi da lavoro. Il loro operato, secondo le direttive stabilite “anche” dai privati (LEP), consente loro di ottenere l’ambito premio, la sopravvivenza, oggi trasformata in un fatto di quattrini.
I professori perdono da un lato la possibilità di accedere alle cattedre secondo i criteri e le modalità di valutazione un tempo riconosciuti ai singoli dipartimenti delle specifiche Università, dunque di mettere al più presto al servizio dei giovani e della comunità scientifica le proprie ricerche individuali; dall’altro lato, sono costretti a pagare per altri quattro anni per vedersi riconosciuto il diritto di partecipare ai concorsi abilitanti nazionali, i quali attribuiscono le cattedre ai più meritevoli (chissà chi vincerà anche tali concorsi).
I ricercatori perdono la possibilità di continuare nel tempo le proprie ricerche scorgendo a una distanza annuale che va, a seconda dei casi e degli assegni, dai 6 ai 10 anni dall’inaugurazione delle ricerche stesse, la porta d’uscita con su scritto “grazie e arrivederci”.
Si offre la possibilità, a quegli esperti di una specifica disciplina, di “guadagnarsi” una cattedra sulla base delle proprie doti oratorie, vale a dire di una “lezione orale” tenuta in presenza dei fantasmi, dei sedie vuote e di alcuni funzionari chiamati a decidere chi promuovere e chi bocciare tra tali esperti nell’arte oratoria (ma anche in questo caso, i criteri saranno stabiliti poi).
Si obbliga i professori, per esempio, a svolgere ogni tre anni un rendiconto scritto della propria attività, da inviare direttamente al Ministero mediante “letterina”, considerando il docente la persona adatta per svolgere tale bilancio, anziché istituire funzionari, organi o commissioni che si occupino di questo compito.
Si istituisce la leggendaria commissione paritetica composta da docenti-ricercatori-studenti, allo scopo di monitorare, verificare, revisionare e perfezionare lo studio delle singole discipline, sulla base del giudizio degli studenti che, in quanto tali, “sono già ultra-esperti della disciplina che hanno appena incominciato a studiare”.
Insomma (come si legge testo della legge, continueremo in altra occasione), è l’inizio della fine non soltanto delle Università ma del buon senso e del raziocinio. Perché con questa manomissione, con questo intrufolamento del Ministero (sia chiaro, previsto dall’art. 33 della Costituzione malgrado sia abusato con tale legge) muoiono il sapere, le arti, le scienze, in una parola la speranza che le nuove generazioni, i nascituri e i posteri ripongono già nella cultura tutta, rappresentata dalle Università.
Adesso, si studierà entro i confini che politici, capitalisti ed ecclesiastici stabiliranno, allo scopo di controllare meglio le masse, impedire loro di pensare liberamente, qualunque sia la disciplina di cui si occupano, e incarcerarli nella triste logica del produrre capitali, quattrini, spiccioli – tale è ormai considerata la cultura, un prodotto per fare quattrini.
Se questo è lo scenario che si profila, al quale il Parlamento si è detto favorevole, allora non basta più che gli studenti e gli studiosi protestino. Si è di fronte a un trivio: lasciare che la libera cultura (tutta) esali l’ultimo respiro; fare sopravvivere la cultura al di fuori delle terre di confine “aziendaccademiche”; oppure scegliere di “ribellarsi democraticamente e legalmente” a tale legge. Ossia: fare della libera cultura (tutta), simbolizzata dalla libera Università, una forza politica. Dal momento che i partiti e i loro leader non rispecchiano la volontà giovanile, e l’approvazione del DDL Gelmini ne è l’ennesima prova, forse bisogna cominciare a impiegare le stesse armi dei partiti, parlare il linguaggio della politica, giungere al Parlamento (ma anche altrove) con libere e democratiche elezioni per difendere, così come recita la Costituzione, non soltanto il diritto allo studio ma le risorse principali a partire dalle quali immaginare un futuro: i saperi, le arti, le scienze, il pensiero, sinonimi di libertà. La difesa della cultura (tutta), forse, ricomincia da questo compito.

THESIS: intervista all'astronomo Carmelo Barbaro

- di Saso Bellantone
Ricordo ancora quando entrai per la prima volta nella sua camera. Frequentavamo le scuole elementari in classi diverse, e ci conoscemmo per caso. Un giorno pranzai a casa sua e, nel pomeriggio, mi portò nella sua camera dove, passando in mezzo alle centinaia di libri che ci osservavano silenziosi dagli scaffali, mi portò direttamente alla finestra e mi mostrò, per prima cosa, il suo telescopio nuovo di zecca. «Della terra sappiamo molte cose…» – mi disse – «… è dell’universo, che è il futuro, che ne sappiamo meno. Per questo da grande farò l’astronomo». Oggi è così.
Il 17 dicembre 2010, a Bologna, alle ore 11:00, nella “Aula della Specola”, Carmelo Barbaro ha discusso la tesi di laurea in Astronomia, intitolata L’ammasso globulare NGC 4833, relatore prof. F. R. Ferraro, co-relatore E. Dalessandro. Da questo giorno in poi, quando ci si dovrà occupare dell’ “Ammasso globulare NGC 4833”, ci si dovrà riferire alle ricerche svolte dal giovane astronomo bagnarese, le quali segnano il punto d’avvio del suo viaggio tra le stelle, allo scopo di rispondere a tutti gli altri interrogativi che l’universo ci pone.

Carmelo Barbaro, puoi descrivere brevemente le tue ricerche a proposito dell’ “Ammasso globulare NGC 4833”?
L’ammasso globulare NGC 4833 è un ammasso globulare galattico distante dalla Terra circa 6.5 kpc (kiloparsec), di metallicità intermedio-bassa ([Fe/H]=-1.80) e relativamente arrossato (E(B-V)=0.33), situato in prossimità del piano equatoriale della galassia. La mia tesi ha avuto come oggetto lo studio delle componenti esotiche di questo ammasso. Componente esotica è intesa una stella particolare non spiegabile con la teoria di evoluzione stellare per stella singola. In questa “categoria” rientrano le Blue Straggler Stars, che ho analizzato in dettaglio. Questo tipo di stelle sono il prodotto di interazioni tra stelle o tra sistemi binari e sono ottimi traccianti di dinamici.
Siamo partiti dalle immagini prese dall’Hubble Space Telescope e tramite procedura di riduzione dati, astrometria e calibrazione delle magnitudini, siamo arrivati a diagrammi colore-magnitudine (CMD) utilizzabili scientificamente. Abbiamo inoltre calcolato il centro di gravità dell’ammasso, in quanto il centro nominale presente in letteratura è ottenuto con il profilo di brillanza. Nel nostro caso, dovendo eseguire un’analisi dinamica, è stato opportuno calcolare il baricentro utilizzando le stelle risolte.
La popolazione di BSS è stata selezionata fotometricamente nel diagramma Near UltraViolet, insieme alla popolazione di riferimento dell’HB (Horizontal Branch). L’altra popolazione di riferimento, RGB (Red Giant Branch) è stata selezionata nel diagramma U-V. Le popolazioni di riferimento sono necessarie poiché per conoscere la distribuzione radiale delle BSS è necessario confrontarla con quelle considerate rappresentative delle popolazioni “normali” dell’ammasso. Eseguendo una distribuzione radiale cumulativa, la popolazione di BSS mostra una concentrazione verso il centro dell’ammasso, mentre le popolazioni di riferimento hanno un andamento normale e simile tra loro.
Per eseguire un’analisi quantitativa, ci siamo serviti delle frequenze specifiche, cioè il numero di BSS diviso il numero della popolazione di riferimento considerata, in un certo intervallo di magnitudine e in determinato intervallo anulare. Quest’analisi ha messo in luce un comportamento bimodale nella popolazione di BSS: esse sono numerose al centro, decrescono a circa 60 arcosecondi dal centro e mostrano un nuovo picco nelle regioni periferiche dell’ammasso. Questo risultato ci dice che la segregazione di massa in NGC 4833 non è ancora terminata.
Si è passati successivamente alla datazione dell’ammasso tramite due metodi: le isocrone e il metodo verticale. Le isocrone sono modelli teorici che riproducono l’andamento di temporale di diverse masse stellari in evoluzione. Il procedimento consiste nel trovare l’isocrona che riproduce meglio il CMD dell’ammasso, considerando la metallicità, l’arrossamento e il modulo di distanza. Il metodo verticale sfrutta la differenza di magnitudine V tra l’HB (che evolve a luminosità costante) e il punto di Turn-Off, sensibile alle variazioni d’età.
Conoscendo la differenza di magnitudine tra questi due punti e la metallicità dell’ammasso, si può stimare l’età dell’oggetto in funzione dei due parametri precedenti. Considerando gli errori caratteristici dei metodi e dei possibili errori fotometrici, l’età di NGC 4833 è circa 12 miliardi di anni.

