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martedì 25 febbraio 2014

OCEANO MARE di Alessandro Baricco


- di Saso Bellantone
Un pittore. Una ragazzina. Un professore. Un prete. Una donna. Un naufrago. S'incontrano tutti alla locanda Almayer, una pensione a un passo dalla spiaggia e dal mare. Chi cerca l'inizio del mare, chi la fine, chi cerca in esso la vita, chi la dimenticanza, chi l'etica, chi la fede; ognuno a modo proprio cerca se stesso, cerca l'oceano del proprio mare, l'ispirazione, la libertà, il coraggio, l'intelletto, la comprensione, l'accettazione di essere quel che si è, così come si è. Come acque spinte da correnti diverse, le storie di questi personaggi s'incontrano e si scontrano, si mischiano e si distinguono per trovare nella differenza d'altri la propria identità e il proprio destino. È una ricerca folle, senza regole né stelle fisse né prospettive; un'esplorazione degli abissi del conscio e dell'inconscio, a caccia di quell'onda, la giusta onda, che possa dare un senso al passato e al futuro. Ma non si sa da dove parta né dove finisca quest'onda. Si è insicuri, impotenti, alla mercé del fato e del tempo e tuttavia curiosi, ingenui, pronti a cavalcarla. Pronti a lasciarsi condurre da essa verso l'infinito celato nel proprio finito, esattamente come quegli strani bambini che popolano la locanda, la cui presenza, nella camera di ognuno, è nel contempo insolita e ordinaria, quasi per rispolverare la propria essenza dimenticata. È un mistero la perla del proprio essere. Un segreto che nasconde al suo interno il vero volto di ognuno, invisibile e impalpabile, come l'uomo che abita la settima stanza e che nessuno ha ancora visto, la cui presenza tuttavia è assodata, chiara, indubitabile. Tutti sanno che l'uomo della settima stanza c'è. Tutti sanno che il senso della propria esistenza c'è. Tutti sanno che quello è il posto giusto in cui cercarlo. L'oceano, è nel mare ma quest'ultimo è ovunque. Persino dentro di sé.

In Oceano mare (Feltrinelli, 1993), Alessandro Baricco propone un'escursione nelle profondità dell'animo umano, chiarendo ciò che accomuna ciascuno di noi nel viaggio dell'esistenza: la ricerca di sé. Nella diversità di percorso intrapreso, accadono svariati incidenti e giochi del fato e tuttavia c'è un momento in cui il cammino di ognuno s'interseca e prosegue per brevi tratti con quello d'altri. Ignari dell'importanza di tali passeggiate, è proprio in questi istanti che si scorge se stessi e s'intraprende il sentiero del proprio destino. Non ci si rende conto della loro centralità perché è impossibile individuare quali e quanti sono questi incontri. Soltanto alcuni, o tutti? Come stabilirlo, dal momento che non si è mai perfettamente coscienti di sé, anzi, si è in cerca di sé? Quel che è chiaro, è che tali incontri sono fondamentali, essenziali, decisivi. Decidono per noi o noi stessi decidiamo inconsapevolmente per mezzo di essi. Quando poi le strade si sono ormai separate, noi torniamo in noi stessi, siamo già noi stessi e... continuiamo a non accorgercene, mai.  

