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domenica 26 luglio 2009

E NON MI SI VENGA A PARLARE ANCORA DI RAZZE!


- di Saso Bellantone
È incredibile! Siamo nel terzo millennio: il pericolo di un impero nazista e comunista, con i rispettivi archetipi di tipi umani superiori (ariano e nuovo) è appena stato scansato…e ancora si afferma, ideologicamente, che esistono sul nostro pianeta varie razze di esseri umani???
Se proprio non si può fare a meno di usare questo vocabolo, bisognerebbe limitarsi a parlare di razza umana e non di razze umane. Sostenere l’inverso implica ritenere che tutti gli umanoidi che abitano il pianeta Terra non provengono dallo stesso primate, ma che risalgono a diverse tipologie: alcuni derivano dagli orango, altri dagli scimpanzè, dalla bertuccia, dal babbuino, altri provengono da pianeti e galassie diversi, altri ancora sono stati portati sul nostro pianeta dalla cicogna, altri nascono sotto i funghi e via dicendo.
Se soltanto uno di questi casi fosse possibile, come stabilire quale tipologia di umanoide è migliore o superiore rispetto alle altre? Questi concetti, compreso quello di razza, hanno valore in natura? Oppure sono solo dei vocaboli coi quali gli uomini edificano una visione distorta delle cose?
Forse è vero, non tutti proveniamo dallo stesso primate – e forse vi sono diversi ceppi originari dai quali, separatamente (nel tempo, nello spazio, nel clima, nell’habitat) si sono evolute differenti forme umane – ma come è possibile affermare, da un punto di vista ideologico e biologico, che esistono diverse razze umane? Nel primo caso, significa sostenere che Dio possiede un armadio pieno di diversi modelli umani bell’e pronti da riprodurre nel mondo a proprio piacimento: prima Adamo ed Eva, poi Rocco e Arianna, poi Igor e Ludovica, poi Alì e Issacar, poi Chen e Chung Lu, poi ET e TE e così via. Nel secondo caso, vuol dire ritenere che esistono forme di vita ‘umana’ differenti, vale a dire organismi viventi di fattezze umane che, però, nella struttura e nei processi interni, sono dissimili l’uno da tutti gli altri.
Se davvero ci siamo evoluti da diversi capostipiti o chissà che, sorge un’altra questione: come sono apparsi sulla Terra queste differenti tipologie? L’una indipendentemente dalle altre? Oppure è comparsa, all’origine, una prima tipologia di animale simile a quella che poi diverrà la scimmia, dalla quale, col passare di lunghissimi periodi evolutivi, derivano le diverse specie diffuse oggi in varie regioni del pianeta (comprese quelle scomparse)?
Ci troviamo di fronte al problema dell’origine della vita e della sua evoluzione in varie forme di adattamento storico-climatico, che ha prodotto in seguito modelli di vita più complessi quali i vegetali, gli animali e compagnia bella. La domanda è: la natura (o Dio, per alcuni) – riproducendo qua e là nel liquido primordiale gli stessi procedimenti chimici che hanno generato diverse forme di cellule eucariote, procariote e quant’altro – è stata così geniale a produrre in diversi luoghi, dissimili ma uguali generi di pesci, anfibi, dinosauri, chimere, pietre pomici, erbacce e ominidi? Oppure c’è riuscita una volta sola e da questo caso ha creato tutti i tipi? Come spiegare, in alcuni casi, i generi maschile e femminile? La natura ha creato prima la specie femmina e poi da questa ha generato il maschio? E la fecondazione? La femmina si è auto-fecondata e ha partorito due gemelli (i biblici Caino e Abele o altri per diverse tradizioni e culture) dai quali deriverebbe l’intero genere umano? Oppure la natura ha raggiunto per vie diverse vari prototipi umani?
È il classico problema dell’uovo e della gallina, insolubile per chi non possiede doti magiche, profetiche o sovrannaturali – e tecnologiche (ossia la celebre macchina del tempo). Da un lato sembra assurdo immaginare che ogni specie vivente si sia evoluta e moltiplicata da un unico tipo prodotto dalla natura nel brodo primordiale; dall’altra, è altrettanto assurdo pensare che la natura sia riuscita a creare più tipologie di specie, simili e diverse, dalle quali provengono tutte quelle conosciute e non. E se fosse più attendibile questo secondo caso?