mercoledì 22 dicembre 2010

Magarìa

- di Saso Bellantone
È buio… Dove sono?… Perché non posso muovermi?… Che cos’è questo suono regolare?… Nel silenzio… Che afa… Quasi non si respira… Sembra di stare in un forno… Un forno… Ah!… Ora ricordo… Proprio come quel giorno... Su quella strada in terra battuta, al Sud… In piena estate… In compagnia degli amici…

Il sole era così cocente che stavamo cucinandoci bene come pizze e non avevamo un goccio d’acqua. Partimmo in tutta fretta dalla baia di Salgemma alla volta di Cinquepicchi e avevamo dimenticato di munirci di bottiglie d’acqua. Eravamo assetati, disidratati e sudati. Camminavamo da un pezzo, immersi nell’afa opprimente, in salita. Avevamo lasciato l’automobile giù, nel paese nuovo. Per giungere all’antica Cinquepicchi, si doveva procedere a piedi perché la strada era in rifacimento, come al paese vecchio. Distava tre chilometri di cammino dalla nuova contrada sita ai piedi della montagna e la strada si snodava sul costone di questa, lontana dal fresco degli alberi d’olivo. Eravamo rossi come stelle di mare, quasi bruciati quando scorgemmo quel vecchio rudere. Era un casolare semidistrutto, di pietra antica. Da lontano si scorgeva soltanto ciò che restava della facciata laterale. Al centro, vi era un’apertura che, assieme a una vecchia persiana poggiata sul muro, ricordava una finestra. Il tetto sovrastante era crollato. Una volta saliti, potemmo vedere il resto. Sulla facciata frontale, c’era l’ingresso con ai lati due finestrelle, una aperta l’altra chiusa con delle tavole. La porta era inclinata di lato. Sull’altro lato della casa, all’ombra di un grande albero di limoni, vi era una vecchia fontana, sormontata da una strana figura a tre teste, con in bocca i tubi da cui un tempo usciva l’acqua. Ci guardammo sconsolati per la sete. Poi, uno ad uno ci avvicinammo incuriositi all’ingresso, per dare un’occhiata dentro. A parte le pietre cadute, le tegole rotte, le vecchie assi piegate e l’erba che vi era cresciuta, non c’era nient’altro. Tornammo indietro e ci dirigemmo là dove eravamo entrati, quando qualcosa si mosse alle nostre spalle... continua a leggere

venerdì 17 dicembre 2010

L'ARTE PERIFERICA: INTERVISTA A FRANCESCO TRIPODI

- di Saso Bellantone
Compositore dei musical Il figliol prodigo (2004), di cui scrive anche il libretto, ed Estasi e tormento (2007), su libretto di Natale Zappalà, Francesco Tripodi nasce a Vibo Valentia, il 18 novembre 1972, ma cresce a Bagnara Calabra (RC). Dall’età di 8 anni fino ai 14 prende lezioni private di pianoforte con diversi professori. Nei successivi tre anni entra a far parte del corpo bandistico “Città di Bagnara Calabra” diretta dal M° Vincenzo Panuccio, dove suona la tromba. Dal 1992 al 2002 si iscrive all’associazione “Polimnia” Coro Santa Maria e i XII Apostoli diretto dal M° Loredana Polimeni, dove canta da tenore. Nel 2001 recita nel musical “Forza Venite Gente” di Michele Paulicelli, interpretando il ruolo principale di San Francesco. Nel 2002 si iscrive all’Associazione IRC “Insieme per Riaprire la Città ed esordisce come compositore con la canzone “Dal salmo 69, scritta per uno spettacolo organizzato dalla IRC, con la quale in seguito ha realizzato i musical sopra citati. Nel 2008 si laurea in “Musica, Spettacolo, Scienza e Tecnologia del suono indirizzo Artistico musicale” al Politecnico Internazionale “Scientia et Ars di Vibo Valentia, con una tesi sul musical e la musica digitale. Attualmente vive e lavora a Catania.

Come ti sei avvicinato al musical?
Fin da piccolo ho avuto due grandi passioni: il teatro e la musica. Come tutti i bambini ho cominciato a partecipare alle recite scolastiche e, crescendo, ho avuto la possibilità di esibirmi in spettacoli dove, insieme alla recitazione, c’erano parti cantate. In seguito ho cominciato ad appassionarmi all’opera lirica e poi ho scoperto il musical. E così ho trovato la mia strada, il genere che mi ha consentito di fondere i miei due grandi amori.

Che cos’è un musical?
Definire il musical non è semplice. All’inizio pensavo fosse la naturale evoluzione del melodramma, dove gli strumenti dell’orchestra erano sostituiti dai più moderni strumenti della musica leggera. Poi, invece, grazie ai miei studi, ho scoperto che non è proprio così. Il musical attinge da tanti e diversi generi di spettacolo: dal Burlesque al Vaudeville, dall’Opera alla Rivista e persino dal Circo degli acrobati. Quindi è uno spettacolo eterogeneo dove tanti stili coesistono organicamente dando vita a un genere nuovo e innovativo. Considero il musical un grande contenitore dove si può inserire tutto ciò che serve per fare spettacolo: recitazione, musica, danza, effetti speciali, grandi scenografie, giochi di luci e chi più ne ha più ne metta.

Qual è l’essenza del musical?
Fermo restando quanto detto sopra, se proprio occorre trovare una caratterista peculiare di questo genere, senza la quale non si potrebbe definirlo, questa è sicuramente il ritmo. Il movimento del corpo (la danza) inteso non come balletto a sé stante o come coreografie d’insieme sparse un po’ qui e un po’ lì per rendere più piena la scena, bensì come parte integrante del “dramma”. È dinamismo scenico. Con ciò non voglio dire che un musical si sviluppa sempre ballando o con un moto perpetuo, ma che la sua percentuale coreografica deve essere almeno del 70 di tutto lo spettacolo.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi del musical, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Il musical deve sicuramente intrattenere piacevolmente e far divertire il pubblico, ma non solo. Il musical è arte e l’arte, in tutte le sue forme, è linguaggio. Chi fa arte lo fa con lo scopo di “dire”, di raccontare storie, fatti, di esprimere idee, emozioni, punti di vista. Attraverso il musical (e non solo) si ha la possibilità di colorare la realtà, di presentarla da altre prospettive, di mascherarla, magari, sotto forma di favola, ma sempre con un senso ben preciso. Di dare allo spettatore la possibilità di riflettere e di prendere in considerazione altri punti di vista, e di farlo in maniera distaccata, leggera, in modo da avere una visuale più ampia delle cose, qualunque sia il tema della rappresentazione. Nell’antichità il teatro poteva raccontare delle verità che, se dette in altre occasioni o in maniera diretta, procuravano non pochi guai, anche la pena di morte, in certi casi. Invece gli attori sul palco potevano riportare fatti e misfatti senza conseguenze. Anche questa, oggi, è la magia dello spettacolo.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo si è trasformata di linguaggio in linguaggio fino a diventare, in italiano ad esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire il musical una “poesia”? I tuoi musical sono delle opere d’arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Ancora oggi il “processo poietico”, nel campo musicale, indica l’atto creativo, mentre il “processo estesico” rappresenta l’atto interpretativo; in mezzo c’è lo spartito. In questo senso i musical, e non solo i miei, sono delle opere d’arte, in quanto sono il frutto di una creazione attraverso la quale l’autore tenta di comunicare dei concetti personali, delle emozioni ma anche delle aspirazioni. A volte la scelta di un soggetto può servirgli anche per tracciare una via da seguire per raggiungere determinati risultati. Altre volte per trascendere la realtà, come l’ha sempre vista e pensata, per superare i propri limiti e aprirsi a nuove prospettive che gli consentano di esprimersi in maniera più piena e compiuta, liberandosi dai preconcetti e pregiudizi che ne condizionano anche l’agire quotidiano. E lo stesso possono fare gli spettatori che assistono allo spettacolo.