mercoledì 19 febbraio 2014

sabato 15 febbraio 2014

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Domenico Canale


Domenico Canale nasce a Reggio Calabria nel 1970. Inizia a studiare il violino classico nel 1980 per poi dedicarsi allo studio dell'amonica blues, strumento che ormai predilige. Nel suo modo di suonare si può riscontrare un'attenzione particolare la blues feeling, senza però rinunciare alle contaminazioni rock, funky e jazz, vera linfa vitale delle 12 battute. Durante I primi anni della sua carriera ha avuto modo di conoscere e di suonare con diversi musicisti di fama internazionale come Andy J. Forest, Freddy & The Screamers, David James, Sam Lay (uno dei grandi batteristi di Muddy Waters e di Paul Butterfield) e con gli italiani Gigi Cifarelli, Vince Vallicelli, Angelo Morabito, Pippo Guarnera, Blue Staff, Dino Triassi (amico e collega armonicista palermitano) e la partenopea Hell's Cobra Blue Band. Nel 2003 partecipa alla registrazione del secondo lavoro discografico del bluesman Angelo Morabito Shadows of Blues. Si è esibito in diverse rassegne e festival, tra le quali Vicenza Blues 2002, Barocco Blues Revue 2003, Peloro Blues Festival 2003, Etna Blues Festival 2007 e 2009 (dove con la sua band Bad Chili ha aperto rispettivamente agli artisti Joe Bonamassa e Ana Popovich), Crossroad Blues Festival 2010. Ha dato vita nel corso degli anni a diverse formazioni musicali per poi concentrarsi su quelle più impregnate dell'ormai famigerato “Effetto Chili”: Bad Chili – Blues, Rock e un pizzico di Funky - Classica formazione rock blues (voce, armonica, chitarra, basso e batteria) la cui grinta e il feeling restano impressi indelebilmente nella memoria di chi ascolta; Light Chili – Electro Acoustic Power Duo – padre e figlio, armonica, dobro, valigia di cartone, washboard e tanta passione per l'avventura, un duo da locali con il quale hanno partecipato al Ferrara Busker Festival 2010 e 2011, Capo D'Orlando Blues Festival 2010 e al Nasker Festival di Naso 2012. Sempre in quest'ultimo anno partecipa alla registrazione del singolo dei FilmNoir Voglio a
mmazzare un impiegato, dal quale viene poi tratto un video. Nel 2013 partecipa in qualità di ospite alla registrazione del disco Twin Rivers del chitarrista e cantante siciliano Marco Corrao, con il quale ha recentemente formato un duo impegnato a portare in giro per l'Italia la propria personalissima visione musicale.


Come ti sei avvicinato alla musica?
Come spesso accade, in maniera casuale: da bambino vidi un film in televisione su Niccolò Paganini, restai tremendamente affascinato dalla figura di un uomo che, nonostante fosse riuscito a raggiungere notorietà e successo, continuava a considerare se stesso solo in relazione alla musica.
Iniziai allora lo studio del violino per capire cosa c’era di così speciale in questo modo di vivere, di usare le note al posto delle parole per comunicare le emozioni in maniera fluida e senza filtri.
L’avventura della musica classica continuò per alcuni anni fino alla scoperta di un linguaggio e di uno strumento più immediati e più consoni al mio modo di ‘sentire’: il blues e l’armonica.

Che cos'è la musica?
Non credo esista una risposta univoca ed esauriente a questa domanda, e forse questa è la cosa più affascinante della musica: ognuno ha la sua risposta.
Per quanto mi riguarda è semplicemente una componente essenziale della vita, una necessità, un bisogno che va alimentato ed assecondato.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della musica, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
La musica, più di altre forme d’arte, ha il dono di educare alla bellezza.
Sono sempre stato dell’idea che molti dei problemi presenti nella nostra società non esisterebbero se si educassero i piccoli abitanti del pianeta allo studio ed alla pratica della musica.
Equilibrio, armonia, senso del tempo, coesistenza di più voci (argomenti) nello stesso discorso, rispetto dell’altro, ascolto, importanza del silenzio.
Questi sono solo alcuni dei valori che la musica trasferisce in chi la pratica e la studia. E lo fa con estrema naturalezza.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio , la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire i tuoi brani “poesie”, opere d'arte, creazioni nel senso pieno del termine?
I brani che suono in pubblico sono spesso “poesie maledette”, ma non sono miei.
Basta ascoltare Mr. Son House in “Death Letter” per capire quanto una canzone possa riuscire ad essere profonda, evocativa, triste e sarcastica al tempo stesso.
Da quando ho iniziato a conoscere e vivere il blues raramente ho sentito l’esigenza di scrivere canzoni. Affascinato dalle parole di improbabili antieroi, ragazzi e uomini di 60-80 anni fa, ho deciso di reinterpretare i loro brani mettendo in pratica spesso un’operazione di ri-scrittura musicale. E anche questo è “creazione”, secondo me.

