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martedì 26 aprile 2011

LA PASQUA, LA CROCE E IL SEPOLCRO: un'altra prospettiva

- di Saso Bellantone
La festività pasquale, ogni anno, divide. C'è chi la vive religiosamente, c'è chi invece la vive in modo irreligioso. Per alcuni, è la rievocazione del compimento della vita di Gesù di Nazareth (il Messia), dunque della verità all'interno del divino disegno di salvezza universale; per altri, è il riecheggiare di alcuni interrogativi circa la storicità di Gesù, la certezza delle fonti, l'autorità della Chiesa, la verità o non verità del cattolicesimo; per altri ancora è un'occasione per svagarsi, per ritrovarsi coi familiari oppure è un giorno qualunque. All'interno di questo scenario, vi sono coloro che intendono la Pasqua come una festività nella quale si celebra e si rievoca la resurrezione del Messia Gesù. In questo senso, ovunque emergono dipinti, statue e opere d'arte che ritraggono il Cristo risorto, mentre la Croce, il simbolo del cattolicesimo, almeno per questo giorno, passa in secondo piano. Che ne è del Sepolcro, della tomba vuota? Ricordato momentaneamente per scopi liturgici e artistici durante tale festa, è bandito per il resto del tempo dalla memoria personale e collettiva. Il periodico oblio del Sepolcro a favore della Croce è problematico perché, a ben vedere, la seconda acquisisce senso soltanto in relazione al primo: nel disegno provvidenziale della salvezza, Gesù muore sulla Croce ma risorge dalla morte nel Sepolcro. Questa connessione è importante: se non è ricalcata anche al di fuori della festività pasquale, il cattolicesimo perde se stesso. In quale maniera, più esattamente, il cattolico e il non cattolico vivono la Pasqua e il mistero del Sepolcro?
Sicuro della storicità di Gesù di Nazareth (il Messia), della certezza delle fonti, dell'autorità della Chiesa, il cattolico vive la Pasqua come la rievocazione dello svelamento della verità ultima cristiana. Il Sepolcro, che è un luogo di morte, si trasforma ai suoi occhi in un luogo di vita. Gesù, morto in Croce per il perdono universale dei peccati, risorge annunciando a tutti la possibilità di accedere a una nuova vita totalmente libera dal peccato. Rivivendo la Pasqua, il cattolico assiste di nuovo a ciò che si annuncia con il Sepolcro vuoto, la possibilità della vita eterna, ma una volta passata la festività, la dimentica. Ciò, naturalmente, accade per numerose ragioni, tra le quali non è da escludere il fatto che la fede nel Messia Gesù, nel corso del tempo, si è ridotta a una religione, in un culto cioè costituito da riti periodici, fondato su di un corpus di scritti riconosciuti come la parola di Dio (la Bibbia), interpretato univocamente da alcuni intermediari, i sacerdoti, rievocante nell'arco dell'anno l'intera vita di Gesù il Messia e il piano divino di salvezza universale. Il cattolico, ogni anno, vive la Pasqua come un rito che inizia il compimento dell'intero culto e della sua conversione interiore, e con il quale rinnova la scelta di regolare la propria condotta secondo il messaggio evangelico(sacerdotale). Via via che la Pasqua si allontana, però, il cattolico – consapevolmente oppure no – prende le distanze dall'evangelo, vive all'opposto di quanto si è promesso e dimentica la possibilità della vita eterna, la salvezza annunciata dal Sepolcro vuoto. Questo avviene per svariate ragioni ma anche perché dopo la Pasqua e lo svolgimento di altre festività, il culto torna progressivamente a concentrarsi su altri riti rievocanti, di nuovo, la vicenda mortale e divina del Messia Gesù e proiettati in direzione della Croce, simbolo di sofferenza e di morte causati dal peccato. Il cattolico quindi pecca, sa di peccare, si considera sempre più peccatore e sente maggiormente l'esigenza della confessione per liberarsi dal peccato. Malgrado il Sepolcro annunci che il peccato è stato vinto una volta per tutte e non esiste più – perché Gesù risorge dalla morte e dal peccato, non ne resta schiavo – annualmente gli intermediari tornano a evidenziare lo stato di peccato del mondo, sollecitando i peccatori a ispirarsi alla Croce per salvarsi, cioè per liberarsi dal peccato stesso. In questa prospettiva, di confessione in confessione, il cattolico prosegue il cammino cultuale da peccatore, si ispira esclusivamente alla Croce e si ricorda del Sepolcro soltanto al sopraggiungere della nuova Pasqua, momento in cui si considera, finalmente, libero dal peccato. Una volta superata quest'ultima, il cattolico ripete tutto, torna a guardare soltanto alla Croce e corre il rischio, perché no, di abituarsi all'idea che la confessione sia il giusto strumento per liberarsi dal peccato, quando quest'ultimo è stato vinto una volta per tutte con la morte e la resurrezione del Messia Gesù, dunque il peccato non c'è più. Abituandosi a quest'idea, dimentica il Sepolcro e, dunque, il senso stesso della Croce.
Estraneo al culto cattolico e, per questo motivo, rifiutandosi di praticare ciclicamente l'insieme delle ritualità di cui quello è costituito, il non cattolico vive meravigliato la festività della Pasqua cattolica. Ponendosi il problema della storicità di Gesù di Nazareth, della certezza delle fonti, dell'autorità della Chiesa e tanti altri quesiti, il non cattolico si chiede anche quali sono i significati della Croce, del Sepolcro e quale relazione intercorre tra i due. Egli indaga tali questioni libero dalle interpretazioni che ne forniscono i sacerdoti, ponendosi molti interrogativi e aiutandosi con le fonti, tra le quali finisce nell'imbattersi nelle Lettere di Paolo di Tarso, i documenti più vicini ai fatti relativi al Messia Gesù. Sfogliandole, comprende che la Croce e il Sepolcro sono i simboli che sintetizzano l'intera predicazione dell'apostolo, con la quale ha inizio proprio la teologia cristiano-cattolica. Il non cattolico sa che il cristianesimo come teologia comincia proprio con Paolo e che quest'ultimo, nei suoi viaggi tra le prime comunità di fedeli, sottolinea che la morte (Croce) e la resurrezione (Sepolcro) del Messia Gesù, insieme, costituiscono la promessa di una nuova vita per tutti i credenti, qualora questi ultimi vivano così come l'apostolo precisa. Paolo, inviato per annunciare l'evangelo di Dio, un messaggio dunque superiore a tutti gli altri perché divino, chiarisce: «noi siamo morti per il peccato, e come potremo ancora vivere nel peccato? Non sapete che tutti noi che siamo stati immersi in Cristo Gesù fummo immersi nella morte? Siamo stati sepolti con Lui mediante l'immersione nella morte, affinché, come Cristo fu risvegliato dai morti mediante la gloria del Padre, così anche noi procediamo in una nuova vita. Se infatti siamo innestati in Lui dalla somiglianza con la sua morte, lo saremo però anche per quella della risurrezione, sapendo questo: che l'uomo vecchio in noi fu crocifisso con Lui, affinché fosse dissolto il corpo soggetto al peccato e noi non siamo più schiavi del peccato. Chi è morto è stato giustificato dal peccato; e se noi siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con Lui, consapevoli che Cristo, risvegliato dai morti, non muore più: la morte non ha più signoria su di Lui. Egli morì, e morì per il peccato una volta per sempre. Ora vive, e vive per Dio. Così anche voi considerate di essere morti al peccato ma viventi per Dio in Cristo Gesù» (Rm 6, 2-11). Leggendo le parole dell'apostolo, pardon, di Dio, il non cattolico comprende che con la morte in Croce e la resurrezione dai morti (dal Sepolcro), Gesù Messia ha liberato definitivamente il mondo dal peccato e dalla morte (introdotti da Adamo), spalancando a tutti la possibilità di una nuova vita cui si può accedere con il battesimo. Chi si battezza, dunque, è già sciolto dal peccato e vive una nuova vita perché immergendosi nell'acqua muore come Gesù in Croce e riemergendovi risorge come Gesù dai morti (dal Sepolcro). Ma il battesimo non basta: occorre vivere nel come non e avere fede, speranza e amore, i tre pilastri dell'etica paolina(divina) nel tempo dell'attesa della seconda venuta del Messia, per essere detti giusti davanti a Dio nel Giudizio e accedere al Regno di Grazia e di Giustizia, anziché rischiare la morte definitiva. Malgrado tale evento è incalcolabile – e prima devono svelarsi l'Antimessia (il figlio della perdizione) e il katechon (la forza che trattiene l'Antimessia) – e pur vivendo già una vita libera dal peccato, è necessario essere vigili, pronti, preparandosi alla seconda venuta del Messia, al Giudizio e al Regno.
Rileggendo Paolo, il non cattolico si chiede perché il cattolicesimo tralasci lui e le sue Lettere, le quali, sia chiaro, sono la voce di Dio, le fonti più vicine ai fatti riguardanti Gesù Messia e la base della teologia cattolica stessa. Riscoprendo Paolo, infatti, il cattolico potrebbe capire che la Croce conclude sì la vita mortale di Gesù – con lui, muore sulla Croce il peccato – ma che il Sepolcro inaugura una vita nuova – per Gesù, una vita divina – libera dal peccato, cui tutti possono accedervi con il battesimo. Il cattolico capirebbe che con quest'ultimo in primo luogo, non c'è bisogno della confessione; secondariamente, comincia il cammino della Pasqua (paolina). Un tempo in scadenza cioè, nel quale occorre vivere nel come non e avere fede, speranza e amore, che inizia ma non termina con la Croce: passando per il Sepolcro, si dirige verso il suo compimento ultimo, ossia verso la seconda venuta, il Giudizio e il Regno.
Vivendo la sua fede come un culto ritualistico e tralasciando Paolo, al quale Dio ha annunciato la Sua parola, dunque la Verità, il cattolico perde la parola stessa di Dio, la stretta connessione tra Croce e Sepolcro, smarrisce la tensione escatologica necessaria per salvarsi definitivamente dal peccato (e dalla morte). In breve, perde Dio. La Pasqua infatti, quella paolina, è il tempo inaugurato dalla Croce e dal Sepolcro insieme, che separa dal Regno. Da questi ragionamenti proviene sia la meraviglia del non cattolico innanzi all'attuale festività pasquale, sia altro: il suo comportamento paradossale. Pur non essendo chiamato a farlo, il non cattolico propone ai cattolici di riflettere su queste e altre questioni e, tuttavia, se ne tira fuori. Riconoscendo e sottolineando la precisa logica presente nel cristianesimo delle origini, che è tutto nelle Lettere di Paolo, dalle quali deriva il cattolicesimo, egli resta fermo nella sua convinzione che la Verità annunciata all'apostolo da Dio sulla via di Damasco, è tutt'altro che la verità e che il cattolico oggigiorno, pur accettando i suoi suggerimenti, non otterrebbe lo stesso la salvezza. Perché si comporta in questo modo? Perché la sua pasqua è lo smantellamento degli inganni e degli errori e la ricerca razionale della verità. Ma questo, lo si vedrà un'altra volta.