Se è così difficile capire l’origine di ogni forma di vita terrestre, può essere così semplice e banale liquidare la questione della razza o delle razze umane asserendo con estrema certezza, sia idealmente che biologicamente, che esistono “più razze umane”? La questione chiama in causa la scienza, la quale, al di là di ogni darwinismo e teoria evoluzionistica finora escogitata – deve riconsiderare la questione a monte: vale a dire, ricominciare a immaginare situazioni originarie della vita, adoperando anche il buon senso. Ma che significa razza?
Il concetto di razza proviene dal francese antico haraz che vuol dire “allevamento di cavalli”. All’interno delle specie animali o vegetali, indica l’insieme di individui aventi caratteristiche simili; in antropologia, si usa per classificare gli uomini in “tipi”. In questo secondo caso, la distinzione degli uomini avviene a seconda delle loro caratteristiche fisiche che, secondo la “teoria climatica”, sono determinate dall’ambiente naturale.
Lo studio sulle “razze” si affermò all’epoca delle grandi esplorazioni geografiche che, fornendo un’abbondante varietà di “tipi umani”, stimolarono i tentativi di sistemazione delle diverse popolazioni in uno schema generale e “scientifico”. In questa carreggiata, si cominciarono a elaborare diverse classificazioni che avevano in comune un approccio biologico alla questione e si basavano su una combinazione di fattori anatomici e fisiognomici (colore della pelle, tipo di capelli, forma del cranio, del naso, statura ecc.). Ad esempio, alcune di queste classificazioni dividevano il genere umano in tre principali razze: negroide, mongolide e caucasica, ognuna a sua volta suddivisa in sottorazze.
Queste ripartizioni pretendevano far risalire alla “razza” le diversità culturali, storiche ed economiche delle diverse popolazioni. Verso la fine del XIX secolo, Joseph Arthur Gobineau, elaborò una teoria della razza fondata esclusivamente sulla cultura e sul “grado di civiltà”, che prevedeva una suddivisione delle razze in evolute o superiori e primitive o inferiori (e di qui si giunse al nazismo e al comunismo).
Nel XX secolo, lo sviluppo della ricerca genetica dimostra la fragilità dei precedenti approcci “scientifici”. Infatti, se prendendo in considerazione soltanto le caratteristiche “esterne” è possibile stabilire delle distinzioni, svolgendo un’analisi “interna” risultano solo minime variazioni genetiche tra una “razza” e l’altra e spesso in contraddizione con le variazioni fisiche esterne. Queste diversità genetiche avvengono soprattutto all’interno delle singole popolazioni in relazione all’habitat nel quale si vive (social-naturale) e determinano un rimescolamento dei geni e la comparsa di caratteri nuovi.
L’analisi scientifica del genoma umano ha messo in evidenza che non esiste alcun gene che si chiama “razza” (caucasica, amerindia, africana, mongola o chissà che) o che la decida. Piuttosto, ha dimostrato che diversi individui umani, presi ai quattro angoli della Terra, sono geneticamente quasi-identici. Forse la scienza non possiede ancora i mezzi necessari per svolgere un accertamento più accurato; forse in futuro dimostrerà che questo gene esiste. Ma fino ad allora, si tenga ben chiaro questo: l’idea di una diversità biologica delle razze in seno alla specie umana non ha alcun fondamento scientifico.
Questo è quanto ha stabilito l’UNESCO nella “Dichiarazione sulla razza”, un documento approvato a Parigi nel 1950, nel quale si afferma con una formula piuttosto semplicistica: “in base alle conoscenze attuali non vi è alcuna prova che i gruppi dell’umanità differiscano nelle loro caratteristiche mentali innate, riguardo all’intelligenza o al comportamento”.
Nonostante ciò, secondo la genetica moderna questo concetto può continuare a essere utilizzato non per descrivere una realtà immutabile, ma l’effetto di un processo di selezione naturale in continua evoluzione, che determina la diversa distribuzione delle caratteristiche genetiche nelle differenti popolazioni.
Se bisogna usare questo concetto, propongo di utilizzarlo in un modo più specifico, collegandolo a un altro vocabolo: terrestre. Dire “razza umana terrestre” non è la stessa che dire “razza germanica, etiopica, semitica o quant’altro”.