Perché componi? Perché senti l’esigenza di comunicare mediante l’arte del musical?
Perché non ne posso fare a meno. È il sacro fuoco dell’arte che brucia dentro, e quando decide di venir fuori non posso che assecondarlo. È come un vulcano che erutta quando la pressione della lava diventa incontenibile. Dopo l’eruzione, l’autore crea plasmando questa ricca materia prima per fissare emozioni, stati d’animo, per tracciare nuove vie, per “dire”. Naturalmente il processo creativo ha i suoi tempi. Si parte dall’ispirazione, si continua con l’improvvisazione, per poi perfezionare il tutto con la tecnica, cioè utilizzando tutti gli strumenti a disposizione per arrivare alla realizzazione dello spettacolo.

Che cosa racconti nei tuoi musical?
Nel primo, “Il figliol prodigo”, parlo di fratellanza, di umiltà nel riconoscere i propri errori, di comprensione, di perdono, di rispetto; attraverso il mio linguaggio, cerco di trasmettere il messaggio della parabola raccontata da Gesù riportata nel Vangelo secondo Luca, dalla quale è tratto il testo. Lo faccio perché credo fermamente che i principi contenuti in questo messaggio stiano alla base di una sana e proficua convivenza civile, a prescindere dai credi, dalle razze, dalle estrazioni sociali. Nel secondo, “Estasi e tormento – il mito di Gaziano”, celebro la mia città, Bagnara, che, anche se non mi ha dato i natali, è la mia terra. Il musical mette in scena la nascita di Bagnara secondo una favola mitologica tramandata dagli antichi. Insieme a Natale abbiamo aggiunto altri personaggi e situazioni per arricchire la trama e renderla più romanzata. Grazie anche al suo bellissimo testo, lo spettacolo ha riscosso molti consensi.

Un artista può sentirsi tale senza i pubblici?
Secondo il concetto di cui parlavo prima, dal processo poetico (l’atto creativo) nasce lo spartito e a questo deve seguire il processo estesico (l’atto interpretativo), percettivo da parte del pubblico fruitore. Senza quest’ultimo elemento il cerchio non si chiude; le emozioni non si trasmettono, il messaggio non arriva. Come per il suono, che ha bisogno di un elemento che veicoli le onde meccaniche per diffondersi nello spazio, così l’arte ha bisogno del pubblico per essere assimilata, percepita e tramandata nel tempo. Così ritengo che un artista ha bisogno del pubblico per sentirsi tale.

Che cosa significa oggi vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
A questa domanda non posso rispondere perché io non vivo della mia arte. Il mio impiego attuale è molto lontano dal mondo della musica. Scrivo musica perché è la mia passione, ma la mia passione, purtroppo, non è il mio lavoro. Comunque, tralasciando per un attimo la visione romantica dell’artista, penso che quando l’arte diventa lavoro, come tutti i lavori può essere più o meno remunerativa, e i sacrifici dell’artista nel vivere questa sua missione sono legati a diversi elementi. In questo senso, bisogna ragionare con i concetti freddi del business: il prodotto finale deve vendere e per far ciò deve attecchire nel mercato, e, di conseguenza, deve ricevere il maggior numero di consensi. Così possiamo parlare di valore relativo dell’artista, legato a molteplici fattori quali, tra gli altri, la pubblicità dell’evento, le mode del momento, il gusto del pubblico. Ma il valore assoluto dell’artista si misura nel tempo. Se la sua arte vale, lascerà un segno indelebile nella storia; il prodotto scarso, invece, passerà con la stessa velocità di una meteora.

Che cosa ti spinge ogni anno a tornare alla tua terra natia?
Grazie a Dio la città dove lavoro è abbastanza vicina a Bagnara da consentirmi di tornare molto spesso. I motivi sono legati fondamentalmente agli affetti: la famiglia, gli amici, le piacevoli chiacchierate (specie quelle con il mio intervistatore). Ma oltre a questi, la cosa che più mi manca di Bagnara è il mare. Io abito in collina e il mare lo vedo da lontano. Quindi sento il bisogno, quando torno al mio paese, di ricaricarmi di aria salmastra per riequilibrare il mio organismo.

Il musical ha lo scopo di allietare e far riflettere raccontando storie, fatti, idee, emozioni, di presentare la realtà da altre prospettive, di immaginarla, di sognarla appunto. Per questo motivo, puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Ogni artista deve essere un sognatore. L’elemento naturale dell’arte è proprio il sogno, l’immaginazione. Rimanendo nel mio ambito, quando si allestisce uno spettacolo, tutto si deve svolgere in uno spazio e in un tempo ristretti; grandi per quanto possano essere, sono sempre concentrati in specifici momenti, in determinate misure. I concetti stessi di tempo e di spazio perdono la loro consistenza naturale. Si entra letteralmente in un’altra dimensione, si vive in un altro mondo e le emozioni che ne scaturiscono fanno emergere aspetti e risorse di noi stessi, che in altri contesti rimangono sopiti, nascosti. Quando dormiamo facciamo sogni che a raccontarli hanno la durata di un film. Invece studi scientifici hanno dimostrato che noi sogniamo per tempi brevissimi, della durata di qualche secondo. Lo stesso avviene quando si entra nella dimensione dell’arte. A tal proposito Shakespeare stesso ha usato proprio queste parole: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”. Più chiaro di così… Il mio sogno nel cassetto è quello di vivere di musica e di vedere le mie creature (così considero i miei lavori) camminare con le proprie gambe. Purtroppo, dopo pochissime rappresentazioni, entrambi i musical vivono segregati nel dimenticatoio. Mi piacerebbe che, insieme ai lavori che verranno, girassero per i teatri e le piazze, regalando emozioni alle platee di tutto il mondo.

Qual è l’ultimo lavoro di cui ti stai occupando?
Da diversi anni sto lavorando a un nuovo musical, “La leggenda del Faust”, tratto dal romanzo di W. J. von Goethe. La trama si svolge intorno a tre personaggi principali: «Faust, vecchio filosofo e scienziato che, stanco della vita, decide di farla finita e cerca di suicidarsi ingerendo un potente veleno; Mefistofele, creatura infernale che assume le sembianze umane per corrompere Faust attraverso un patto siglato col sangue: la giovinezza e la gioia di tutti i piaceri della vita in cambio della sua anima. E poi Margherita, giovane fanciulla di sani principi morali che, per amore, si dà a Faust, dal quale viene sedotta e abbandonata, ma che sarà la protagonista assoluta del finale». A differenza dei due musical precedenti, sto realizzando quest’ultimo a partitura continua, cioè tutto cantato - senza parti recitate - come avviene nel melodramma e in molti musical. Il progetto è ambizioso. Il testo l’ho tratto da una traduzione in italiano del libretto originale dell’opera “Faust” di C. Gounod, curata da O. Cescatti, che io ho rielaborato. È strutturato in due atti; il primo l’ho quasi terminato, mi resta da musicare tutto il secondo. Com’è nel mio stile, utilizzo tutta la gamma di strumenti musicali, da quelli classici orchestrali a quelli più moderni, quali i suoni elettronici, intrecciandoli insieme per dare colore all’arrangiamento. Gioco molto sull’armonia, stando sempre attento a mantenere i giusti equilibri con la melodia, affinchè il tutto risulti originale e piacevole all’ascolto.