venerdì 22 aprile 2011

Dèi al tramonto

- di Saso Bellantone
APOLLO: Basta! Me ne vado.
ATENA: E dove?
APOLLO: Dove ci sono altri uomini, uomini diversi, da questi.
ATENA: Portami con te!
APOLLO: Non posso…
ATENA: Ti prego! Portami via da qui!
APOLLO: Non posso… tu sei una statua.
Arriva Eolo.

EOLO: Ti porto via io, sorella.
ATENA: Oh Eolo! Aiutami fratello!

Eolo lascia che i venti soffino con tutta la loro forza.

EOLO: Non ci riesco… perdonami.
ATENA: Ahimé! Chiama Posidone…
EOLO: Non c’è. Sta inondando un altro mondo.
ATENA: Chiama Zeus!
EOLO: Sta aiutando Posidone...
ATENA: Chiama Ade!
EOLO: Sta facendo affari con Zeus e Posidone.
ATENA: Povera me! Quale giustizia è mai questa?! Divenire parte di un mero scenario fotografico?!
APOLLO: Non riesco a guardarti impotente... addio sorella…
EOLO: Aspetta, vengo anch’io… addio.

giovedì 21 aprile 2011

martedì 19 aprile 2011

Dalle antiche civiltà alla civiltà planetaria: la questione della globalizzazione

- di Saso Bellantone
La storia umana può essere interpretata come il racconto di una tragedia, vale a dire della progressiva nascita e scomparsa di numerose civiltà. Sumeri, egizi, babilonesi, ittiti, fenici, celti, vichinghi, islamici, indù, tibetani, mongoli, greci, romani, inca, aztechi, maya, khmer – sono soltanto alcuni nomi delle civiltà svanite, ognuna delle quali ha sviluppato e condiviso storicamente propri linguaggi, leggi, ordinamenti, culti, miti, saperi, arti, tecniche, usi, costumi, tradizioni, insomma una propria cultura. La cultura è l'interpretazione della vita che ha una civiltà, scaturente dall'insieme degli elementi che la costituiscono. È più della somma delle sue parti. In questo senso, ogni civiltà è una sola cultura e, viceversa, ogni cultura è una sola civiltà. La morte di una civiltà coincide con la dissoluzione di una cultura. È la fine di coloro che hanno condiviso, convissuto, creato e sviluppato quella cultura, quell'interpretazione della vita, quell'insieme di elementi unici e irripetibili: questa è la tragicità della vicenda umana.
Una civiltà sorge, storicamente, in due modi: nel passaggio dal periodo selvaggio a quello tribale, quando gli uomini-animali – cioè coloro che hanno ormai sviluppato una comprensione di sé, degli altri e dell'ambiente circostante, diversa da quella degli altri animali – iniziano a consolidare quell'insieme di fattori che già condividevano e convivevano – che diventeranno poi una cultura – per organizzarsi in comunità o tribù; nel periodo civile, a causa dello smantellamento delle precedenti civiltà (i sopravvissuti, fondendosi in un unico gruppo, ne formando una nuova). Una volta costituitasi mediante il consolidamento della propria cultura, ogni civiltà comincia a considerarsi eterna e tuttavia, a posteriori, si dimostra transitoria, passeggera, mortale. Dal momento che è l'insieme degli individui che la costituiscono, qualsiasi civiltà vive storicamente per mezzo dei suoi componenti e, proprio per questo motivo, muore. Il grado di sopravvivenza di ogni civiltà dipende dalla capacità di sopravvivenza dei suoi membri, ma quest'ultima può essere a sua volta condizionata da uno o da tutti i seguenti fattori: dalle situazioni climatico-ambientali nelle quali si vive; dalla cultura sviluppata e dalla capacità di mantenerla e aggiornarla per risolvere problemi di varia natura; dall'incontro con altre civiltà. Una civiltà può estinguersi a causa di una carestia, di un'epidemia, di una catastrofe naturale (terremoti, tzunami, eruzioni vulcaniche, glaciazioni, meteoriti ecc.), di un clima troppo gelido o torrido, a causa di scelte politiche, agricole, alimentari sbagliate, ma può anche sopravvivere a tutto questo. Tuttavia, inevitabilmente, così come sorge, alla fine, svanisce.
La ragione principale della scomparsa di una civiltà consiste nell'impronta culturale che si è data, la quale può manifestarsi in due modi: pacifica (o statica), quando stabilisce un'armonia con la natura e impone perciò di vivere entro precisi limiti, territoriali e non (si pensi per esempio alla civiltà tibetana); aggressiva (o dinamica), quando vuole sopraffare la natura e impone di oltrepassare i propri limiti, territoriali e non, finché non coincidano con l'intero mondo conosciuto (si pensi per esempio alla civiltà romana). L'impronta culturale che una civiltà si dà ne stabilisce il destino, specialmente quando quest'ultima ne incontra delle altre. Due civiltà pacifiche possono giungere a una pacifica convivenza; una pacifica e una aggressiva difficilmente; due civiltà aggressive mai. La storia umana è il racconto della progressiva nascita e scomparsa delle civiltà, causato dall'incontro/scontro con altri. È una vicenda nella quale le civiltà aggressive hanno cancellato quelle pacifiche con l'uso della forza, delle armi, con le battaglie e le guerre, allo scopo di estendere la propria cultura su scala planetaria. Anche se più lentamente delle altre, nel corso del tempo persino le civiltà aggressive, alla fine, sono svanite, lasciando oggigiorno il totale vuoto di civiltà che caratterizza la nostra era nichilistica.
Il vuoto causato dal progressivo declino delle civiltà, paradossalmente, non consuma il bouquet di possibilità di organizzarsi in questo modo. Gli individui possono ancora creare, sviluppare, condividere e convivere una medesima cultura, generando in questo modo una nuova civiltà. Questa possibilità, però, non è più operabile da gruppi di individui diversi e separati dagli altri ma è impiegabile da tutti gli individui esistenti, contenuti in un unico grande insieme: il pianeta. Tale chance è un fenomeno già in atto, la globalizzazione, che nel coinvolgere la totalità degli individui esistenti, offre loro l'occasione di organizzarsi in modo nuovo, e cioè alla maniera di una sola civiltà planetaria contrassegnata da un medesima cultura, caratterizzata da medesimi linguaggi, leggi, ordinamenti, culti, miti, saperi, arti, tecniche, usi, costumi, tradizioni. La globalizzazione, però, è un fenomeno che sfugge di mano alla totalità degli individui, attuandosi secondo una cultura decisa da pochissimi e non tutti: il capitalismo.
Il capitalismo è la forma di globalizzazione in atto resa possibile sì dall'annientamento delle precedenti civiltà/culture, ma soprattutto pianificata passando per alcuni avvenimenti epocali quali l'industrializzazione, l'introduzione del lavoro salariato, il crollo degli Stati-nazione e dei totalitarismi, la nascita delle Repubbliche democratiche fondate sul lavoro, l'economizzazione e monetizzazione dell'ente in generale. Il capitalismo è quella forza anticristiana che, oltrepassando ogni confine, coinvolge l'ente nella sua totalità riducendolo e interpretandolo alla maniera del lavoro, della merce, del denaro. È quell'ideologia dall'inclinazione globale, che destabilizza l'ente in generale, lo aggredisce per coincidervi totalmente, per essere un tutt'uno con esso, per dominarlo. È quella forma di pensiero, quella cultura che nell'estendersi sul scala mondiale per mezzo di tutti gli individui, evoca una nuova civiltà, appunto, planetaria. All'interno della globalizzazione capitalistica, i termini lavoro, merce, denaro rappresentano i simboli della nuova civiltà/cultura, del linguaggio che si parla, della legge che si rispetta, della divinità che si venera, dei saperi che si possiede, delle arti che pratica, delle tecniche che impiegate, degli usi, dei costumi e della tradizione che si consolida giorno per giorno. Sono gli emblemi della rivoluzione capitalistica che ha aggredito il pianeta, imponendo a tutti gli individui, consciamente oppure no, di pensare tutti nello stesso modo, di essere già una nuova civiltà.
Come ogni cultura e ideologia aggressiva, anche il capitalismo mira a estendersi al di là di ogni confine fino a combaciare totalmente con l'intero mondo conosciuto. La globalizzazione ha anticipato i tempi e lo ha già diffuso su scala planetaria. Per questo motivo, oggi il capitalismo si trova di fronte a un bivio: trovare nuovi mondi in cui sfogare la propria impronta aggressiva; rivolgere quest'ultimo contro il mondo già dominato. Il destino degli esseri umani e del pianeta, dunque, è legato a quello del capitalismo. I viaggi nell'universo, alla scoperta di altri pianeti e di altri mondi sconosciuti così come l'impazzito sviluppo tecnologico per raggiungere queste mete, sono da intendersi in questa prospettiva. È una ricerca che ha lo scopo di consentire un giorno al capitalismo, di poter sfogare la propria aggressività. Che accadrebbe però se questo giorno non arrivasse mai? Se la prepotenza della nostra cultura capitalistica si sfogasse contro se stessa, cioè contro di noi e contro il pianeta? Non sarebbe forse l'inizio della nostra fine? A ben vedere, stiamo già sfogando l'aggressività della cultura capitalistica contro noi stessi e contro il pianeta. Per questo motivo, oltre che prendere coscienza di quel che già accade, occorre iniziare a chiedersi se può esistere soltanto una globalizzazione in senso capitalistico. La speranza di evitare il peggio, è nel rispondere a questo interrogativo.