Dovremmo tornare a guardare le stelle (come facevamo sia da selvaggi sia nei momenti d’inizio delle più belle culture che caratterizzano la storia delle nostre civiltà) e cominciare a pensare in modo diverso. Bisogna sentirsi parte di un’unica specie vivente che abita il pianeta Terra assieme ad altre forme di vita diverse dalla nostra: quella umana. In sintesi, bisogna iniziare a intendersi tutti come dei “terrestri”.

lunedì 6 luglio 2009

TUFFARSI O NON TUFFARSI?

- di Saso Bellantone
"Tuffarsi o non tuffarsi? Questo è il quesito!" così si chiederebbe il povero Amleto se fosse nato nei tempi bui nei quali viviamo...Da mesi la questione della salute o malattia del mare, stranamente limitata alle sole coste tirreniche e in particolare a quelle calabresi, è il dramma che strazia migliaia di aspiranti balneanti, accaldati come pietre eternamente al Sole.
La voce della contaminazione delle acque marine calabresi si sparge in lungo e largo - e come per ogni voce, si diffonde secondo la legge del telefono senza fili - provocando cattiva informazione, confusione, paura e gesti di disperazione: vale a dire, tuffi carpiati, a capriola e/o a peso morto in acqua, ad opera di persone che non ci capiscono più nulla e scelgono la via della strafottenza.
Per quanto possa sembrare assurda l'idea di un mare tossico e nocivo per gli uomini, questa congettura - o realtà, chi sa decidere quale delle due opzioni è quella vera - impone a riflettere meglio al riguardo e capire bene di cosa si tratta: ossia, di una realtà, di una manovra anti-turismo contro le coste e, dunque, centri di balneazione, commercio e turismo calabresi, oppure di un'eventualità imminente.
Circa una decina di anni fa, molte persone si lamentavano di alcune macchie solari, che poi si trasformavano, in successione, in foruncoli dalla forma strana, croste lievemente dolorose, pustole con puss causa di dolori lancinanti. A quei tempi si credette che la causa di quei malanni cutanei fosse il Sole o la spiaggia sporca e non si prese in considerazione il mare.
Oggi mi chiedo se quei malori della pelle sono strettamente legati alla voce del "mare inquinato". Detto altrimenti, mi chiedo se è vero che il mare è malato, se ha un'influenza nociva per gli uomini - dunque se i malanni di dieci anni prima sono da considerare effetti provocati dalla cattiva salute del mare - oppure se è solo una voce anti-turistica e anti-economica, anti-calabrese.
Questo aut-aut impone, però, di chiedersi seriamente se il genere umano è capace di inquinare, contaminare, ammorbare, distruggere e uccidere un essere vivente come il mare, che ricopre la maggior parte della superficie terrestre. Il mare un essere vivente?
Già! Considerare il mare una semplice pozzanghera di proporzioni allargate su scala planetaria, un'entità morta che sta là dove si trova soltanto per incamerare i nostri rifiuti organici, industriali, farmaceutici, militari ecc., per lavare via la nostra puzza di sudore e la stupidaggine che fa piroette nella nostra materia grigia - se ce n'è - e per consentirci di farci qualche crociera, gita in barca o in pedalò - beh, ritenerlo tale significherebbe che l'evoluzione umana s'è fermata al capolinea! E con l'evoluzione s'è ossidata anche la capacità di pensare, dunque la ragione!
Per capire quanto è vera questa voce, non basta prendere qualche goccia d'acqua marina, analizzarla e verificare che si tratta di una menzogna! Innanzitutto perché il mare non è una pozzanghera! In secondo luogo, perché chi svolge questi test salutistici delle proprie acque, alla fine dice: "Da noi, il mare è sano! Potete fare il bagno...qua! Ma non altrove!"...appunto da noi oppure qua, che vuol dire a un tempo non da loro, non là: sono parole che indicano come la questione è presa alla leggera e per prendere per i fondelli noi, poveri e umili aspiranti bagnanti, che non arriviamo alla fine del mese, e vorremmo rilassarci due minuti liberandoci del caldo afoso di questi giorni!
Conoscere lo stato di salute del mare implica conoscere che cos'è il mare nella sua interezza - e questo ancora è un obiettivo della scienza, non un traguardo raggiunto. D'altro canto, pur non conoscendolo completamente, si potrebbe affidare a una squadra di studiosi il compito di verificare, esaminare e azzardare delle ipotesi al riguardo. Infatti, è vero che non conosciamo per intero la struttura del pianeta terra - in quanto non siamo mai scesi nelle sue profondità fino al nucleo, dunque potrebbero sfuggirci tante cose - ma è anche vero che abbiamo inventato degli strumenti per svolgere delle rilevazioni utili per la nostra sopravvivenza.