Perché suoni? Perché senti l'esigenza di comunicare mediante la musica?
Suonare è una necessità. Lo è per me, come lo è per tanti colleghi musicisti di mia conoscenza.
E’ una cosa che non ti aspetti, all’inizio suoni perché ti fa stare bene e per avere la possibilità di esprimerti in maniera diversa, poi passa il tempo e ti rendi conto che hai sempre più cose da dire, capisci che quello che prima era un gran bel divertimento adesso è un modo di essere, di sentire e di rapportarsi agli altri.
Soprattutto capisci che, grazie alla musica, riesci a trasmettere sensazioni intense e personali a persone che non hai mai visto in vita tua.

Che cosa raccontano i tuoi brani?
Le canzoni spesso non sono altro che storie, storie comuni che, grazie alla musica, assumono forma poetica.
Personalmente preferisco raccontare me stesso e il mio modo di vedere ciò che mi circonda.
Ammetto di riuscire a farlo con molta più facilità grazie all’armonica che non con le parole.

Un artista può sentirsi tale senza i pubblici?
Per come la vedo io non è possibile. Ho sempre considerato il pubblico come la componente più importante della band. Quando riesci a comunicare veramente si forma un legame tra te e chi ti ascolta che ti permette di esprimerti al meglio, contemporaneamente nasce un dialogo con il pubblico e, secondo le risposte che quest’ultimo fornisce, il concerto prende forma sempre in maniera diversa.

Che cosa significa oggi vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Non è il mio caso, quando ero molto giovane mi ritrovai genitore di un bellissimo bambino, decisi allora di mettere in stand-by (che sofferenza) la mia vita musicale per trovare un lavoro… che non mi sarebbe piaciuto!
La pausa è durata poco, un anno o giù di lì, visto che avevo già realizzato di non poter esistere a prescindere dalla musica, e adesso mi ritrovo a suonare, lavorare, non dormire e soprattutto, ad avere un figlio (sì proprio quello, il frutto del peccato) che ha deciso da un paio di anni di vivere da solo e solo grazie alla musica.
I sacrifici ci sono, non sempre si ha la sicurezza “del pasto caldo” ed è difficile fare programmi a lunga scadenza. Ma, quando lo guardo, vedo una persona felice della propria vita… e che vuoi di più?

Cosa ti spinge a restare nel sud?
Mi piace questa terra, le sue contraddizioni, il suo sole.
Mi piace pensare che ci sono realtà musicali di tutto rispetto che non aspettano altro che essere ascoltate.
Mi piace sapere che il feeling con il quale qui si suonano certi generi non sia così facile da trovare in posti in cui è più facile farsi notare.
Mi piace pensare che, grazie all’arte e alla musica, si possa contribuire a dare una ragione in più per restare.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Siamo tutti sognatori, anche se non tutti riescono a prenderne atto.
Il sogno è il motore che ci spinge a fare cose folli e per questo bellissime!
Il mio sogno? Te ne dico uno dei tanti: organizzare nella mia città un festival internazionale di musica da strada che duri almeno un paio di settimane!
Ho partecipato ad alcuni di questi festival e l’atmosfera che si respira è meravigliosa, i cittadini sono meravigliosi. Mi piacerebbe importare nella mia città la gioia di vivere che ho sperimentato altrove.

Chi vuole saperne di più su di te e sulla tua musica, dove può rivolgersi?
Basta fare una ricerca su facebook, reverbnation e youtube per ascoltare e vedere all’opera i fortunati possessori del famigerato Chili Effect!
Le parole chiave sono: Bad Chili – Light Chili – Travelling Blues Duo


oppure può trovarmi su:
o scrivermi a:
domenico.canale@gmail.com

Alcune parole per i giovani.
Prendete uno strumento in mano, strimpellateci qualcosa, convincete altri amici a fare lo stesso.
I ricordi migliori che ho della mia giovinezza sono per la maggior parte legati alla musica.
Grazie alla musica ho conosciuto gente meravigliosa, ho vissuto esperienze al limite dell’incredibile, mi sono divertito in maniera diversa eppure più intensa, ho assaporato l’avventura del musicista di strada, ho visto luoghi che non avrei mai pensato di raggiungere… grazie alla musica ho vissuto in maniera diversa!
Qualunque cosa vogliate fare nella vita, la musica ne può fare parte e vi farà stare bene!