martedì 12 aprile 2011

Pensieri visivi: LA MADDALENA PENITENTE di Francesco Hayez

- di Saso Bellantone
Una donna. È nuda, sdraiata sul suo abito bianco. È sola, dietro di lei ci sono degli alberi, della nebbia e delle montagne che richiamano un paesaggio spettrale. Accanto alla donna c'è un teschio. Nella mano sinistra regge un crocifisso ma le sue forze sembrano perdersi così come il suo sguardo si perde altrove. La Maddalena penitente di Francesco Hayez (1832) conduce l'osservatore indietro nel tempo e ripropone un antico dilemma: chi è la Maddalena? Secondo i vangeli canonici, Maria di Magdala (Maddalena) è una prostituta che va al seguito di Gesù dopo che questi la salva dalla lapidazione. I vangeli apocrifi, invece, presentano la donna come il discepolo prediletto di Gesù, perché questi usava baciarla sulla bocca. Alcuni attribuiscono a tale gesto un significato gnostico, legato cioè alla trasmissione della conoscenza ultima; altri invece lo considerano l'indizio di un legame amoroso tra i due. L'opera di Hayez ripropone questo interrogativo e consente di svelare l'identità della donna mediante il suo atteggiamento penitente.
La penitenza è quella pratica che occorre svolgere quando, consapevoli dei propri peccati o dei propri errori, si desidera ottenere il perdono da altri o da dio. La penitenza della Maddalena di Hayez è la solitudine, l'allontanamento da tutto e da tutti scelto consapevolmente per via di un avvenimento che l'ha straziata: la morte di qualcuno (il teschio). Tale penitenza non serve però ad allontanare il suo dolore: quest'ultimo anzi diventa il terreno fecondo nel quale nasce il sentimento della colpa. È un sentimento terribile, di cui vorrebbe liberarsene ma non sa come fare né a chi rivolgersi. Il paesaggio circostante non è d'aiuto perché rievoca la morte che l'addolora e che amplifica il suo rimorso. L'abito sembra trattenere la colpa dentro di lei, perciò se ne libera, ma la colpa non esce, non va via. La colpa permane nel suo corpo, è nella sua stessa nudità che amplifica il dolore, perché riecheggia la morte che l'affligge e l'errore a cui la donna non può più rimediare: il non aver amato abbastanza il suo amore finché è stato vivo.
La Maddalena penitente di Hayez non è una peccatrice né il discepolo prediletto di Gesù, bensì un'amante che non ha più l'amato, una donna disperata che non può perdonarsi né consolarsi con il significato attribuito da altri alla morte in croce del proprio amato (il crocifisso). È un'opera enigmatica, con la quale l'osservatore, nel chiedersi qual è l'identità della Maddalena, può porsi lo stesso interrogativo anche nei confronti dell'uomo che lei amava.*

* L'opera esaminata può essere ammirata presso la Civica galleria d'arte moderna di Milano.