Quindi, penso che la questione della salute del mare deve essere presa sul serio, non soltanto per problemi di quattrini e di afa, ma in particolar modo per una questione di vita.
Il problema "salute o malattia" del mare suona in questo senso: il mare è inquinabile oppure no?.
Per rispondere a questo interrogativo bisogna, oltre che affidarsi primariamente alla scienza e agli scienziati, cominciare a porsi delle domande nella prospettiva della storia del genere umano e delle civiltà, concentrandosi sulla storia della civiltà industriale umana. Questo interrogativo si traduce nella domanda: tutti i rifiuti che noi produciamo da quando ci siamo evoluti dall'homo sapiens sapiens nell'homo industrialis o technologicus dove vanno a finire? L'aumento della popolazione provoca un aumento delle industrie: questo conduce a un aumento dell'inquinamento del mare? Quanto l'abbiamo insozzato finora? La crescita della popolazione e delle società tecnologicamente avanzate, non causa forse una crescita di cessi, lavandini e reti fognarie dove va a finire tutto il porcile che produciamo nelle nostre abitazioni? E una volta arrivate nelle fogne, le schifezze che produciamo, evaquiamo e generiamo, si perdono nel nulla? Oppure finiscono in mare?
Una ricerca svolta da alcuni studiosi americani, pubblicata su FOCUS maggio 2009, sottolinea l'enorme presenza nei laghi vicini alle grandi metropoli italiane - Milano, Roma, Bologna ecc. - di sostanze stupefacenti e principi attivi risalenti a specifici farmaci, oltre che una serie illimitata di porcherie provenienti dagli uomini. L'acqua di questi laghi s'intossica con gli scarichi fognari delle città vicine, condotto principale delle nostre urine e rifiuti organici. Questi studiosi evidenziano che quest'acqua è poi usata per irrigare i campi e abbeverare gli animali - dai quali provengono molti prodotti alimentari che finiscono sulle nostre tavole. La questione riguarda la vita e la salute umana.
Che dire, invece, di tutte quelle città le cui reti fognarie finiscono in mare?
Se il mare è veramente malato dipende anche da questo. Ma non si può dire: "Questo tratto di mare sì, quest'altro no!". Chiaramente qualche stralcio di mare può essere più o meno soggetto all'inquinamento, ma la questione riguarda l'intero genere umano e non solo quelli che vanno a tuffarsi nei mesi estivi.
Se è vero che il mare delle coste calabresi è intossicato, deve stabilirlo un'equipe di scienziati con prove certe e sicure, pensando che è una questione di sopravvivenza dell'umanità, non di soldi nè di caldo. Se è falso, dunque è soltanto una questione di quattrini, ossia una manovra per far circolare denari qua piuttosto che là, allora NON RESTA ALTRO CHE DISGUSTARSI!
E' il momento che la scienza metta il camice da medico e incominci a visitare il mare, su scala planetaria, al fine di vagliarne lo stato di salute/malattia; in secondo luogo, che continui a tenerlo sotto controllo. Perché?
Perché se il mare s'intossicasse veramente per opera dell'uomo, TI SALUTO EVOLUZIONE! TI SALUTO BUON SENSO E RAZIOCINIO! TI SALUTO MONDO VIVENTE! Detto altrimenti, si potrebbe alterare l'equilibrio dell'intero eco-sistema detto "Pianeta Terra" e rischiamo di andarcene all'altro mondo...oppure si corre il pericolo di trasformare il genere umano in una serie infinita di metamorfoidi con quattro orecchie, sedici pinne caudali, capelli sotto le unghie ecc...
Il cattivo uso del mare - ma anche della terra - come di un luogo nel quale liberarsi di tutto ciò che si vuole deve finire!
E per cortesia...LA POLITICA COMINCI A TELEFONARE ALLA SCIENZA PER PRENDERE UN CAFFè E DISCUTERE SERIAMENTE DEL PROBLEMA, AL FINE DI UNA SUA VELOCE, GENUINA E CHIARA RISOLUZIONE! Quel che è in ballo è la vita non solo nostra, ma anche dei piccoli già nati e dei nascituri che verranno. Il pericolo è la scomparsa o la trasformazione genitica del genere umano. Affrontare il problema in questo senso è "pensare a sopravvivere"!Dopo aver considerato il problema in questo senso, si può anche pensare a tutti quelli che desiderano lavarsi le campane, inferiori o superiori, nel mare!