giovedì 13 febbraio 2014

Versieri: DOVE CONDUCE LA NOTTE di Carlo Menga


- di Saso Bellantone

Una candela rossa
e un fischio di pipistrello;
un muro grigio e fioco
che può sembrare un castello.
Ragionando per gioco
col proprio mucchio d'ossa,
è bello che un poco si possa
indovinare
dove conduce la notte.

La notte... Amica tanto attesa, nemica detestata, presenza, o assenza, ricorrente nel corso della nostra permanenza in questo “posto” soggetto da sempre alle più disparate interpretazioni e congetture. C'è chi la brama già alle prime luci dell'alba, chi invece la disprezza in ogni bianco istante; c'è, anche, chi vive soltanto nel suo grembo, poiché all'interno di esso si cela, e si mostra, il mistero del “posto” in cui ci si trova. Egli si interroga, vaneggia, sogna e si lascia andare in teorie e fantasticherie simili a tesori, per i pazzi, e a miseria, per i savi. Eppure costui vive, sì, vive... Vive il tempo sconnesso di un “posto”, apposto e alla rovescia assieme. La luce di una candela tiene compagnia. Rossa, sì, come il colore del volgare “capo d'anno”, in quanto è nella notte che si nasconde, e si manifesta, la fine e l'inizio. Già... la fine, e l'inizio, di questo “posto” matto e logico nel contempo, nel quale si è relegati malgrado sé, finché la fine finisce e l'inizio... inizia. Fa paura soltanto a pensarci... la fine e l'inizio, istantanei, fugaci, effimeri, come il fischio di un pipistrello... nella notte, sì. Nella notte. Dove riposa il segreto di questo “posto”, il suo cominciare e il suo terminare... Dove tutto può apparire, contemporaneamente, per quello che è e che non è. Come un muro, antico e debole può avere l'aspetto di un castello rievocante altri tempi o... viceversa. Come un uomo, vecchio e stanco, può sembrare un dio o... soltanto un uomo.
Qui, nella notte, niente è definito fuorché la notte, il buio, l'incapacità di vedere e, anche, l'abilità di sapere la propria mortalità, finitudine, caducità, in questo “posto” che, come donna timida e imbarazzata e confusa, non vuole spogliarsi degli abiti che occultano la sua bellezza, la sua verità. E allora si gioca, si immagina, ci si illude, si tenta a indovinare l'enigma che tanti altri pensatori e poeti e amanti e semplici mortali hanno fatto prima di noi, invano. E ciò, coscienti della propria mortalità, ha un che di bello, di incantevole, di meraviglioso. Perché, se non nella sua essenza, sempre “altrove” conduce la notte.
In questa poesia, che intitola l'omonima raccolta (Città del Sole, 2012), Carlo Menga esprime in pochi versi le emozioni provate dall'uomo innanzi alla notte. Ente dotato di un potere capace di stregare ogni vivente, la notte è il luogo primo della veglia, dell'esser desti, dell'interrogarsi intorno al senso e alla definizione di questo “posto” chiamato mondo. Nella notte, in compagnia della fioca luce di una candela, attraversato dal brivido che la domanda stessa suscita, l'essere umano pensa e gioca e ragiona e ironizza sul mistero dei misteri, l'enigma dell'enigma, l'esserci cioè, come un surplus, in un luogo che non ha volto né concretezza nonostante la propria materialità, presenza, evidenza. Sconfitto da una domanda che non troverà mai risposta alcuna, è bello indovinare, tentare, pronosticare finché se ne ha il tempo; finché il tempo stesso, non ha svelato ormai la malattia di cui siamo infetti, soltanto per essere innanzi alla notte nel porci, oppure no, il suo interrogativo: la nostra mortalità.