venerdì 8 aprile 2011

IL MONDO NUOVO di Aldous Huxley

- di Saso Bellantone
Londra, anno di Ford 632, cioè 482 anni dopo la fine della Guerra dei Nove Anni. Uno Stato Mondiale realizzato mediante un'altra guerra: quella contro il passato e tutto ciò che lo richiama. La stabilità di questo Stato mira a essere eterna, grazie alla produzione seriale ed extrauterina e al condizionamento della vita umana, dall'embrione alla maturità. Con il condizionamento gli individui sono suddivisi in classi (alfa, beta, gamma, delta ed epsilon) e in sottogruppi (plus e minus) e destinati al preciso ruolo sociale che avranno in futuro: il comando, l'amministrazione, tutte le altre occupazione lavorative. Ma soprattutto sono tipizzati, uniformati. La facoltà di giudizio di ognuno è ingabbiata entro una precisa forma mentis, caratterizzata da giudizi precostituiti e indotti, il cui scopo è “fare in modo che la gente ami la sua inevitabile destinazione sociale” (p. 17). Il condizionamento è la garanzia dell'eternità dello Stato Mondiale e avviene fin dall'infanzia affinché “da ultimo, la mente del fanciullo sia queste cose suggerite, e la somma di queste cose suggerite sia la mente del fanciullo. E non solo la mente del fanciullo. Anche quella dell'adulto, per tutta la vita. La mente che giudica e desidera e decide, costituita da queste cose suggerite. Ma tutte queste cose suggerite sono suggerimenti nostri […] suggerimenti dello Stato” (pp. 27-28).
Nello Stato Mondiale non esiste la famiglia, le emozioni, la diversità culturale, l'arte, la storia. L'amore per i libri e per i fiori, così come per ogni altra cosa che stimoli le emozioni o il pensiero personali, è vietato. La cultura, in tutte le sue forme, è abolita. Non s'invecchia, si resta giovani e, pur vivendo di meno, si muore giovani. L'infelicità e lo stress, elementi che introducono instabilità nel sistema, sono combattuti con una droga, il soma, che procura viaggi immaginari al di fuori della realtà, per tornarvi con una maggiore propensione a vivere stabilmente, secondo cioè i dettami dello Stato. Tutti, ognuno rispettivamente nella propria casta d'appartenenza, vivono in un'unica maniera: lavorando. L'unico svago ammesso è il cinema odoroso, che ha lo scopo di stimolare l'istinto sessuale. La monogamia è un tabù: fin da piccoli, si è condizionati alla poligamia, a fare sesso con tutti, a non rifiutarsi a nessuno e a usare periodicamente contraccettivi per evitare di avere figli in modo naturale (cioè non condizionati). Non esistono le religioni, fuorché una: quella in onore di Ford – l'introduttore del sistema di lavoro mediante la catena di montaggio – nella quale 12 individui (come gli apostoli), 6 uomini e 6 donne, cantano inni a Ford, consacrano compresse di soma e gelato di soma e si danno a orge sistematiche.
Il mondo nuovo di Aldous Huxley (Mondadori, 1933) non è soltanto la descrizione di questo mondo del consumo obbligatorio, del “meglio buttare che aggiustare” (p. 46), ma è anche il racconto di un altro mondo: quello dei Selvaggi delle Riserve confinate nel Nuovo Messico per scopi turistico-museali, nel quale si vive alla vecchia maniera. Qui si nasce naturalmente, ci si educa familiarmente e per clan, si può dar vita a una famiglia amando una persona soltanto, si possono provare emozioni. Qui l'arte, la storia, le religioni, la libertà di scelta, l'amore per il sapere e quant'altro è escluso dallo Stato Mondiale persistono. Di questo vecchio mondo fa parte John, o meglio non ne fa parte. Egli è il figlio di Linda, una straniera, e in quanto tale è straniero anche lui. Pur riconoscendosi pienamente in questa comunità, John non è accettato e questo lo rende infelice. Per questo motivo, quando arrivano l'Alfa-Plus Bernardo Marx e la Beta-Plus Lenina Crowe, della quale s'innamora, decide di seguirli nel nuovo mondo. E qui comincia la vera storia.
Fuggito da un mondo verso un altro perché ritenuto uno straniero, John si scopre nuovamente straniero. La dissolutezza della donna che ama, la freddezza dei giovani innanzi alla morte di sua madre, il tradimento dell'amicizia sono quelle gocce in mezzo alle altre che riempiono il vaso della sua ragione con la follia delle follie: la verità. Il mondo nuovo è artificioso, falso, non vero, è retto da un'apparente felicità che cela qualcos'altro: la schiavitù. È un mondo di “bambocci” che non sanno cos'è la felicità né l'infelicità, perché non possiedono un pensiero proprio ma quello che lo Stato ha imposto loro, condizionandoli. Questa scoperta, in un panorama privo di dio, dei vecchi valori e di quant'altro ha a che fare con il vecchio mondo, lo spingono a fuggire e a riparare nella più solitaria delle solitudini. Qui, ridotto a un fenomeno da baraccone, John comprende, come un messia secolarizzato, di essere incapace nel sovvertire le cose e che la sua esistenza è priva di ogni significato.
Malgrado sia stato scritto a cavallo tra le due guerre mondiali, le quali hanno cominciato a far piazza pulita del vecchio mondo per far posto al nuovo, Il mondo nuovo di Aldous Huxley è un testo attualissimo. La sostituzione del nuovo mondo al vecchio non si consuma infatti in quel periodo ma è un fenomeno ancora in corso. In questa prospettiva, se è letto come un modo per avvicinarsi meglio al nostro mondo che cambia, il testo di Huxley si offre al lettore alla maniera di uno strumento utile per due scopi: per comprendere verso quale direzione avviene il cambiamento del nostro mondo; per scorgere, dietro la drammatica storia di John, quella di ognuno di noi.

giovedì 7 aprile 2011

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Giuseppe Bagnato

- di Saso Bellantone
Scrittore e poeta, Giuseppe Bagnato (Varapodio 1971) pubblica nel 2004 il romanzo Caino, Lucifero e il piccolo fioraio (Pellegrini), ricevendo la targa Navi e Naviganti partecipando al “Premio Anoia Salvatore Gemelli” come miglior scrittore emergente (2005). Nel 2008 pubblica il romanzo Fiore avvelenato (Il Filo). Attualmente vive e lavora a Varapodio.

Come ti sei avvicinato alla scrittura?
Non mi sono avvicinato io, è accaduto il contrario. Nel senso che è qualcosa che nasce da dentro. L'arte è una cosa che hai dentro, che viene a galla sulla base di quel che ti accade. È un bisogno di esprimere qualcosa che non riesci a contenere, quasi una forma di ribellione. Alcune volte non sai neanche da dove parte questa ribellione ma la senti, senti qualcosa che ti parla, che ti vuole dire qualcos'altro. E la devi tirare fuori, per forza, perché se la tieni dentro ti uccide. Ho iniziato a scrivere da piccolo, per caso. Quando passi in un posto o ti capita un libro tra le mani, c'è una frase che ti colpisce, quasi come fosse dentro di te, e che ti tocca. Questo avviene fin dall'infanzia, da quando cioè cominci a vedere la vita, i colori, qualsiasi cosa ti da un'emozione. In quel periodo cominci a sentire qualcosa dentro di te: non sei pienamente consapevole di che cosa si tratti ma senti quella presenza, quella voce. Come una sorta di tumulto dentro lo stomaco. Il mio rapporto con la scrittura parte da questo: da qualcosa cioè che ti stringe e ti parla. Da lì è iniziato tutto. Le prime volte che qualche frase o parola o tramonto o scenario mi colpiva, io mi ci agganciavo e da lì trovavo l'ispirazione, la voglia di scrivere anche una parola o una frase. Col passare degli anni diventavo sempre più consapevole che era qualcosa che mi faceva bene, perché mi consentiva di esprimere e di tirare fuori quello che provavo. Sentivo l'esigenza di comunicare, di comunicarmi. Il mio rapporto con la scrittura è stato alternato, nel senso che quando sentivo l'esigenza di scrivere, la mettevo su carta. Crescendo mi sono reso conto che avevo il bisogno di esprimermi, quasi come di respirare. Ci sono stati momenti bui e momenti più felici che mi hanno spinto a scrivere. È stata un'evoluzione che andava di pari passo alla mia crescita. Se penso al primo libro o a quando ho cominciato a scrivere i miei pensieri più forti e concreti, mi capita – questo lo dico serenamente, non vorrei essere frainteso o essere scambiato per un matto – come se mi sdoppiassi, come se ci fosse un'altra persona dentro di me, qualcuno che scrive al mio posto. Mi capita di scrivere un concetto in maniera spontanea, istintiva e poi lo rileggo e mi sembra che non sono stato io a scriverlo. Sembra una sorta di trance, in cui mi allontano dalla concezione naturale di vita ed entro in una fase in cui non esiste niente per me: ci sono solo io e quest'altra persona, questo alter ego che prende il sopravvento e scrive in modo incontrollato. Non ho orari né schemi. L'ispirazione giunge all'improvviso.