Sia chiaro, il problema della salute/malattia del mare pone ai nostri occhi, più da vicino, la questione di una nuova gestione dei rifiuti organici, industriali e di ogni tipo, provenienti dalle nostre società industriali. Detto altrimenti, pone il problema di ri-pensare il rapporto tra il genere umano e il pianeta che abitiamo. Senza pianeta Terra, attualmente, noi non possiamo vivere...ma senza di noi, attualmente e secondo la nostra conoscenza dell'universo, non esiste più un pianeta Terra, nè un universo.

domenica 5 luglio 2009

IL GIRO DEL MONDO IN 80 GIORNI


- di Saso Bellantone
Non è una semplice scommessa per una questione di quattrini. Né una gita turistica attraverso i diversi paesaggi folcloristici della Terra. Né l’apoteosi del calcolo matematico applicato agli spostamenti umani su scala planetaria. La scommessa che origina il viaggio intorno al mondo del gentleman Phileas Fogg, esemplare “a” della società inglese di fine Ottocento, è piuttosto l’immagine simbolica che sintetizza alcune qualità specifiche dell’uomo nel viaggio dell’esistenza: creazione e previsione, illusione e anticipazione, volontà e azione. La scommessa è un’invenzione: vale a dire, un patto che gli uomini stabiliscono tra loro per sfidarsi pacificamente. Questa competizione consiste nella valutazione preventiva della possibilità o impossibilità di compiere una determinata impresa oppure nel pronosticare la riuscita o meno di un avvenimento compiuto da altri. Alla stima anticipata corrisponde una promessa di scambio di beni da attuare successivamente, in relazione all’esito dell’impresa o dell’evento su cui ci si è accordati. Si tratta, dunque, di una finzione che origina conseguenze concrete e convalidate dai contraenti, vale a dire l’attuazione reale dello scambio concordato. In questo senso, nel definire il vincitore e il perdente, ogni scommessa genera un trasferimento di beni. Chi vince, somma quanto è messo in gioco da altri a quanto ha messo in gioco egli stesso; chi perde, resta legalmente e definitivamente privo di quanto ha messo in gioco. Nelle civiltà del passato, la scommessa ha un ruolo decisivo per determinare il rango sociale degli uomini. Anche le guerre, in un certo modo, appartengono a questa dimensione. Ma non è questa la sede per scendere nei particolari. Terminati la scommessa e lo scambio, ossia la trasformazione sociale, l’uomo può giudicarsi pago oppure decidere di continuare a scommettere. Ma alla fine, che accade dopo la scommessa? Nulla, è finita e basta. Allora, perché scommettere? Perché pattuire scambi assieme ad altri? Perché sfidare altri in questo modo? Scommettendo, l’uomo vive, esiste, spera, gioisce, si arrabbia…prova sentimenti. L’uomo è drogato dei suoi sentimenti, ne è schiavo. Ha bisogno di provare sensazioni, emozioni, suggestioni, impressioni. Necessita di sentirsi vivo, in atto, partecipe di un qualcosa, di una qualche opera, di qualche evento, anche di quanto giudica impossibile. A ben vedere, dietro questa dipendenza del gustare, sentire, tastare, l’uomo urge soltanto di sé. La scommessa è tale in quanto, di fatto, si scommette sull’impossibile piuttosto che sul possibile. E che cosa è tanto impossibile, assurdo, insensato, illogico, irrazionale, incoerente, folle se non l’uomo stesso? Se non il suo desiderio di aver prova della sua esistenza, del suo esserci, del suo vivere? Se non la sua brama di essere partecipe di un senso, uno scopo, di una qualche verità, ordine, certezza? Che cos’è l’impossibile se non capire chi si è veramente, da dove si viene, dove si va? In un certo senso, ‘scommessa’ è una parola per dire l’esistenza in generale. È la sfida che l’uomo lancia a se stesso, speranzoso di trasfigurare l’impossibile nel possibile, vale a dire di trovare una risposta a tutte le sue domande. Nel caso in cui non ci riesce, con la scommessa l’uomo riempie il tempo che passa, sempre monotono e sempre uguale, prima della fine della propria vita. L’uomo ha bisogno di sfidare l’impossibile, l’assurdo, l’insensato, l’illogico, l’irrazionale, l’incoerenza, la follia che possiede egli stesso come frammento dell’esistenza in generale. Ha bisogno di sentirsi forte, potente, dotato, importante, sicuro di sé…se non un dio, necessita di giudicarsi almeno ‘responsabile’ nella radice latina del termine, vale a