Alcune parole per i giovani.
Accostatevi alla musica, nei modi e nelle forme che più vi sono congeniali. Tra tutte le arti, la musica è quella più fruibile. La si può ascoltare, la si può eseguire, la si può creare. Tutto dipende dalle attitudini e dal talento. Non bisogna sforzarsi di essere musicisti a tutti i costi per diventare famosi; il risultato finale sarebbe devastante e, in ogni caso, non si farebbe arte. Ma imparare a suonare uno strumento musicale, anche a livello amatoriale, può rendere la vita più leggera e compiuta. La musica può servire per rilassarsi, per sfogarsi, per farsi compagnia. Chi fa musica non è mai solo. Così si evita di cadere in stati di solitudine che potrebbero portare a conseguenze pericolose. Tra tutti i pregi della musica, un posto di rilievo lo ha sicuramente l’aspetto terapeutico. La musica è vita. Allena la mente e nutre lo spirito. Dunque:
- esaltatevi con la musica, non con la droga;
- parlate di musica, non di violenza;
- armatevi di musica, non di strumenti di morte;
- impegnatevi a infondere rispetto rispettando, e non a incutere paura.
Buona musica a tutti.

giovedì 16 dicembre 2010

Pensieri visivi: INNO ALLA MUSICA di Antonio Barresi. Un'interpretazione

- di Saso Bellantone
Al centro, una figura senza testa che suona il violino. È seduta su una pietra tombale, all’interno di un cimitero. Da un lato, un sentiero che conduce a un castello in lontananza. Dall’altro lato, un candelabro accesso e una croce. Gli alberi sono morti. Il cielo è nuvoloso. Strisce di nebbia fluttuano con fare spettrale.
Per incontrare i segreti di Inno alla musica quest’opera, occorre, per impiegare una metafora musicale, guardare alle note sul pentagramma ricordandosi della chiave di violino. Il violino, suonato dalla figura senza testa, è la chiave dell’opera. Ma una chiave di violino, si sa, è insensata senza pentagramma e note, così come le note senza pentagramma e chiave significhino soltanto se stesse, e nient’altro. A primo impatto, la figura senza testa che suona il violino rapisce l’osservatore, lo incanta, estraniandolo da tutto il resto. Si comporta quasi come la chiave di violino sullo spartito: domina. Ma uno spartito non finisce nella sua chiave: prosegue, invece, tra una nota e l’altra fino al bianco vuoto. Mediante il musicista, il cantore, l’orchestra, la partitura giunge all’ascoltatore e alla natura, trasformandosi in altro e compiendosi, divenendo musica: vive. E quando finisce la sua trasfigurazione, riecheggia ancora, perché vuole ritrovarsi, vuole ricominciare, vuole tornare di nuovo se stessa, di nuovo musica: vuole vivere un’altra volta. Uno spartito è tutto questo ma anche Inno alla Musica. Per questo motivo, l’osservatore deve trovare la forza di rompere il sortilegio della figura senza testa e, ricordandola, deve volgere lo sguardo altrove, verso lo sfondo, il contesto e la superficie dell’opera. In questo modo, la sua osservazione si tramuta in un viaggio: dall’opera all’etere e da quest’ultimo di nuovo all’opera, e così via all’infinito. In questo movimento, la figura senza testa inizia a incarnare tutto il resto, tutti gli altri elementi e ad eseguire la propria ode, trasformando l’osservatore in colui che ascolta l’Inno alla Musica e in un danzatore vivo.
L’opera ricapitola il mistero della vita e s’inaugura evidenziando quel tratto tipico che fa sì che la vita sia vita: la morte. È un panorama terribile, spettrale, sepolcrale l’esistenza: un immenso cimitero dove c’è posto per il Tutto, tranne qualcosa: la musica. Quest’errabonda senza dimora né volto, non trova mai pace. L’immaterialità, invisibilità, vaporosità, intangibilità, fugacità, occultabilità, sono le maglie della sua fatalità: un’eterna erranza e debolezza che, nel contempo, consacra la sua potenza senza eguali. La musica infatti non conosce prigioni né limiti, neppure l’ultimo dei confini: la morte. Quando Tutto è finito, quando l’esistenza tutta riposa nella grande catacomba di se stessa, la musica sopravvive e continua a vagare, senza corpo, immateriale, leggera, inviolabile, fugace, celata. Questo suo girovagare nella morte del Tutto, non è la fine: la musica continua a essere musica e, vagabondando nel niente, non fa altro che sostare là dove c’era l’esistenza e adesso c’è soltanto un cimitero. In questo non-luogo, la musica non è silenziosa, altrimenti non sarebbe se stessa. La musica è musica: è un inno che senza tempo esegue, perfino quando Tutto è morto, perché in questo modo è se stessa. E se nella morte c’è la musica, allora non c’è la morte bensì la rinascita.
La musica è l’Ultima Vivente, l’ultima speranza, l’ultima salvezza del Tutto appena morto. Il violino in primo piano forma assieme all’archetto una croce e questa ha la stessa inclinazione della croce dorata posta di lato. La musica è una speranza più forte di quelle delle religioni, una salvezza più umana, rappresentata dalla sua capacità di riverberare, invisibile e percepibile. Il riverberarsi della musica, anche dopo la morte, è la possibilità del rinascere della vita (il candelabro), persino dalla morte, dal niente. La morte si assottiglia innanzi alla musica così come la nebbia che inizia danzare nella musica; così come le nuvole che iniziano a diradarsi per far posto alla chiarezza del cielo e alla luce del Sole, simboli della tenacia e della gaiezza della vita. In questa prospettiva, la musica è l’ultima fortezza dell’esistenza (il castello), anche nel dopo la morte, l’ultima sicurezza, l’ultimo “sentiero” che conduce la vita, malgrado sé, alla rinascita. Un albero spoglio, morto si avvicina alla musica come magnetizzato da essa, controvento, mentre l’erba del prato sepolcrale è spinta dal vento nella direzione opposta. La musica è una Musa senza testa perché (per via della sua immaterialità, invisibilità, vaporosità, intangibilità, fugacità, occultabilità) non può essere “afferrata”, non può essere compresa razionalmente. È il linguaggio originario e universale della vita, su cui si fonda la possibilità di un’eterna salvezza della vita stessa, anche nel suo ciclico morire. Una parola fatta di quel che riempie di significato la stessa esistenza: le emozioni.