Che cos'è la scrittura?
La scrittura mi ha salvato la vita. Dunque credo sia salvezza. Ma è salvezza quando ti abbandoni a essa e tiri fuori quello che dentro non riesci più a contenere, che non riesci a esprimere in altri modi. Questa eruzione può avvenire con rabbia, istintività o con pacatezza. Ma in qualunque modo rendi manifesto ciò che provi, quel che conta è tirarlo fuori perché a lungo andare può diventare troppo grande per contenerlo e, quindi, può riversarsi contro e schiacciarti. L'essenza della scrittura è ispirazione ma anche un'eruzione vulcanica che ti salva.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della scrittura, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporanea?
La scrittura vive secondo diverse prospettive. Possiamo leggere mille pagine, togliere lo sguardo dal libro e restare uguali. Nello stesso tempo possiamo leggere dieci righe, distogliervi lo sguardo e vedere una luce, un cambiamento, qualcosa che scuote dentro. Anche la lettura, come la scrittura, è salvezza. È qualcosa che mi ha illuminato, mi ha ispirato, mi ha aperto la mente sull'esistenza come essere umano. E lo fa ancora. La scrittura, al pari della lettura, ti pone di fronte alla domanda: “Chi sono io?”. La risposta che dai non riguarda come ti chiami, dove sei nato o vissuto, dove lavori, ma riguarda la tua esistenza in senso pieno. In questo scenario ti chiedi e rispondi a te stesso “Chi sei? Cosa ci fai? Qual è il tuo ruolo? Il tuo scopo? Qual è il senso della tua venuta in questa esistenza?”. C'è un senso, una connessione in tutto quello che accade. Possiamo vivere ottant'anni senza aver fatto nulla, così come basta un attimo per rendersi conto del ruolo che si ha in questa vita. È un discorso che possiamo ampliare in grandi linee. La scrittura è prendere coscienza di sé ma non è per tutti uguale. Io posso leggere un libro e trarne pochissimo, un altro invece può comprendere il suo scopo dallo stesso libro. La scrittura è soggettiva: dipende anche dalla lettura, dal ramo di cui ci si occupa, da ciò che si scrive e da chi lo scrive. Io posso essere predisposto a scrivere in quella disciplina o di quel genere, mentre un'altra persona ne preferisce degli altri che gli danno di più. Leggere o scrivere è soggettivo. Io scrivo per ispirazione o per istinto: passo sei mesi senza scrivere una parola e poi in sei giorni scrivo duecento pagine. La scrittura è anche gli incontri fortuiti che si hanno nella vita.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire le tue storie “poesie”, opere d'arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Non sono io a decidere. C'è qualcosa che è oltre me, che si insinua in me e mi detta quello che c'è dentro di me. Lo tira fuori, lo esprime. All'inizio provavo timore perché non riuscivo a inquadrare lucidamente che cosa mi stava accadendo, cos'era questa parte di me che voleva uscire fuori prepotentemente. Poi incominciavo quasi a cercare un contatto, un rapporto di fiducia amichevole. Oggi non la vedo più con timore, come una cosa che può farmi sbandare, portandomi in ambiti diversi. È qualcosa con cui riesco a comunicare, questa parte di me che prima non conoscevo né volevo conoscere. Era la paura che mi faceva tener a freno questo lato di me. Nel momento in cui diventi più cosciente e crei un contatto quasi amichevole, ci parli con questa tua parte, allora si diventa molto più spontanei, più liberi nell'esprimersi. Diventa un gioco armonico, da cui ha origine ogni creazione.

Perché scrivi? Perché senti l'esigenza di comunicare mediante l'arte della scrittura?
Uno dei miei primi pensieri, o poesie, recita “non c'è un perché”. Secondo me, vale per molte cose. Non c'è un perché a tutto. Non si può cercare con insistenza e caparbietà il perché: è dispersivo, ti allontana dalla verità. Non c'è un perché che determini il mio scrivere. C'è. Tutto poi prende forma dalle immagini, dai pensieri che hai. È una cosa che è tua. Ce l'hai: come un dono che non sai di avere. È come chi prende un pennello e dipinge d'istinto. Non è per forza studiare tutte le tecniche o chissachè per fare un dipinto. Chi ha il dono prende in mano un pennello, una penna, uno scalpello e crea, forma, si lascia andare. Nella scrittura è lo stesso.

Che cosa racconti nei tuoi scritti?
Cerco di raccontare globalmente il tutto, come il niente. Il bianco e il nero, il cielo e la terra, la gioia e la sofferenza. Quando scrivo, dal mio di dentro viene fuori molta sofferenza, inquietudine o turbamenti che ho vissuto e vivo in questa vita. Ma questa sofferenza è spontanea. Non c'è una sofferenza o una gioia programmata: non programmo di stare male o di essere felice. È qualcosa che provi in base al tuo vissuto, alle tue esperienze, al luogo in cui vivi o alle immagini che la tua mente vede o percepisce. È tutto quasi un susseguirsi di emozioni che ti portano a dare forma, a esprimere quello che dentro di te si crea. Personalmente, credo di raccontare quello che altri, prima di non aver il coraggio di raccontare, non hanno il coraggio di guardare. Un artista, o un pittore o uno scrittore, non sempre ha bisogno del paesaggio per dipingere. Può anche dipingere un paesaggio che non esiste, che è nella sua immaginazione. Anche quella è la grandezza. È semplice fare un ritratto di una modella, di un paesaggio o di una natura morta, così come è semplice leggere qualcosa, trovare l'ispirazione o no. Nel mio caso, la scrittura è, alcune volte, non avere niente di reale, di concreto a livello visivo, ma è qualcosa che si ha dentro, da chissà quanto tempo, da quanti anni. Può essere una gioia o una sofferenza vissute nell'infanzia, vissute in un momento in cui erano troppo forti da riuscire a percepirle e ad accettarle. Quindi le si respinge. Nel corso della vita, divenendo sempre più consapevoli, queste possono emergere di nuovo. Ma quando ciò avviene, quel che emerge non è reale, è dentro di te e lo rendi di nuovo visibile: metti nero su bianco. Non sempre l'essere umano ha la capacità di accettare determinate emozioni, negative o positive. Ciò avviene perchè non c'è una sofferenza o una gioia maggiore o minore. La sofferenza è sofferenza e la gioia è gioia. A volte si dice “Caspita quanto sta soffrendo!”, sta soffrendo di più o di meno? Non è così. Quando soffri, soffri. Non c'è un'altra persona che soffre più di te. Se in quel momento tu stai soffrendo, la tua sofferenza è la sofferenza più grande di questo mondo, anche se è una sofferenza minima. Ma è la tua sofferenza. In quel momento sei tu a stare male e per te non c'è un'altra persona che sta più male. Non puoi pensare “Quello ha una tragedia più grande della mia”. La sofferenza è tua. Sono emozioni che ritornano, provenienti da un altro tempo: finché non le guardi in faccia, vivono con te, malgrado non siano più concrete. Ti toccano per un attimo e fuggono via nuovamente, per poi tornare di nuovo, all'improvviso. Tante cose le vivi periodicamente, quasi come se ritornassero i fantasmi, perché, per via della fragilità, dell'età, dell'infanzia, non eri pronto per percepirle e visualizzarle. Man mano che cresci ritornano e quindi arrivi al punto di dire “Ok fermiamoci un attimo”. Ti guardi a uno specchio o ti rifletti nell'acqua e dici “Aspetta, fermiamoci tutti”. È un discorso che fai con te stesso, con tutte quelle voci, quelle sensazioni ed emozioni che tu vivi dentro. Dici loro “No, aspetta, guardiamoci in faccia. Chi sei? Cosa vuoi da me?”. Si presentano una alla volta, si lasciano osservare, studiare, cominci ad avere un dialogo con loro e, dunque, anche con te stesso. E avendo un dialogo con te stesso, cominci a vedere realmente chi sei, non chi vuoi essere.

Un artista può sentirsi tale senza i pubblici?
Personalmente, non scrivo principalmente per i lettori. Scrivo per me stesso. È un bisogno che ho dentro, ho bisogno di esprimermi. Non scrivo perché penso che gli altri debbano leggere i miei libri. Pensare invece che gli altri decidano spontaneamente di leggere quello che scrivo, mi fa riflettere. Mi può anche aiutare, nel momento in cui riesco ad avere un confronto. Se qualcuno legge quello che scrivo, mi da la possibilità di confrontarmi. Di avere un dialogo. È lì può diventare come uno specchio: di vedere me attraverso l'altra persona, o viceversa. Quindi ci può essere un confronto aperto su questo, ed è bello, perché credo che questo può portare a una maggiore crescita, a una maggiore consapevolezza di se stessi. Invece, per quanto riguarda i lettori con cui non puoi avere un dialogo diretto, immediato, credo che anche questo sia positivo, così come è stato per me leggere altri scritti. Non incontrerò mai tanti autori che non ci sono più e che mi hanno dato tanto, che mi hanno aiutato a capire meglio e a vedere la vita o l'esistenza in sé in maniera più lucida. Come accendere una luce in una stanza e dire: “Ecco, c'è questa parete rossa, gialla e verde”. In questo senso credo che sia bello che qualcuno faccia lo stesso con quello che anch'io racconto ed esprimo.