giovedì 6 febbraio 2014

Supersantos


- di Saso Bellantone
Lentamente, la nave oltrepassava le calme acque dello Stretto, proprio come un millepiedi attraversa una distanza pari ai gradini dell'uscio di una casa. Lentamente, la rondine solcava il cielo blu in direzione del proprio nido, proprio come pescespada salta oltre la schiuma marina per rintanarsi nella sua tana. Lentamente, le automobili scorrevano per la via principale del paese, proprio come i barattoli di legumi sopra il nastro trasportatore all'interno di una catena di montaggio. Lentamente. Pacatamente, passava la vita nel piccolo paese del Meridione. Come se tutto fosse avvolto nelle maglie di un sogno appena cominciato. La fila alla posta o al bar centrale, le ore di scuola o quelle sul posto di lavoro, la mano a tressette dello zio o la cottura della parmigiana della nonna, tutto avveniva a rilento, passo passo, senza fretta, come se il destino di quella bella giornata primaverile fosse già segnato, deciso, stabilito da qualcosa, o qualcuno, che si prendeva tutto il tempo necessario per l'importanza del momento.
Lentamente il supersantos rimbalzava sulle brune piastrelle che ricoprivano la terrazza e lentamente Lazzaro gli andava dietro, per afferrarlo con le sue manine, lanciarlo nella direzione opposta, riprenderlo e scagliarlo nuovamente dall'altra parte. Era felice, Lazzaro. O meglio, non sapeva nemmeno lui che cosa provava. Era, semplicemente, su quel terrazzo, assieme al pallone e ai movimenti automatici e privi di ragione che la palla stessa gli imponeva di compiere. Correre, saltare, andare, tornare, afferrare, lanciare, stare. Stare, sì, seduto per un tempo incalcolabile e indescrivibile sopra la sfera arancione e a linee nere, finché gli adulti non sarebbero apparsi dal nulla e l'avrebbero riportato a casa sua. Ma gli adulti, quegli strani esseri alti e grossi non comparivano, e lui se ne stava seduto sul pallone, dondolandosi avanti e indietro, tenendosi sorridente alle sbarre della balconata.
Fu allora che accadde.
All'improvviso.
Come temporale sotto il cielo azzurro, come boato in un silenzio sepolcrale, Lazzaro sentì. Sentì qualcosa colpirlo immaterialmente, calarsi dentro di lui, riempirlo dalla testa alla schiena, facendo vibrare le sue orecchie di un suono tonante, profondo e acuto nel contempo. Come riemergendo dalle acque o svegliandosi di colpo da un lungo sonno, Lazzaro capì che stava respirando, sentiva l'aria entrare dentro di lui, riempirlo e svuotarlo armonicamente, costantemente, senza possibilità di opposizione alcuna. Abbassò la testa e scorse il suo corpo, il suo petto, la sua pancia, le sue gambine. Si ritrovò seduto sul supersantos, con le mani aggrappate all'inferriata che dava sulla via principale del paese. Vide la nave e lo Stretto, il millepiedi e i gradini della casa di fronte, la rondine e il pescespada. Udì il cinguettio della prima e il fracasso del corpo del secondo che sbatteva sul mare. Udì il rumore delle automobili e quello della catena di montaggio sotto il palazzo, le voci della gente in fila alla posta e al bar, quelle dei bambini a scuola e degli operai sul proprio posto di lavoro, quella della zio che chiamava l'asso e dell'olio che friggeva le melanzane. Percepì il profumo dell'aria, la sua freschezza sfiorare timidamente la sua carne. Avvertì il cattivo odore dello scarico della macchine, la fragranza della frittura proveniente dalla cucina della nonna, il sapore della saliva nella bocca, la morbidezza del supersantos su cui era seduto, la freddezza dei ferri a cui era aggrappato. Captò quell'indecifrabile senso di movimento, di dinamismo, di vitalità che coinvolgeva tutto, tutte le cose facenti parte di quell'ambiente che gli stava attorno e di cui soltanto in quell'istante si era accorto.
Si alzò di scatto e guardò il pallone su cui era seduto poco prima. Era sconvolto e provava pace nel contempo. Non capiva cosa gli stesse accadendo. Gli sembrava di essere stato catapultato su quella terrazza da chissà dove, da un luogo nascosto di quell'ambiente in cui si trovava. Si sentiva pesante, si girò rapidamente pensando qualcosa, o qualcuno, si fosse appoggiato a lui, sulla sua schiena, ma non c'era niente, non c'era nessuno...
Sentì qualcosa pulsare dentro di lui, un ritmo ignoto e familiare nel contempo, incomprensibile ma già udito, nuovo ma già sentito in qualche altro posto... Mise una manina sul petto e avvertì la sua pressione. La tolse e, alzata anche l'altra, cominciò a osservarle entrambe. Strani segni le attraversavano. Le lasciò cadere ai suoi fianchi e scorse nuovamente la palla colorata immobile sotto di lui.
Non capiva e non aveva paura, eppure gli sembrava di sapere già quello che stava accadendo. Poi corse.
Corse dentro, nella cucina, in direzione della mamma, seduta innanzi alla nonna che preparava la parmigiana, e la strinse a sé. Riconosceva il suo volto, forse, era l'unica certezza che aveva in quel momento di confusione e di innata consapevolezza che avvertiva.
Stringendosi più forte che poteva alle braccia di lei, l'immagine del pallone abbandonato sul terrazzo fissa nella sua testa, si chiedeva, per la prima volta, pur sapendo già la risposta, come fosse stato possibile di essersi svegliato soltanto adesso.