martedì 14 dicembre 2010

IL GOVERNO RESTA E LA CRISI DEI PARTITI PURE

- di Saso Bellantone
Mai l’Italia è stata col fiato sospeso così com’è avvenuto in questi giorni per via del voto di fiducia/sfiducia al governo Berlusconi. I quotidiani, le televisioni, le radio, il web, tutti si sono districati all’interno di un tortuoso labirinto fatto di pronostici, profezie, scaramanzie, bilanci, sondaggi, calcoli, favole e paparazzate, ma alla fine tutto sarebbe stato deciso dal voto. E così è stato.
Dopo una fiducia pressoché discreta al Senato (162 sì/ 135 no), il governo Berlusconi ottiene anche un’esigua fiducia alla Camera (314 sì/311 no). Nulla è cambiato, dunque (scissioni a parte): si và avanti. Ma le cose sarebbero cambiate se l’esito delle votazioni fosse stato all’inverso? Se si fosse creato un governo tecnico, con o senza la vecchia maggioranza? Se si fosse tornati al voto? Con amarezza, bisogna ammettere che non sarebbe cambiato nulla lo stesso. Perché il problema non è soltanto Berlusconi ma la politica in generale.
L’Italia attraversa infatti da parecchio tempo ormai (solo che nessuno la vede o fa finta di non vederla) una crisi peggiore di quella economica e dei valori: quella dei partiti. Nel tempo della morte dei vecchi ideali (fascisti, comunisti, cattolici, repubblicani ecc.), questi spauracchi arrugginiti si sdoppiano, si triplicano, si moltiplicano all’infinito e, tinteggiandosi innumerevolmente di nuovi simboli e nuove sigle, continuano a stuprare instancabilmente, annichilendole, le parole del popolo, tra le quali democrazia, libertà, valori, giustizia, unità, lavoro e via dicendo. Tutto questo avviene non soltanto allo scopo di garantire il potere nelle mani di pochi (la casta) ma anche per amplificare la cesura tra potenti e impotenti, tra ricchi e poveri (le masse, o gli italiani) e, alla fine, per consentire un domani a pochissimi, sul piano internazionale, di giocarsi a dadi il destino della Terra.
I partiti, questi vecchi spaventapasseri con abiti nuovi, non corrispondono più ai bisogni della popolazione. Non c’è contatto con la gente e le nuove leve sono soltanto degli sfortunati che, nella loro ingenuità, sono più soggetti al lavaggio del cervello o che, nella loro fragilità, si lasciano stregare più facilmente dal tintinnio delle tasche piene. Non ci sono idee, solo miraggi. Non ci sono programmi, solo fotocopie di fandonie utili per realizzare i propri interessi personali a scapito di tutti gli altri. C’è troppo individualismo, un generale culto-ricerca del leader che somiglia più a una silenziosa imposizione di un nuovo totalitarismo anziché a una democrazia parlamentare e rappresentativa. Non importa di quale partito si parli: all’interno di ognuno, non c’è carriera né merito, soltanto un accettato asservimento a un meccanismo gerarchico, clientelare, nonnista e trasformista che premia chi ha più quattrini, più amici, chi è più bravo a rendere partecipe tutti gli altri del potere, escludendo il popolo.
È evidente, in questa prospettiva, che le cose non cambieranno mai per gli italiani: né con questa votazione, né con le altre. Tutto resterà uguale, finché ci saranno questi partiti, capeggiati dai soliti matusalemme (e duplicati) e difesi a spada tratta dai barbagianni vagabondi che, pur avendo fatto il loro tempo, continuano a fare proseliti, a fare altri schiavi come loro (ma non se ne rendono conto, forse). L’esito della votazione di oggi, deve far riflettere tutti: se non ci sarà una rivoluzione istituzionale, che segni la morte definitiva dei vecchi partiti e politici e la nascita di nuovi movimenti e nuovi politici, totalmente estranei a quelli passati, non si potrà parlare di Terza Repubblica né di politica. Dunque, nemmeno di innovazione e di futuro.

lunedì 13 dicembre 2010

PARADOSSI TEMPORALI

- di Saso Bellantone
Un giorno, salita a bordo della propria astronave, Karen decise di lasciare Kaos, il proprio pianeta, e di avventurarsi nelle viscere dell'universo. Era partita sperando di conoscere altre civiltà e di imparare da queste ultime in quale maniera era possibile salvare la propria dalla minaccia dell'estinzione. Nel corso del viaggio al di là dei confini del tempo e dello spazio, tra infinite stelle e altre dimensioni scorse un piccolo pianeta, molto simile a Kaos. Metà del pianeta era completamente desertico, mentre l’altra metà sembrava un paradiso. Al centro della linea equatoriale, vi era una sorta di grande occhio rosso, somigliante a un piccolo Sole. Incuriosita dalla visione, decise di sbarcare su di esso. Cominciò ad avvicinarsi e, una volta superata l'atmosfera, capì che il grande occhio rosso che aveva visto prima non era altro che un immenso falò... continua a leggere

domenica 12 dicembre 2010

L'ARTE PERIFERICA: INTERVISTA A MARIO LO CASCIO

- di Saso Bellantone
Musicista, musicoterapeuta compositore, produttore musicale e strumentista (pianoforte, tastiere, chitarra classica ed acustica, lira calabrese, fisarmonica, percussioni, fiati e corde popolari), Mario Lo Cascio nasce a Pignola in Basilicata il 24 ottobre del 1964 e attualmente vive a Bagnara Calabra. Ha suonato, per citarne alcuni, con Phaleg (Re Niliu’s factory), Capueira Chamarel, Marikuyè, Walking trees, Fabulanova. Attualmente suona con i Mattanza e i Discanto. Ha pubblicato con i Discanto l’album Chista Maìa (2005) e come solista l’album Luce Buia (2010). Ha scritto musiche per cortometraggi, televisione e teatro. Ha partecipato a diverse produzioni teatrali e spettacoli tra cui Jesus Christ Superstar (regia di Ivo Monte – compagnia Opera Broadway). È autore ed interprete delle musiche di Pidocchio o Napoleone con Valerio Strati, Happening con Antonio Ferrante, La violenza di Giuseppe Fava, regia di Luciano Pensabene, Raskòlnikov tratto da “Delitto e castigo”, per la regia di Ernesto Orrico e Valerio Strati, della compagnia Carro di Tespi, interprete e co-autore de Il suono e la parola con Mimmo Martino e interprete in Cantu da Passioni con i Mattanza, tutti attualmente in produzione.

Come ti sei avvicinato alla musica?
E’ una passione che risale all’infanzia e che ha avuto un percorso spesso accidentato, sicuramente disordinato ma bellissimo; passato attraverso studi diversi (pochi), generi diversi suonati, posti di ogni genere, stimolanti collaborazioni; un divenire mai domo, una ricerca ancora ricca di dubbi, spinta dagli accadimenti, dalle cose che trovi sulla strada e che ti suggeriscono di volta in volta i progetti da abbracciare, i generi, persino gli strumenti da utilizzare. Ma soprattutto un percorso di consapevolezza che ha indicato con chiarezza le scelte da fare, prima fra tutte quella di vivere di musica, che è un lavoro e non è solo quello, quando sai che è la tua strada; il pianoforte che è come casa tua e gli altri che sono come quando intraprendi un viaggio senza una meta precisa. A volte pensi che è la musica che si è avvicinata a te, a volte hai l’impressione forte che sono in tanti, da qualche parte, a suggerirti una nota dopo l’altra, che c’è qualcosa di più grande dietro quello che riesci a vedere o a sentire e che il viaggio deve continuare per questo.

Come avviene il tuo passaggio dalle band a questa nuova esperienza da solista?
In realtà è un passaggio non ancora avvenuto, anzitutto perché i gruppi occupano ancora un posto importantissimo nella mia attività musicale; in secondo luogo perché anche il live di quest’ultima esperienza è pensato e desiderato in gruppo (la formazione dei prossimi appuntamenti di Luce buia prevede pianoforte, violoncello, violino e percussioni). Questo naturalmente non esclude la possibilità e la voglia di suonare da solo, quando ce ne sarà l’occasione; quello che è certo è che sono due esperienze veramente diverse. Realizzare questo disco da solo è stato faticosissimo, proprio dal punto di vista musicale, credo avvenga perché è solo attraverso di te, le tue mani che deve passare tutto quanto, tutta l’emozione, tutto il senso, tutto nel tuo suono, è una responsabilità che si sente davvero tanto; e poi è innegabile che il gruppo ti aiuta tanto, soprattutto quando suoni con persone che sentono come te e che ti rendono tutto leggero. Di certo questo fiume partito con Luce buia e con il teatro è stato per molto tempo un fiume sotterraneo ma che mostra segni e… sogni di rapide e cascate alla luce del sole.