Che cosa significa oggi vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Se dovessi vivere solo di scrittura, sarei peggio di un barbone. Non mi ha mai dato e non mi dà da vivere, nel senso economico o materiale. Questo avviene perché oggi il mondo è troppo veloce. Qualsiasi cosa si fa, se non si ha un profitto, non ha valore e nessuno si muove. Nessuno rischia per niente. Nel caso dell'arte, nessuno crea se non ha un tornaconto personale di cui è sicuro. Da questo punto di vista l'arte non esiste, è morta, non c'è più. Nessuno rischia, nessuno investe, nessuno crede. Chi lo fa, lo fa già sicuro al mille per mille che se investe uno ne ricava dieci. Ciò lo si vede da questi scrittori inventati dal business, dal commercio. Non sei uno scrittore: sei un personaggio famoso o dello spettacolo, scrivi un libro e sfondi, perché la gente ti vede in tv, nei giornali ecc. E allora non vendi quello che scrivi, quello che provi e tenti di trasmettere ad altri. Vendi la tua faccia, la tua immagine. Questo purtroppo uccide l'arte. Io non vivo della mia arte perché non faccio parte di questi meccanismi e preferisco starne al di fuori. Sacrificarsi per la propria scrittura, alcune volte, significa essere fuori dal mondo. Vivere una concezione personale che è solo tua. Nel momento in cui ti chiudi in una stanza o ti siedi sotto un albero per diverse ore e poi il giorno dopo e il giorno dopo ancora, questo ti porta a isolarti dal mondo circostante contemporaneo. Tuttavia, per me è salutare. Alcune volte percepisco quasi una preoccupazione esterna: chi mi vede pensa che io mi allontani dalla realtà. Ma non la vedo così: ho bisogno di quei momenti. Sia chiaro, è sempre un allontanarsi ma questo, se la vediamo in maniera globale, lo facciamo tutti. Tutti ci allontaniamo. Io che mi chiudo in una stanza oppure quello che passeggia alla luce del sole in una spiaggia enorme e bellissima, anche questo è isolarsi. Non è il contesto in sé, che può essere la stanza o l'aria aperta. Sei tu dentro di te che ti chiudi o non ti chiudi. È un allontanarsi dal mondo e uno scendere nelle sue profondità nello stesso tempo. Le due cose vanno insieme: non puoi andare in profondità se non ti allontani. Per andare dentro di te, quasi come un viaggio, e non è facile, devi uscire fuori da tutto quello che la vita, gli schemi, gli orari e la quotidianità ti impongono. Ma quest'ultima è un'invenzione dell'uomo. Le due cose vanno separate. C'è un mondo inventato dall'uomo con orari, schemi e tutto il resto. C'è poi un mondo interiore che non è inventato dall'uomo: è un qualcosa che tu hai. È nella natura, nell'essenza dell'essere umano. Questo non lo possiamo inventare. Puoi andare a scuola e studiare qualsiasi disciplina, ma non puoi inventare o studiare qualcosa che c'è solo dentro di te e che solo tu puoi raggiungere. Io non posso entrare dentro qualcun altro: se però vi entro, se l'altro mi offre tale possibilità, io entro fino a un certo punto, perché poi mi devo fermare. Quando entri in quest'altro mondo, è come un ingresso nella vita vera.

Cosa ti spinge a restare nella tua terra natia?
Credo che ognuno di noi ha una pianta o una radice. Anche noi abbiamo delle radici. Ciò che mi spinge a restare in questa terra è sapere che c'è un posto nella terra in cui siamo venuti al mondo e viviamo, in cui ognuno può riconoscersi più di tanti altri posti. Personalmente, è qui che sono nato e che ho vissuto determinate cose, sensazioni, emozioni, gioie, sofferenze. Per farla breve: chiunque si forma nei primi mesi e anni della vita. Da lì parte tutto, e cioè la vita che ognuno vive. Credo sia questo che mi porta sempre in questo posto. Anche se vado via, sento un bisogno quasi morboso di tornare. Perché è qui che sono nato, è qui che è nata la mia arte, la mia scrittura. Qui trovo i sentimenti, i colori, i profumi, tutto quello che sono. È stata qui la prima volta che ho pianto, che sono caduto con la bicicletta o che ho giocato al pallone. La prima volta che ho provato un'emozione di gioia, è stata quando magari mia madre ha fatto un preciso gesto. Qui ho provato quelle cicatrici non corporee ma nell'anima, positive e negative, che non posso dimenticare. Sono quest'ultime che ognuno si porta dietro. Possiamo crederci o non crederci, ma è con queste che ci siamo formati. Poi il mondo è bello da vedere, da scoprire, anche in viaggio, per formarti in maniera più completa. Ma questo è qualcosa che viene dopo.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Mi piace sognare. Sogno a occhi aperti da quando ero bambino. Sogno – e questo è il sogno di tutti – un mondo in cui il dialogo è al centro di tutto. Qualsiasi complicazione o intoppo si può risolvere col dialogo. Prima che succeda un evento, anche negativo, credo che si possa fermare col dialogo. Sogno un mondo in cui ci si può parlare, in cui ci si può comprendere guadandosi negli occhi. Al di là delle idee diverse o dei concetti opposti, che sono sempre da rispettare. Non dico che il mondo dev'essere come lo penso o lo vorrei io, perché lo vorremmo tutti un mondo a nostra immagine e somiglianza. Intendo un mondo in cui si potrebbe dialogare di più. Oggi, sia chiaro, c'è più dialogo rispetto a migliaia di anni fa, quando si faceva la guerra per niente. Viceversa, oggi si fa la guerra per cose per le quali migliaia di anni fa non si faceva. Se parliamo di sogni, questo è il mio sogno. Un mondo in cui si dialoghi di più. Un sogno è un sogno. Potrei dire altre cose ma non sono sogni perché si possono realizzare. Per esempio, potrei dire: “Il mio sogno è comprare una ferrari” ma questo non è un sogno. Per molti lo può essere, potrebbe esserlo anche per me, guardando tutto in ottica materiale. Potrei dire: “Mi voglio sposare con la donna più bella di questo mondo” ma anche questo è un sogno fine a se stesso. Una volta che questo tipo di sogno si realizza, ti accorgi che non ha più senso. Per me un sogno è qualcosa che nel materializzarsi riguarda l'universo intero e mantiene il suo significato. Sogno un mondo di dialogo, di apertura, con coscienza.

Alcune parole per i giovani.
Prima di tutto credete in voi stessi. Poi viaggiate, confrontatevi con i coetanei di altre culture attraverso il dialogo o facendo insieme delle cose semplici. Non c'è bisogno di cose troppo grandi o di trasgredire. Tutte cavolate. Quello che per te è trasgressione per me è normalità o viceversa. Quindi dipende da come la vedi. Scoprite il mondo, gli altri, cosa c'è al di là dell'orizzonte, di quella montagna, di quell'oceano. Forse solo così si può arrivare a un futuro in cui voi giovani, una volta diventati adulti, sarete tutti amici, nel senso che potrete dialogare. Il mondo è di tutti. Come diceva un mio vecchio amico, quando gli si chedeva “Da dove vieni? Da quale città o posto?”, lui rispodeva con molta semplicità: “Io non vengo da nessuna parte, io sono cittadino del mondo”. Allora, se tutti concretamente pensassimo, sognassimo, cominciassimo a dire la stessa cosa, comprendendo che il mondo è di tutti, tante cose negative si potrebbero migliorare e correggere. Sarebbe insomma una bella rivoluzione.

