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martedì 27 settembre 2011

Pensieri visivi: LA STANZA DEGLI OGM di Laura Gramuglia

- di Saso Bellantone
È l’ora del pranzo, o della cena. Due manichini stra-imbellettati senza volto né mani si apprestano al banchetto. La tavola è apparecchiata ma la pasta, la frutta, le posate, i piatti, i calici, le bottiglie, persino i dipinti, tutto è rigorosamente nero, come la pece. La stanza degli Ogm di Laura Gramuglia ci parla del pericolo che incombe, costituito, appunto, dagli Organismi Geneticamente Modificati. Un pericolo che riguarda l’essere umano e la natura.
L’essere umano è un ente naturale, parte stessa della natura nella quale vive, che gli offre gratuitamente i propri prodotti, per consentirgli di nutrirsi, di sopravvivere. L’essere umano dipende, dunque, secondo una prospettiva biologica, dalla natura. È sempre stato così e questo avviene tuttora malgrado oggi accada anche l’inverso. Oggigiorno, perfino la natura dipende dall’essere umano. Con il progresso conseguito negli ultimi tempi dalle scienze e dalla tecnica in ogni dimensione del mondo della vita, oggi ci si trova a un punto zero, originatosi dall’abbattimento del confine tra l’umano e il divino. Con il potere delle scienze e della tecnica, l’essere umano si considera un dio, unico detentore dell’autorità, del diritto di varcare ogni barriera, come quella, nel campo della genetica, tra il naturale e l’artificiale. Non si rende conto che lo smantellamento di questa frontiera è un pericolo, per lui stesso e per la natura.
Il crollo di questo confine è un avvenimento epocale, perché inaugura la possibilità della fine dell’antica relazione tra l’essere umano e la natura. Gli Ogm sono prodotti artificiali, alterati, non naturali, nutrendosi dei quali l’essere umano stesso diviene artificiale, alterato, non naturale. I manichini sono senza volto e senza arti proprio perché hanno perso la loro umanità, la loro autenticità. Il dipinto appeso alla parete è nero come gli Ogm perché segnala tale perdita: smarrendo la propria umanità, l’essere umano perde la propria storia, il contesto nel quale avveniva la sua vita – la natura – scompare lui stesso, muore. Gli Ogm uccidono ciò che è naturale e ciò che è umano, provocando il fallimento dell’antica relazione tra la natura e l’essere umano. Costituiscono il nero frutto per eccellenza della forsennata volontà di potere umana, proiettata continuamente verso l’estremo pericolo: la morte. La stanza degli Ogm denuncia tale pericolo: producendo gli Ogm, l’essere umano uccide la natura. Nutrendosi di questi prodotti morti, anziché sostenere la propria sopravvivenza, l’essere umano supporta la propria morte.
La stanza degli Ogm lancia questo campanello d’allarme e invita a pensare. Gli Ogm costituiscono un veleno letale per la natura e l’essere umano, che annienta l’antica relazione tra i due ed evoca un mondo disumano, artificiale e morente. Ogni giorno la nostra società tecno-capitalistica dice di sì agli Ogm e, in questo modo, diffonde la morte, provoca una disumanizzazione del mondo. La cravatta e collana di perle sono una metafora del capitalismo, mentre gli abiti dei manichini, neri come gli Ogm, sono una metafora della morte in atto. La stanza degli Ogm denuncia questa situazione, ne manifesta simbolicamente la logica nascosta, invita alla riflessione e a salvare la natura, la nostra umanità, la vita. Per questo scopo, è necessario riscoprirsi parte integrante della natura, ricostruire la barriera tra il naturale e l’artificiale, rafforzare il nostro legame con la natura, comprendere di non essere dio. In breve, occorre cominciare a dire di no agli Ogm. Facendo il contrario, ci attende una triste sorte.

domenica 25 settembre 2011

Inaugurata la mostra Dalla noia nascon fiori unici

- di Saso Bellantone
Si apre con un effetto domino la Mostra d’Arte Contemporanea organizzata dal collettivo Laboratorio Kaleidoscopio presso il Castello Ducale Ruffo di Bagnara, inaugurata dal sindaco Cesare Zappia e gli assessori Giuseppe Spoleti e Bruno Dominici. È l’effetto domino che l’arte è capace di provocare in un gruppo di persone, in una comunità e anche oltre l’orizzonte. In una parola: speranza. Non c’è spazio libero per l’aria, il vuoto, la solitudine. È tutto pieno: il cortile, le camere, la terrazza, la via esterna. Tutti quelli che hanno ancora voglia di fare comunità, di sorridere, di pensare e di sperare con la voce dell’arte si raccolgono al Castello da ogni zona della provincia, per sentire, appunto, la voce dell’arte, pardon, le sue diverse voci. Pittura, scultura, fotografia, installazioni, allestimenti floreali e sculture vegetali, musica, lettura, video e quant’altro: sono questi gli ingredienti che i giovani artisti del Sud e del Laboratorio Kaleidoscopio usano per far sentire ognuno la propria voce con le differenti tonalità dell’arte e lanciare al Sud stesso un messaggio di speranza. Una scossa è sempre possibile. Occorre lasciarsi travolgere dalla cultura, dall’arte, dai giovani. Una volta che questi tasselli cominciano a operare, a “cadere”, il più è fatto. Non si può fermare il domino ma soltanto cavalcarlo come un’onda che conduce a persone, a gruppi, a comunità, a un intero Sud diverso, nuovo. Di seguito, la voce di alcuni artisti.