Qual è l’essenza della musica? Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della musica sia a livello individuale sia sociale?
Se domani un evento terribile e straordinario ci riportasse alle origini di tutto, assolutamente privi di ogni cosa, di ogni oggetto materiale, nudi, padroni solo del nostro corpo, quante delle cose alle quali diamo una grandissima importanza non avrebbero di colpo più senso? E cosa rimarrebbe nella nostra vita? La nostra immaginazione, i pensieri e la voce; potremmo ancora ascoltare (o forse potremmo tornare ad ascoltare) il rumore del vento, dell’acqua; potremmo ancora cantare una ninna nanna ai nostri bambini, cos’altro? L’emozione, i sentimenti, i ricordi…, tutto materiale buono per creare melodie da cantare, storie da raccontare, da disegnare col dito per terra o da interpretare come attori. Io non so qual è l’essenza della musica, ma intuisco che è qualcosa di molto più importante e grande di quanto riusciamo a percepire. È qualcosa che ci appartiene molto più intimamente di quanto immaginiamo; qualcosa a cui apparteniamo come note e silenzi sul pentagramma di una sinfonia più grande. E quindi lo scopo della musica è forse quello di tenere vivo il ricordo delle origini, quello di assegnare un posto degno ai sentimenti, di coltivare l’emozione, di far germogliare pensieri, di conservare insomma le cose che resteranno alla fine. La musica è ciò che ci permette di tenere in equilibrio le cose tra il bellissimo caos delle emozioni e la preziosa disciplina dei pensieri e quindi di trovare la strada della consapevolezza. Questo comporta un grande senso di responsabilità nel lavorare con la musica (lo dico come musicista e come musicoterapeuta): l’utilizzo di un suono, di un rumore, di un brano piuttosto che un altro cambia tutto per chi ascolta, può influenzarne la mente e il cuore, bisogna tenerlo presente. Non amo l’intrattenimento, né quando l’arte viene asservita all’intrattenimento, la devastazione più grande provocata dalla sub-cultura dilagante di certi programmi televisivi e il più grande rischio per i ragazzi che si avvicinano alla musica è quello di anteporre l’apparire, il successo (che non significa nulla), l’obiettivo di occupare un posto nel bestiario della tv alla sacralità dell’arte di cui siamo messaggeri. Naturalmente anche nell’intrattenimento possono essere comunicate emozioni importanti, questo dipende dalle intenzioni di chi suona e dal grado di consapevolezza di chi ascolta, la musica può anche essere leggerezza ma non superficialità.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo si è trasformata di linguaggio in linguaggio fino a diventare, in italiano ad esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. In questo senso, consideri “poesia” la tua musica? In altri termini, intendi la tua musica nel senso di arte, di creazione?
Ho forse, in parte, già risposto a questa domanda, ma non posso e non so dire se c’è poesia in quello che faccio. Spero tanto di sì, spero che chi ascolta la mia musica si senta sollecitato a domandarsi delle cose, che senta le emozioni che si muovono. Partecipiamo tutti, continuamente, alla creazione, ma non tutto va nella stessa direzione, per fortuna. Non so dire neanche quanto passa di noi stessi in ciò che facciamo né quanto sia importante; musica e parole fanno risuonare in modo diverso le orecchie e il sentimento di ognuno, a prescindere, spesso, da ciò che ha ispirato l’autore, ma credo che il punto non sia tanto il cosa, nello specifico, si muove dentro di noi ma il fatto che qualcosa si muova, avviando un percorso di consapevolezza.

Perché componi? Perché senti l’esigenza di comunicare mediante l’arte della musica?
Una volta, in un momento in cui le faccende familiari giornaliere (sacrosante) erano particolarmente pressanti da non lasciarmi spazio per la musica, ho pensato e ho detto a chi mi stava vicino che mi sentivo perduto, che senza suonare era un casino, che non ce l’avrei fatta. Suonare è l’aria che respiro, è ciò che mi permette di essere quello che sono, è ciò che dà un senso alle cose. Come possiamo pensare di esistere per dormire, per il bar la mattina, per la spesa, il pranzo, i soldi, i panni da stirare, i particolari che fanno chic la casa, la partita dell’Inter, lo shopping, la tv, facebook e la pizza al sabato con gli amici?! Se non mettiamo il sentimento in tutto quello che facciamo, se non ci domandiamo il perché, se non ascoltiamo la voce dell’emozione che ci guida anche nel più piccolo gesto quotidiano, allora forse ci stiamo solo affannando a riempire un vuoto, un vuoto enorme. Credo che l’esigenza di comunicare appartenga a tutte le persone, per poter vivere pienamente la propria vita. Riuscire a farlo (o almeno avere la possibilità di provarci), con l’arte a cui apparteniamo, è forse un privilegio? Non lo so. Ho sempre pensato che se ognuno potesse fare nella vita ciò per cui è venuto al mondo, il mondo sarebbe migliore.

Che cosa racconti con la tua musica?
Qualcuno ha detto che qualunque cosa diciamo, parliamo sempre di noi stessi. Forse è vero, ma non è affatto riduttivo. Dentro noi stessi c’è tutta la strada che abbiamo percorso, tutte le persone che hanno fatto parte della nostra vita, tutti i sentimenti, i dolori, le gioie, tutto ciò che hanno visto i nostri occhi, udito le orecchie, toccato le mani; dentro noi stessi c’è tutto il mondo. La musica nasce sotto le dita, mentre gli occhi e le orecchie della mente vanno a fissarsi su qualcosa, assorti. La musica che compongo è mia quanto di chi l’ascolta, allora voglio rispondere con le parole e i segni scritti da alcune persone del pubblico alla presentazione di “Luce buia”: «riescono a dondolare, come fossero un’altalena, il nostro umore, le note………ti conducono da un prato verde alle onde di un mare in tempesta,………ti prendono per mano e si curano di te,……in attesa di un evento e sento il freddo e la ricerca di calore,………una donna guarda da una finestra, ricerca nel passato, nella memoria,……» «la preparazione, l’attesa, il valore di ogni attimo, la bellezza……delle vibrazioni che producono le cose,……la bellezza esplosiva della primavera, della natura che sboccia dentro e fuori e che ci insegna a lasciarci andare,………la luce dell’amore e delle emozioni, che squarcia le tenebre delle distanze e dell’abbandono…».

Un artista porta alla luce quei particolari dell’esistenza ai quali, nella quotidianità, non facciamo caso. Se però è privo di lettori, di ascoltatori, di pubblici, un artista può sentirsi tale?
Penso che un artista non si senta mai tale. Fa quello che sente senza preoccuparsi della destinazione di ciò che scaturisce dal suo lavoro, a meno che non si tratti di qualcosa di commissionato, ad esempio per il teatro o altro, ma anche in questo caso, il momento della creazione non è influenzato dal pensare a chi l’ascolterà. Si tratta di due momenti separati, molto diversi, quello della creazione e quello della performance, che deve essere come un dono fatto a chi ascolta. Io non sono un sostenitore dell’immagine dell’artista solitario sulla torre d’avorio: la musica è comunicazione ed è quindi naturale l’obiettivo e il desiderio di confrontarsi con il pubblico; è un momento importante e magico che ci mette in contatto con le nostre emozioni più profonde, che fa venire allo scoperto le nostre insicurezze e tutte, tutte le mancanze del lavoro di preparazione (se ce ne sono). Certo è anche il momento in cui bisogna tenere a freno la voglia di apparire, di sentirsi arrivati e importanti, e quando hai davanti tanta gente che ti ascolta non è facile per nessuno, ma va fatto, come un esercizio, altrimenti si perde di vista ciò per cui ti trovi lì e che è veramente importante. Nella creazione quanto nella performance, una buona predisposizione credo possa essere il pensiero di doversi rivolgere sempre ai bambini, alla loro semplicità e innocenza.

Che cosa significa oggi vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Questa è la cosa che, nei secoli, credo sia rimasta tale e quale. Ho l’impressione che chi cerca soldi e successo orienta il suo lavoro in quella direzione (e naturalmente non è da biasimare, se non per le conseguenze globali che questo può avere sui fruitori dello spettacolo in generale, sulle loro possibilità e capacità di distinguere l’arte dall’intrattenimento fine a se stesso, e quindi di preservare la propria mente ed il proprio cuore dalle cose futili). L’arte non ti fa sconti, ti chiede la coerenza delle intenzioni, di non tradire i sogni, ti chiede l’impegno civile e quello dello spirito, e di questi tempi tutto questo non paga o paga poco. I sacrifici si fanno, ma con piacere, perché tutti i soldi del mondo non possono darti neanche una briciola della bellezza che scaturisce da questa missione, per noi stessi e per quelli che ci stanno vicino. Nei due cd pubblicati finora, ho ringraziato per prima la Provvidenza che ci spinge su questa strada e non ci fa mancare il necessario.