dire ‘capace di rispondere’ alla proprie domande. In questa prospettiva, uno degli elementi che colpisce de Il giro del mondo in 80 giorni è la totale assenza di una domanda, di un rinvio, di una chiesa, di un tocco di campana o quant’altro possa riferirsi alla fede (escluso il rito selvaggio e ancestrale a cui si assiste in India). L’assenza del sacro è il mare aperto grazie al quale è possibile compiere la più folle e insensata delle imprese, persino quella di fare un viaggio a tappe matematicamente perfetto intorno al mondo. In questa visuale, Phileas Fogg è il precursore del tipo umano del Novecento e del terzo millennio (se non dell’uomo in generale nel corso del tempo e della storia dei popoli). La scommessa di Fogg esprime il bisogno radicato nell’uomo di darsi uno scopo. È il chiamare alla luce la propria insensatezza e follia, la stanchezza di vivere le solite stronzate che riempiono la vita di un qualsiasi paese terrestre industrializzato. Questo bisogno, però, scade troppo spesso nel contingente: il desiderio di potere, per dimostrare a quei pochi conoscenti di cui ci attorniamo la nostra superiorità. Nella storia delle civiltà passate, infatti, generando trasformazioni sociali e scambi di beni materiali o astratti come l’onore, la scommessa è uno dei principali strumenti per affermare il proprio potere, consolidarlo o distruggere quello altrui. Nella nostra società non c’è nulla di diverso. Il gentleman di fine Ottocento è un tipo freddo, sicuro di sé, più preciso dell’orologio che porta nel taschino. È un senza-dio che non parla a vanvera, non spreca fiato per questo o quello, ma solo per sfidare il sentimento di potenza di qualcun altro oppure per attuare il potere di cui già è in possesso. La scommessa di una folle corsa intorno al mondo contro il tempo, è la sfida lanciata non solo agli appartenenti del club ma a tutti, al fine di dimostrare chi tra tutti è il più forte, chi tra tutti è capace di un’impresa così balorda e insensata, rispetto alla tranquillità e alla sicurezza delle nostre città, metropoli, paesi. In questo senso, il viaggio di Phileas Fogg sarebbe proprio un gioco di bambini, una stupidata. Invece, nel proprio viaggio, Fogg sfida tutte le proprie domande prendendone di mira una soltanto che le racchiude tutte: “A che scopo esistere?”. Ognuno di noi si limita a rispondere a questa domanda superficialmente, vale a dire tentando di dimostrare in tutti i modi la propria previsione, anticipazione, pronostico, dunque mostrandosi pregiudizioso, precostituito e inamovibile nelle proprie convinzioni. Ognuno di noi dice: “Io scommetto che questa è la vita…e posso dimostrarlo”. Fogg, invece, va in cerca della propria ragione per cui esistere senza preconcetti e alla fine la fortuna lo bacia. ‘Fortuna’…un’altra parola per dire l’impossibile. Fogg trova l’imprevedibile, trova l’amore. In questa prospettiva, vincere la sua scommessa con i soci non ha più alcun senso, perché trovare l’amore è la vincita più alta che un uomo possa aspirare. Ciò nonostante, Fogg vince anche la scommessa con i soci…ed è due volte baciato dalla fortuna.

IL CASTELLO DI FRANZ KAFKA


- di Saso Bellantone
Pubblicato nel 1926, due anni dopo la morte causata dalla tubercolosi, Il castello è uno dei romanzi più strani e misteriosi di Kafka nonché l’ulteriore esempio di come l’autore sia capace di guardare nelle profondità dell’esistenza umana, scorgendone i motivi essenziali e più nascosti che la caratterizzano. Per questo motivo, l’intera opera kafkiana è la testimonianza di un’intensa vita interiore ricca di domande, sconvolgimenti, paure, incertezze, esitazioni, sofferenze che lo scrittore ceco ha lasciato a noi posteri. Le sue storie si presentano come dei diari di bordo dell’uomo nell’insicuro mare dell’esistere. Diari, in balia dei flutti storici, che per un attimo finiscono dentro la fragile bottiglia che è la nostra vita. I protagonisti di queste storie sono come Teseo. Si ritrovano mortalmente in viaggio attraverso le cupe vie dell’esistenza, dietro le quali, pronto ad aggredirli, si cela sempre il Minotauro, l’eterna e infinita fame da parte del tempo, il suo scorrere inesorabile a scapito di ognuno, sullo sfondo dell’insormontabile punto di domanda intorno alla verità o non verità dell’esistere stesso, dunque del suo scopo.