martedì 5 aprile 2011

Dentro il capitalismo: l'ideologia del potere

- di Saso Bellantone
Il capitalismo è l'intangibile uniforme che domina la nostra era. È un modo di pensare la cui vocazione, al pari di ogni altra ideologia, è totalitaria. Il capitalismo mira a estendere il proprio spazio vitale in modo planetario. Tale ideologia consiste nella riduzione della vita in generale in merce. La merce è ciò che può essere prezzato, il cui valore cioè è stabilito in termini economici. L'economicità della merce costituisce il carattere instabile della merce stessa. Quest'ultima non vuole star ferma, vuole muoversi, vuole circolare di mano in mano: a tal fine, ha bisogno di essere scambiata con altra merce “di pari valore economico”. La mercificazione generale della vita, in questo senso, è anche una economizzazione di essa. Tutto, in quanto è mercificato, acquisisce un valore economico. L'instabilità intrinseca di ciò è merce, comporta il movimento della merce stessa, la sua volontà di circolare. Tale circolazione avviene secondo un doppio movimento focalizzabile mediante l'idea dello scambio: si scambia la merce da un lato, per accumulare, tesaurizzare, ammassare altra merce; dall'altro lato, per investire, impiegare, usare la merce appena ottenuta per accumulare altra merce ancora, e così via. Si genera in questo modo una circolazione generale delle merci, che coincide con una instabilizzazione generale della vita.
Tale instabilizzazione/mercificazione totale della vita si manifesta mediante il gioco dello scambio economico operato dagli esseri umani. Lo scambio, come per esempio quello di doni, è una pratica che le civiltà umane hanno svolto nel corso della propria storia per svariate ragioni: per sopravvivere, per acquisire maggiore/minore autorità comunitaria, sociale, magico-cultuale, per piacere e via dicendo. Ma quando si è cominciato a scambiarsi della merce, vale a dire ciò che possiede un valore economico e che è ottenibile mediante il lavoro, specie quello salariato, la pratica dello scambio ha acquisito un significato diverso, nuovo.
Il lavoro, quello salariato, è quella prassi con la quale si ottiene una merce scambiabile con altra: il denaro. Quest'ultimo è il principale diffusore di un'illusione di massa: l'idea cioè che nel capitalismo si è tutti sullo stesso piano. Non è così. Malgrado tutti lavorino, non tutti fanno lo stesso lavoro, non tutti sviluppano lo stesso salario, vale a dire una precisa quantità di merce (il denaro) pari al lavoro svolto in un determinato periodo. Il lavoro salariato stabilisce già delle differenze sociali, ma la vera diversificazione tra i lavoratori/produttori di merce (denaro) si evidenzia nel gioco dello scambio economico dove il salario si trasforma nel capitale, ossia in merce che può essere scambiata con altra. Lo scambio del capitale, della merce avviene sì secondo la logica dell'accumulare e dell'investire, ma questa pratica si svolge, oltre che per motivi voluttuari, addizionali e accessori, per un'altra ragione in particolare: per la sopravvivenza. È questo il significato dello scambio quando diviene “economico”, quando cioè ci si scambia della merce. Il capitale che si possiede stabilisce chi è in grado di sopravvivere, chi no. La sopravvivenza dipende dalla capacità singolare di gestire il rapporto consumo/investimento della quantità di capitale che si possiede.
Nel suo passare di mano in mano, infatti, la merce si consuma, si logora, si degrada fino a svanire o a non essere più scambiabile. Inoltre, l'essere umano è costretto a consumare alcuni tipi di merce per la propria sussistenza ed è obbligato a sostituire quella appena consumata per accumularne dell'altra da consumare in seguito per la stessa ragione. Per questo scopo, deve lavorare, deve ottenere un nuovo salario da trasformare in capitale utile per lo scambio, con il quale procurarsi la merce necessaria per la propria sussistenza. Ed è qui che trapelano le differenze.
Quanto più si capitalizza tanto più ci si può appropriare della merce da consumare per la propria sussistenza, viceversa, meno si capitalizza meno lo si è capaci. Chi capitalizza di più (macro-capitalizzatore), però, non investe tutto il capitale in questo modo ma soltanto una parte, investendo quella restante per capitalizzare (prima o poi) altra merce ancora da investire nuovamente in seguito. Procedendo in questa maniera, egli duplica, triplica, moltiplica all'infinito il capitale iniziale, recuperando la merce impiegata di volta in volta per la propria sussistenza (o per soddisfare la propria voluttà). Ciò avviene anche perché egli possiede un potere che chi capitalizza di meno non ha: quello di decidere il valore economico della merce.
Chi, diversamente da questi, possiede sempre meno capitale (micro-capitalizzatore), ne consuma una parte sempre maggiore per la propria sussistenza, sottraendola a quella che potrebbe investire per recuperare il capitale iniziale e la merce consumata per la propria sussistenza (oltre che, anche lui, per soddisfare la propria voluttà). Ciò avviene anche perché i macro-capitalizzatori aumentano progressivamente il valore economico delle merci utili per la sussistenza (di tutti). Quando il consumo è superiore al capitale che possiede, per sopravvivere, il micro-capitalizzatore è costretto o a lavorare di più o a indebitarsi con i macro-capitalizzatori (i creditori) chiedendo loro un prestito di capitale, di merce. Che cosa accade a questo punto? Pur continuando a lavorare, il debitore si trova in una nuova condizione: non produce più salario, merce, capitale che gli appartiene ma che appartiene ai creditori. Finché non estinguerà il proprio debito, egli sarà merce stessa dei creditori e se non riuscirà mai a estinguerlo, si trasformerà in uno schiavo, mentre i creditori diventeranno i suoi signori. In questo senso, è evidente che se il significato nuovo dello scambio, quando diviene “economico”, è la sopravvivenza, il suo scopo, invece, è la creazione di una nuova separazione di classe tra signori e schiavi, vale a dire tra chi possiede sempre più capitale e chi ne possiede sempre meno, fino a non averne del tutto.
Con l'avvento della globalizzazione, la sopravvivenza, che dipende dalla capacità singolare di gestire il rapporto consumo/investimento della quantità di capitale che si possiede, riguarda anche i singoli Stati. Ci sono Stati che producono maggiore capitale e Stati che ne producono meno, Stati che diventano creditori e Stati che diventano debitori. Se gli Stati debitori non riusciranno mai a estinguere il proprio debito nei confronti dei propri creditori, è chiaro che si trasformeranno in Stati-schiavi mentre quelli creditori diventeranno i loro Stati-signori. In questa prospettiva, il capitalismo si evidenzia come quell'ideologia bramosa di creare una nuova differenza di classe sul piano planetario, tra signori e schiavi, tra creditori e debitori, tra potenti e impotenti. Ma il gioco dello scambio economico, quando assume delle proporzioni globali, è tutt'altro che infinito. Si giungerà a un punto nel quale pochissimi diverranno i signori incontrastati di tutta la merce in circolazione, materiale e immateriale, mentre tutti gli altri ne diverranno gli schiavi. Divenendo i dominatori della totalità delle merci in circolo, tali pochissimi signori otterranno il potere di decidere il destino di tutto ciò che è merce. Dal momento che la vita in generale, non soltanto il pianeta, è ridotta a merce, allora diventare i dominatori della merce significa divenire i signori della vita, coloro cioè che hanno il potere di stabilirne il destino a proprio piacimento.
Quando saranno pochissimi a contendersi questi privilegi, il gioco dello scambio non avrà più alcun valore tra loro, perché l'unica cosa restante che sarà possibile scambiare sarà il potere e quest'ultimo non è una merce scambiabile come le altre. Il potere vuol essere esercitato, vuole dispiegarsi, vuole “potere” qualsiasi cosa stabilisca. Se uno di questi potenti, o tutti, deciderà di diventare l'unico signore della vita e di creare uno Stato mondiale dove egli stesso è l'origine della legge, dell'autorità, dove egli stesso è dio, è evidente, in questa prospettiva, che c'è da attendersi in futuro uno scenario apocalittico, tormentato da nuovi conflitti mondiali. Ma questo futuro, è poi così lontano?

lunedì 4 aprile 2011

Pensieri visivi: LA BELLEZZA CHE UCCIDE IL TEMPO di Roberto Ferri

- di Saso Bellantone
Una donna. Su di una mano regge una spada. Con l'altra trattiene un vecchio con le ali nere, steso per terra sotto di lei. La sua espressione è severa. Quella del vecchio è di meraviglia mista a supplica. Sulla schiena del vecchio s'intravedono due colombe: una bianca, una nera. È così che Roberto Ferri presenta e rappresenta La bellezza che uccide il tempo.
Il tempo... questo vetusto e irrefrenabile demone, il cui battito d'ali grava sulla nostra vita come colpo di martello sull'incudine, spingendola sempre più nelle profondità del suo dolore. Il tempo vola fuggiasco e impassibile, conducendo inesorabilmente l'essere umano alla fine, alla morte. La volontà umana è impotente innanzi al suo rapido planare, ne è schiava. Non può trattenerlo né rallentarlo né fermarlo per sostare nella vita o in un attimo di essa. Malgrado sé, è costretta a obbedirgli, percorrendo disperata, quasi come un automa, l'irreversibile sentiero che dirige verso la propria fine. È una fatalità senza rimedi.
Ma l'inatteso avviene sempre quando ormai la vista è oscurata dalle catene del tempo. Una folgorazione improvvisa può incrociare il nostro nero cammino e, attraverso di noi, il volo fugace del tempo. È la Bellezza che rischiara la nostra oscurità con la sua spada tagliente. È quella forza capace di sfidare il tempo attraverso di noi, capace di afferrarlo, di bloccarlo, di costringerlo a star fermo. Capace di ferirlo, facendone fuoriuscire la vita: la nostra.
Quando s'incontra la Bellezza, ci si sente magnetizzati, stregati dalla sua purezza. La Bellezza diviene il senso, lo scopo della nostra vita, alla ricerca della quale, ancora una volta e ancora innumerevoli volte, non ci si può che abbandonare. L'abbandonarsi al chiarore della Bellezza è una rinascita della vita: l'essere immondo, che è ognuno di noi, finalmente può planare leggero e libero, al di là dei fili invisibili del tempo, può vivere. Qualunque sia il volto della Bellezza – umano, paesaggistico, naturale, ideale, artistico, scientifico, letterario, sensitivo – attraverso di esso non si fa altro che incontrare la vita. Perché che cos'è la vita, se non la fonte che zampilla dalla ferita del tempo, inferta dalla spada della Bellezza?