Che cosa ti spinge a restare nel Sud?
Tante cose semplici e importanti, come gli affetti familiari e di moltissimi amici. Sono calabrese d’adozione, e pur essendo molto legato alla Basilicata (mia regione d’origine), in buona parte, considero la Calabria come la mia terra, e proprio il mio lavoro, con la musica e la musicoterapia, mi ha aiutato a conoscerla meglio (con un po’ di presunzione aggiungo meglio di tanti calabresi). Qualche tempo fa ho partecipato a una riunione di musicisti reggini dove si lamentava appunto l’impossibilità di lavorare nella propria terra, perché spesso vengono preferiti artisti di diversa provenienza geografica; non condivido molto questo discorso, un musicista per la natura di quello che fa, spesso deve spostarsi in Italia o anche all’estero, la musica viaggia per definizione, guai se non fosse così, non è come l’acqua minerale che ognuno potrebbe bersi la sua. L’arte, la cultura vive dello scambio e del confronto con altra arte e altra cultura, così si alimenta, si evolve. Altro discorso è la condizione della nostra terra, anzi direi soprattutto della nostra gente e del modo di vivere che si è scelto, con il quale alla fine, facciamo tutti molta fatica. Ho avuto modo di dire, e continuo a pensare, che questa è terra di missione e che, consapevolmente, si rimane solo per quello, consapevolmente non so quanti scelgono o sceglierebbero questo posto per il piacere di starci, diciamo che restiamo qui perché non smettiamo mai di sognarcelo come un posto migliore.

Rendendo più evidenti gli stralci di vita che passano inosservati dai più, in un certo senso un artista si mostra un sognatore. Che genere di sognatore? Chi è capace di concretizzare i sogni che vede – e che gli altri non vedono, presi dal tempo quotidiano – e di comunicarli agli altri. Attraverso la tua musica hai avuto la possibilità di realizzare tanti di questi piccoli sogni: esiste in te, però, come si suol dire, un sogno nel cassetto che ancora rincorri, che ancora desideri realizzare?
Ricollegandoci al discorso della domanda precedente, sogno questa terra migliore di adesso, ma sogno anche di viaggiare ancora tanto. Sogno di vivere in campagna, ma non troppo lontano dal mare. Sogno di avere più tempo per le persone care, gli amici, più tempo per cercare e studiare le mie conchiglie (che colleziono). Sogno un bel film con la mia musica e un pianoforte a coda. Sogno di riuscire a tirare su i miei figli come brave persone e di scrivere per la donna che amo la canzone più bella del mondo. Sogno e prego per un mondo più giusto e spero che la mia musica riesca a dare alla causa un piccolo contributo. Sogno perché il desiderio delle cose ci tiene in vita, non i soldi, non le cose, per quanto belle possano essere. Il desiderio è il motore di tutto e sto ben attento a tenermi dei sogni di riserva, anche per quello che ci sarà dopo la vita di adesso.

Il titolo del tuo ultimo album è Luce buia. Che cosa significa “luce buia”?
Questo ossimoro è un’invenzione di Giuliano, mio figlio, pronunciata per descrivere la luce di una giornata con un sole fortissimo ma coperto a tratti da grosse nuvole scure, arrivata magicamente a dare un senso e un filo conduttore al lavoro del cd in preparazione, a partire dal brano che avrebbe preso questo titolo. Io guardo molto il cielo, con il sole o le nuvole, mi rasserena e riporta le cose alla loro vera dimensione. Amo in particolare quel tipo di luce dove coesistono il bianco e il nero delle cose, testa e croce della moneta, l’immagine e l’ombra. È quello che c’è in questa musica, dove si parla di famiglia e di figli con la gioia e le ansie; del vento, meraviglia e paura di essere portati via, di lasciarsi andare; di quotidianità e grandi imprese, di rabbia e impegno, di attesa, preparazione e desiderio; di morte e di vita al di là della morte; di posti bellissimi e incasinati, come Napoli (o come Bagnara); di persone speciali e delle loro fragilità; di amore: semplicità e bellezza infinita. E’ la luce buia, appunto.

Quali sono gli altri progetti di cui ti stai occupando?
Vorrei occuparmi solo di “Luce buia, adesso, ma la musica è anche questo insieme di voci, diverse, a volte molto diverse tra di loro che convivono nello stesso momento. Anche in questo, però, devo dire di aver avuto la fortuna di poter selezionare progetti di una certa qualità artistica: Mattanza dove stanno confluendo l’esperienza e le canzoni nate con i Discanto (il nome del tour 2010 è stato “Comu na carizza”, frase tratta dalla “Luna turca”, brano inciso con i Discanto appunto, e ormai parte del repertorio Mattanza), ma anche l’arrangiamento dei nuovi brani in lavorazione. In particolare è in atto una collaborazione a un progetto molto interessante per la realizzazione di una compilation di brani del Banco di Mutuo Soccorso, a cui prendono parte Tom Waits, De Gregori, Jovanotti, Battiato, Finardi, Zampaglione, Cristicchi, Bennato e… i Mattanza, con un brano bellissimo dello storico gruppo, che ho avuto il piacere di arrangiare, insieme ad alcuni compagni di lavoro, e che vedrà la partecipazione vocale di Francesco Di Giacomo.
Poi c’è il teatro, con il quale ho la fortuna e la soddisfazione di scrivere ed eseguire, a volte dal vivo, la mia musica, nelle produzioni già elencate nella scheda iniziale. Ma soprattutto, nella mia testa, in questo momento ci sono le note di quest’ultimo lavoro, per il quale sto immaginando e cercando di creare una performance speciale che ha a che fare anche con la mia deformazione professionale musicoterapeutica, con l’utilizzo di immagini e la partecipazione attiva del pubblico, ma principalmente con la musica del pianoforte e, come già accennato, del violino, del violoncello, delle percussioni orientali, con l’elettronica e chissà cos’altro.

Oltre ad acquistare i tuoi album e assistere ai tuoi concerti, chi desidera seguirti e saperne di più sulla tua musica, dove può rivolgersi?

Alcune parole per i giovani.
Non sono bravo a dare consigli, non sono stato bravo ad ascoltarli. L’esempio credo serva molto di più, l’esperienza insegna. Ma un’ultima cosa da aggiungere forse c’è, una piccola storia, una visione:
Vedo un ragazzo che indossa vestiti alla moda, mette il gel sui capelli, ha comprato una chitarra bellissima e costosissima, e centomila watt di potenza dell’amplificazione fanno arrivare il suono alle stelle. Quando suona, le luci e l’altezza del palco lo fanno sembrare e sentire una star; si fa una canna e beve qualcosa di forte per sentirsi più sicuro di sé. Dice a tutti che suona con gente che ha suonato con gente che ha suonato con il cugino di uno che conosceva personalmente Santana. Tutti, tutti quanti gli dicono che è un genio nel suo genere, che ha talento da vendere, che presto lo vedranno in tv. Poi gli succede davvero. Ma quando arriva davanti a tutta quella gente, che voleva sentire lui e che si aspettava di avvertire un movimento, anche piccolo, del cuore, cominciano a tremargli le gambe. E allora si accorge di non essersi preparato bene, di non aver studiato abbastanza il repertorio, che avrebbe fatto meglio a rompersi il culo a provare e provare invece di affidarsi completamente al suo “grande talento” e, soprattutto, si accorge di non avere niente da dire. Vedo la gente che lo guarda un po’ delusa e sento due persone che, mentre vanno via, dicono che il ragazzo aveva un vestito molto bello.
Beh, in conclusione, spero che i ragazzi si accorgano, prima possibile, che la musica è altrove.