Nel leggere queste storie, ci si sente strappati dalla propria vita e catapultati in quelle dei protagonisti. Malgrado sé, ci si sente condotti negli abissi di quelle storie da una forza bruta che, quando comincia a mancare l’aria, non fa risalire in superficie. Trattiene giù a perdita di fiato, per osservare un attimo ancora quelle storie così simili alla vita effettiva. O forse, per fare esperienza della principale condizione dell’esistenza umana: la mortalità. In ogni attimo si vive la propria fine ma l’attimo dopo si è ancora là, bisognosi di capire come finisce ognuna di quelle storie. Quando poi l’ultima macchia d’inchiostro scorre via oltre gli occhi, perdendosi nelle candide pagine restanti, solo allora quella forza lascia spazio (tempo) al respiro. Solo adesso si è certi che profondità e superficie sono la stessa cosa. Una certezza ottenuta a caro prezzo: il dubbio su tutto il resto. Non si sa più se si respira davvero, se per una volta nella vita si ha mai preso fiato realmente o se sarà possibile farlo in futuro.
Adesso, l’aria non sembra più aria. Tutto l’habitat nel quale si vive diviene assurdo, ognuno comprende quanto sia illogico, insensato, contraddittorio, impossibile persino se stesso. “Perché?” – è questa la domanda che risuona nel nostro intimo labirinto – “A che scopo vivere?” – così ognuno si chiede, guardando verso il colle su cui troneggia il Castello. Ma «la collina del Castello non si vedeva avvolta com’era da nebbia e tenebre, non il più fioco barlume indicava il grande Castello. K. stette a lungo sul ponte di legno che porta allo stradone del villaggio, e alzò lo sguardo verso il vuoto apparente» (p. 19). Il castello è infatti il simbolo di ciò che ogni uomo rincorre per tutta la propria vita: la verità. Per più di una volta nella propria vita, ogni uomo alza gli occhi verso l’alto, tentando di scorgere anche solo per un attimo quel volto o quella figura, metafora del senso dell’esistere: dio. Ma c’è sempre nebbia, oscurità, non si vede mai nulla. Non si riesce ad intravedere né la verità né dio. Che ci sia davvero il nulla in quella direzione? Se così fosse, come giustificare la vita? Perché il mondo è fatto così e non altrimenti? Perché il vero, il sacro non può essere colto? Perché obbedire a questa legge, a questa impossibilità?
Non c’è senso eppure ogni cosa avviene come se ci fosse. Tutto prende forma secondo questa assurdità. Tutti obbediscono a questa idiozia. Tutti credono che esiste uno scopo per ogni cosa, solo perché vi sono pochi eletti che lavorano per la verità e per dio. Ma dove sono questi prescelti? In mezzo a noi? E dove più esattamente? Perché non è possibile incontrare nemmeno questi? Perché i loro responsi sono imperativi, comandi, leggi a cui non è possibile sottrarsi? Perché sono così importanti nella vita di ognuno di noi, quando invece sono sempre fisicamente assenti dalla nostra vita? Perché tutto non può stare diversamente? Perché noi non possiamo essere diversamente? Perché a nessuno di noi è consentito da tutti gli altri essere diverso? Perché non è possibile dedurre che il Castello, la verità, dio non esistano? A che pro continuare a sostenere il contrario? A che serve?
Queste domande, celate dietro Il castello, sono la lente d’ingrandimento di cui Kafka ci ha voluto fornire per guardare alla nostra condizione esistenziale e a quella planetaria, continentale, statale, sociale, individuale. Per ogni livello dell’esistenza, noi erriamo come estranei a noi stessi. “Perché così e non altrimenti?” – si chiede Kafka. La risposta…spetta ad ognuno di noi.