sabato 2 aprile 2011

GNOSIS: intervista a Natale Zappalà

- di Saso Bellantone
Storico e giornalista divulgatore, Natale Zappalà (Reggio Calabria, 1982) ha conseguito nel 2007 la Laurea triennale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Messina, discutendo una tesi in Storia Economica della Moneta Antica intitolata Rhegion e Zancle: storia economica dello Stretto fra VI e V secolo a.C.. Nel 2009, presso lo stesso ateneo, si è specializzato (laurea magistrale) in Storia e Istituzioni della Grecia Antica. Nel 2008 è stato insignito del XIII Premio Internazionale Anassilaos Giovani per la ricerca. Nel 2010 ha pubblicato il saggio storico La Reggio di Anassila (Leonida). Attualmente cura il blog natalezappala.blogspot.com e collabora con la testata Costaviolaonline.it e con la rivista IusRheginews, occupandosi in particolare della valorizzazione del plurimillenario patrimonio di memorie riguardante il territorio reggino.

Come nasce la tua passione per la storia?
Si tratta di una passione infantile che nasce da una un'esigenza congenita, il disperato bisogno di conoscere e comprendere ciò che mi ha sempre affascinato: il passato. Da bambino tentavo di ricostruire le grandi battaglie della storia medievale, servendomi di pupazzi e mattoncini. Da adolescente ho continuato ad approfondire le mie conoscenze, leggendo centinaia di volumi e, infine, mi sono iscritto al corso di laurea in Storia. Direi che la Storia può senz'altro definirsi il comune denominatore della mia vita.

Che cos'è la storia?
La Storia è una scienza e il suo campo di studi coincide con l'ineluttabile cambiamento che caratterizza le vicende umane.

Chi è lo storico?
Lo storico è colui che, conscio del significato e dell'oggetto della disciplina, si occupa di dare vita alla Storia attraverso la ricerca. Si tratta, chiaramente, di indagini relative e perfettibili. Del resto, le scienze non giungono mai a delle verità assolute, possono soltanto “tendere” alla verità. Ogni nuova acquisizione rimane sempre un'approssimazione della verità, da verificare o confutare attraverso indagini successive.

Quali fonti è possibile definire “storiche”?
Il termine “fonte” designa qualsiasi testimonianza del passato. Dal momento che lo storico tende a ricostruire la fisionomia di una determinata epoca, nessuna tipologia di fonte può essere scartata in sede di ricerca, dalla letteratura all'urbanistica, dalla numismatica alla statistica, dall'archeologia alla botanica. Ogni elemento proveniente dal passato, in teoria, è una fonte “storica”.

Con quale metodo, o metodi, è possibile fare storia?
Esiste un solo metodo storico: l'indagine scientifica sulle fonti, cioè sulle testimonianze del passato. Al di là di tale metodo, non esiste la Storia, la quale è – ribadisco – una disciplina scientifica votata alla conoscenza e non all'intrattenimento.

Quale metodo preferisci impiegare per le tue ricerche?
L'unico metodo esistente, quello che ho descritto supra. Sulla base della totalità delle fonti di cui dispongo, cerco di ricostruire analiticamente la fisionomia di un determinato contesto storico.

Quale utilità ricava il singolo essere umano dalla storia?
In quanto scienza che studia l'eterno cambiamento delle cose umane, la Storia è una “palestra del pensiero”. Lo storicismo rende chi ne è padrone particolarmente ricettivo nei confronti del mondo. Conoscere la Storia aiuta a sviluppare lo spirito critico, cioè la capacità di analizzare coscienziosamente qualsiasi cosa. Una grande utilità dunque, ma attenzione a non confondere l'utilità con la felicità, perché quando apprende che tutto cambia e, per di più, che tutto è relativo, chi si affaccia alla Storia non può che mantenere una visione disincantata della vita.

Quale utilità invece ricava dalla storia una civiltà?
Una civiltà ideale dovrebbe puntare alla divulgazione del criticismo – e quindi di tutte le forme del pensiero atte a svilupparlo, come la Storia – fra gli individui che accettano di farne parte. Chiaramente, ogni civiltà, stato, nazione, gruppo e qualsiasi altra forma di collettività in genere, si guarda bene dal farlo, altrimenti verrebbero delegittimati dai cittadini i presupposti su cui si basano da millenni tutte le forme di potere politico, religioso o economico. Guardiamoci intorno: ovunque gli uomini sono dominati dal dogmatismo, persino la moda è diventata un dogma per la maggioranza degli individui: se un personaggio famoso indossasse le mutande come copricapo in TV, l'indomani si conterebbero migliaia e migliaia di persone andare al lavoro con le mutande in testa. La società cristiana accetta un uomo che si ritiene infallibile per dogma come guida morale e spirituale, mentre in quella islamica la sopraffazione della donna è considerata un valore da difendere. Ma la cosa più orribile è che le civiltà umane hanno sempre escogitato dei sistemi acritici di tutela delle sopraffazioni. L'analisi storica degna di questo nome consentirebbe di smascherare tante cose, semplicemente dubitando di esse. Ma nella società di oggi, chi dubita, nella migliore delle ipotesi, viene considerato un disadattato. La risposta è che, in definitiva, le civiltà umane traggono linfa vitale ignorando l'utilità della Storia.

Nell'era della globalizzazione, le civiltà terrestri possono fare a meno della storia?
Le civiltà terrestri non solo “possono”, ma “devono” fare a meno della Storia, per i motivi che ho spiegato prima, a meno che esse non siano davvero orientate alla ricerca della verità.

Dalla scuola all'università, come faresti studiare la storia?
All'interno delle scuole – e, purtroppo, anche all'interno di alcune università – non si studia la Storia, ma le sue caricature: cronache composte da vuoti elenchi di date e fattarelli, recitate a memoria come le litanie. Si dovrebbero educare gli studenti alla luce del metodo storico-scientifico, facendoli riflettere sugli avvenimenti piuttosto che sommergendoli di nozioni. D'altronde, non sono pochi gli storici con tanto di laurea che ancora ritengono che la funzione essenziale della Storia sia quella di “imparare dal passato per non ripetere gli errori in futuro”. Se davvero esistesse un finalismo nella Storia, gli uomini si ucciderebbero fra di essi per religione o denaro? Il cammino della Storia non è, per sfortuna, un percorso basato sull'evoluzione, ma sul cambiamento. Ciò equivale a dire che l'essere umano, nel corso delle ere, non è migliorato, né peggiorato: è soltanto cambiato.

Che vuol dire vivere come uno storico? Di quali responsabilità occorre farsi carico?
Lo storico, al pari di qualunque altro studioso, dovrebbe mantenere un'etica professionale dignitosa, in ossequio al metodo scientifico che adotta nel corso delle sue indagini. Uno storico deve sempre rendere conto, a se stesso e agli altri, della ricerca, metodologicamente fondata, della verità. Chiaramente ci sono storici competenti e meno competenti, così come ci sono scrittoruccoli da strapazzo che si fingono storici quando invece producono opere che non hanno nulla da spartire coi concetti di metodo, verità o fonte. Chi strumentalizza il passato per altri scopi che non siano conoscitivi, non è uno storico, ma un ciarlatano.

Alcune parole per i giovani.
La conoscenza è la condizione essenziale della libertà. Difendete sempre il vostro diritto inalienabile di conoscere e sarete liberi.