sabato 11 dicembre 2010

LA CRISI... ARRIVEDERCI A DOPO LE FESTE

- di Saso Bellantone
Ah! La crisi la crisi! Le tasse aumentano, il costo della vita pure, gli stipendi e il lavoro invece, non solo diminuiscono ma cominciano anche a volatilizzarsi. Per questo motivo gli italiani s’incazzano, scioperano, protestano, si lamentano… Non si arriva a fine mese, a volte manco all’inizio del mese, i giovani sono a spasso perché come afferma giustamente qualcuno “Il sapere non paga”, la sanità và a rotoli, la ricerca và all’estero, le aziende chiudono in Italia e aprono altrove per abbattere i costi (cioè per pagare di meno gli operai, altri operai), il Mezzogiorno è soffocato dal problema dell’immondizia, dall’assenza di strutture e infrastrutture, di fabbriche, di imprese e di consorzi. L’acqua è sporca, gli alimenti provengono spesso da zone contaminate, l’aria è irrespirabile, i bambini sono sempre ammalati, gli anziani sempre da soli e i poveri sempre più pazzi. Le strade sono distrutte, le frane continue, i trasporti sempre più rovinosi e costosi, i resti storici, archeologici e artistici abbandonati, come si suol dire, all’acqua e al vento, e intanto si continua a finire l’eterna Salerno-Reggio Calabria, si progetta il ponte sullo Stretto e si osa imporre alla popolazione la creazione di una centrale a carbone a Saline Ioniche. Ci si lagna degli sprechi, dei brogli, dei contratti multi-milionari di calciatori, veline e dirigenti delle più grandi società; si brontola per via della criminalità, delle rapine, degli abusi sessuali sui minori, degli omicidi, dei rapimenti, del razzismo, del fondamentalismo e fanatismo religiosi, del sì o no alla croce a scuola, del sì o no ai simboli padani nelle scuole; si mugugna che i politici non fanno bene il loro mestiere, che i partiti sono soltanto un vuoto miraggio, che la giustizia non è uguale per tutti e, alle volte, neanche quella divina. Insomma, si manifesta il proprio scontento per tutto a causa della crisi economica e si è furiosi come bestie: le lamentele sembrano arrivare alle stelle, per bussare alle porte del Creatore e chiedere un miracolo… ma ecco che arriva il Natale…
Quanta neve! Quante illuminazioni! Quanti alberi e presepi! Quanti Babbi Natale che s’arrampicano sui camini o sulle inferriate dei balconi! Quante vetrine colorate! Quanti spot! Quante canzoni natalizie! Quanta tredicesima (chi ce l’ha)! Per fortuna dei politici e dei burocrati, il Natale giunge prodigiosamente per salvare governi, poltrone e teste, operando un generale lavaggio del cervello degli italiani. Per effetto di questa grande illusione, la gente si ritrova narcotizzata, diventa deficiente, smemorata. Non conosce più il termine “crisi”, non la vede, non la percepisce più. Invasata dell’aria del Natale, dei cenoni, dei panettoni, delle tombolate, dei regali, dell’apparenza, diventa più buona, più sorridente, più speranzosa. E intanto chi manda a rotoli l’Italia tira un respiro di sollievo e asciuga il sudore della fronte, generato dalla costrizione di stare per giorni, mesi, anni incollato a una sedia (non quella del parlamento, bensì quella di casa propria o di hotel in riva al mare o in montagna) per fare i propri interessi e non quelli degli italiani. Poi, quando l’anestesia natalizia avrà terminato il suo effetto e, come per incanto, ci si ritroverà davanti alla vecchia Italia che s’inabissa sempre più nel mare della decadenza, tutti torneranno a incazzarsi, a scioperare, a protestare, a contestare a causa della crisi… tanto dopo arriverà la Pasqua e ci sarà un’altra tregua tra i belligeranti: i potenti (i politici e i burocrati) e i nullatenenti (il resto degli italiani).
Ah! La crisi la crisi! Se interessa davvero superarla, cari italiani, occorre boicottare l’illusione del Natale e costringere i vecchi e soliti politici e burocrati, troppo legati al potere, a fare l’unico gesto intelligente della rispettiva carriera politica e dirigenziale: andarsene tutti a casa e passare il testimone ad altri, possibilmente ai giovani.

giovedì 9 dicembre 2010

L'ALBERO DELLA CUCCAGNA

- di Saso Bellantone
In questi giorni se ne sentono di tutti i colori: il governo non ha la maggioranza; il governo ha fallito la sua missione; bisogna andare al voto; occorre creare un governo tecnico per attuare le riforme; “l’Italia ha bisogno di me”; “Non mollerò mai”; “Siamo pronti per governare”; terzo polo, polo nord, polaretto, Pollicino, polenta… per farla breve, chiacchiere di svariata natura tornano alla moda allo scopo di confondere le idee degli italiani e tenerli occupati con altro, mentre tutti i boscaioli e i cavalieri dell’UDC, FLI, PDL, PD, PIPI, P8, COLPITO E AFFONDATO, insomma tutti i parlamentari si preparano per tornare al giardino dell’Eden, chi con asce e motoseghe, chi con scudo e lancia, e decidere le sorti del governo. La preparazione psicologica di questi taglialegna e paladini per stabilire il destino dell’albero della conoscenza del bene e del male è così seria che è paragonabile a quella di un fachiro che è allergico agli spilli del letto sul quale dovrà sdraiarsi o a quella di un asceta che, allontanatosi da ogni fonte di peccato della società industrializzata per raggiungere la purezza spirituale, contempla i misteri della natura e del Creatore studiando a fondo un giornale erotico.
Ricorrendo all’arte divinatoria del sospetto generato da decenni di governi fatti sempre con le solite teste, gli italiani cominciano a scorgere visioni premonitrici di quello che accadrà il 14 dicembre (fortunatamente non è il 25 dicembre, altrimenti queste vedute avrebbero anche assunto un significato mistico-religioso). Tra le quali, la seguente.
Al centro del paradiso terrestre-Italia, s’intravede solitaria la pianta con i frutti proibiti che più di una volta i parlamentari hanno addentato: il potere. A un certo punto, molti guerrieri valorosi, difensori del monopolio finora gestito, cominciano a disporsi innanzi all’albero della conoscenza del bene e del male con fare deciso. Da lontano, invece, si scorgono arrivare gli spaccalegna con denti aguzzi e la bava alla bocca, lisciando l’ascia e oleando la motosega, i quali non vedono l’ora di gustare nuovamente il frutto vietato e tenerselo tutto per sé. È il silenzio. I due schieramenti si osservano immobili con gli stessi avidi sguardi. Tutto è fermo. Poi le lance cominciano a percuotere gli scudi, una dopo l’altra, finché riproducono all’unisono il ritmo del loro cuore impavido che batte all’impazzata. Di pronta risposta le lame delle motoseghe iniziano a girare e il rumore del motore di ognuna riverbera nell’atmosfera la stessa sete vampira che corrode il loro spirito. È un frastuono quasi apocalittico. Tutto incomincia a vibrare. Fino al momento in cui una mela cade dall’albero e, rotolando, finisce proprio in mezzo alle due divisioni. Quando questa si ferma, le prime linee delle rispettive armate partono all’attacco, lanciando grida battagliere. Ma a un passo dal nemico, avviene quel che era prevedibile: tutte le lance e tutte le motoseghe si fermano. Nessuno riesce a colpire. Tutti iniziano a tremare e lasciano cadere in terra le armi. Tutti i cori da battaglia si deprimono per lasciare posto al suono di un pianto che si diffonde in ogni dove. Taglialegna e Paladini si abbracciano, si stringono forte l’un l’altro, in lacrime, decidendo di smettere di guerreggiarsi. Poco dopo, si siedono tutti quanti, amici come prima, intorno all’albero della conoscenza del bene e del male e mangiano insieme il frutto proibito, promettendosi la pace, per un’altra legislatura.
“In fondo – dice uno – che cos’è l’albero della conoscenza se non un albero della cuccagna?! Un’Eldorato tutta per noi, da spartirci noi e soltanto noi?!”.
“Hai ragione! – replica un altro – Anzi, per commemorare questo momento, perché non sacrifichiamo qualche migliaio di schiavi, cioè di lavoratori, disoccupati e inoccupati?”.
“Sìììììììì!” – urlano tutti, invasati dal sapore del potere.
E nel bunga bunga generale, di destra di sinistra e di centro, i parlamentari si riconobbero come un’unica tribù, costituita da un’unica casta sacerdotale devota al dio Potere, in guerra contro il resto degli italiani.

Morale della favola: l’avidità di potere della classe politica dirigente, trova sempre il modo per fare miracoli a proprio esclusivo vantaggio. Il 14 dicembre, non cambierà nulla per gli italiani.