martedì 4 febbraio 2014

Disconnect


- di Francesco Denaro
Cosa hanno in comune un ragazzo introverso, amante dei Sigur Ros, preso di mira da due bulli e fatto oggetto dei loro sadici divertimenti, fingendosi una ragazza innamorata di lui; una coppia che ha appena perso un figlio piccolissimo, che fa di tutto per ritrovare la sintonia perduta e che rimane vittima di una frode che ne prosciuga il conto in banca; una giornalista che per realizzare “il pezzo” della propria vita, decide di contattare un ragazzo che si spoglia per soldi davanti ad una telecamera, per raccontarne la storia? Il Web.
Disconnect (2012, regia di Henry Alex Rubin) racconta tre storie parallele di vita quotidiana che ruotano intorno al lato oscuro di Internet, intrecciandosi tra di loro, evidenziando come il cattivo uso dei social network e il fornire, involontariamente, proprie informazioni private possa condurre a pericolose strade senza uscita. È una delle più belle pellicole viste di recente, realizzato da attori poco noti ma assolutamente all'altezza e chi ha apprezzato il film premio Oscar “Crash” non potrà non amarlo.
Disconnect fa riflettere su quanto sia invasivo il web, su quanto possa condizionare le nostre vite e se effettivamente siamo noi ad usare questo strumento o, viceversa, lo Strumento ad usare noi. In principio ci si connetteva un paio di ore al giorno per via della tecnologia dell'epoca ma con l'avvento di tablet e smartphone si è conessi 24 ore su 24. Si ha il mondo a portata di mano, possiamo avere notizie in tempo reale e rimanere costantemente connessi con gli amici attraverso i social network. Questi programmi, hanno ormai sostituito le piazze, gli oratori e tutti i luoghi dove in passato si socializzava, ci si conosceva, ci si innamorava guardandosi negli occhi. Sono agorà di spettri, gente senza volto dietro ad una tastiera che crede che ciò che avviene in rete resti in rete, che nascondendosi dietro ad una foto o ad un nick si possa essere chiunque o dire qualsiasi cosa, tanto poi spento il dispositivo tutto termina. Purtroppo, come racconta il film, non è proprio così: ciò che fai nel web si ripercuote spesso violentemente nella realtà.
Naturalmente internet non è il male assoluto, è semplicemente uno strumento donatoci dal progresso. Spetta a noi avere la coscienza e la responsabilità di saperlo usare.