Tonino Cassalìa:
“Mi sono avvicinato all’arte con gli elementi naturali che ci circondano, con ciò che la natura ci offre. La mia arte non vuole deturparla: usa la natura con molto rispetto. Per esempio, in questa mostra ho realizzato due grifoni, stilizzati, per rappresentare lo stemma del Castello di Bagnara. In genere amo rappresentare forme mobili, non lineari, tutto ciò che può essere avvolto e inglobato in tutto quello che ci circonda, in tutto ciò che la natura fa. Il tema dominante della mia arte è costituto dalle radici. Occorre sentirsi legati alle nostre radici e alla nostra terra, anche se si è costretti a cercare fortuna altrove. La mia tecnica evidenzia una delle caratteristiche predominanti del Meridionale: la capacità di adattarsi a ogni situazione, con una marcia in più rispetto ad altri. È necessario coltivare l’arte, in primo luogo nelle scuole. Tutti possono essere artisti ma ci sono anche delle regole che vanno seguite per poi uscirne a modo proprio, cioè con la propria arte. Studiando si ha la possibilità di personalizzare i propri lavori ma con una cognizione dell’idea e una spiegazione logica di cosa si va a fare. La politica, le istituzioni e i pubblici non sono vicini ai giovani artisti e all’arte. Non tutti. Questa mostra evidenzia quanti ragazzi ci sono al Sud capaci di creare con i materiali e le tecniche più svariate, ognuna di grande impatto ed effetto. Niente da togliere alle firme che stanno in giro però occorre puntare sui giovani, con delle idee innovative e con una sensibilità particolare rispetto a chi negli anni si è lasciato andare, abbandonandosi al modus vivendi negativo che ci circonda oggigiorno. Occorre stimolare i giovani, credere in loro, e aiutarli anche economicamente, per acquistare i materiali, per pubblicizzare e far conoscere l’arte anche oltre i confini della nostra regione.”

Mapi Dafne:
“Mi sono avvicinata all’arte per caso. A differenza di tanti altri che nascono fotografi, io mi sono avvicinata prima all’immagine in movimento, come filmaker, poi ho capito che un’immagine statica crea movimento lo stesso. Amo la fotografia in toto. Anche perché le nuove tecniche ci permettono di svariare in grande. La fotografia è l’occhio amplificato che dà la possibilità di, gioco di parole, sognare ad occhi aperti. La macchina fotografica mi permette di vedere e ricreare quello che voglio. La fotografia è libertà di espressione. Oltre al sogno ad occhi aperti, ci sono altri scopi che l’osservatore può cogliere. Ci tengo molto a fare denuncia sociale. Infatti nei miei scatti si possono vedere immondizia, bottiglie gettate a terra di multinazionali che inquinano l’acqua o l’ambiente oppure case di paesini abbandonati, lasciati al degrado mentre si continua a costruire altrove, non rivalutando quello che abbiamo. Credo che il non-luogo va ripopolato. Bisogna fare questo grande trasloco/migrazione dalle città ai piccoli paesini, riprendere i vecchi mestieri, le vecchie maestranze. Oggigiorno l’arte è stata volgarizzata. La fotografia, per esempio, da quando c’è stata l’introduzione del digitale, con il quale tutti sono diventati fotografi. Stesso dicasi per gli altri generi di arte. Con questo modo di vivere accelerato anche l’arte si è dovuta adattare: producendo velocemente non si riesce a cogliere il vero senso delle cose. L’arte invece ha bisogno di tempo, di espressione e soprattutto di libertà, che l’artista, in Italia e al Sud soprattutto, non ha. Bisogna stare attenti a fotografare certe situazioni. Dal punto di vista economico, l’arte non è libera. Io non mi reputo un’artista e il mio hobby è molto caro non soltanto sul piano economico. Non ne ricavo nulla: io lavoro per mantenermi questo hobby. L’arte alla fine, se è vera, non ripaga. Però l’artista che nasce oggi lo sa e se ama l’arte va avanti. La politica, le istituzioni e via dicendo dovrebbero aiutare l’arte e gli artisti perché la cultura è importante. L’arte trasmette cultura: occorre che ognuno metta a frutto le proprie idee, non si frustri e vada avanti in questo percorso. La politica spesso evita questo perché sa che la gente di cultura porta sempre tanti problemi. Abbiamo questa cultura strumentalizzata, chiusa in questi grossi edifici, riprodotta per loro. Infatti si vede quali sono gli artisti che vanno avanti: o fanno televisione o fanno mostre per la politica o l’economia. Credo che la politica non aiuterà mai l’arte e gli artisti perché la cultura è scomoda ma, per una volta ancora, voglio pensare di sbagliarmi. In ogni caso, se la politica non ci aiuta cercheremo di aiutarci da soli, perché l’unione fa la forza e questa esposizione lo dimostra. Ognuno con i propri tempi, ritagliando del tempo all’arte quando non è impegnato nel lavoro, dimostra di lavorare bene assieme agli altri. Speriamo di fare altre iniziative simili”

Carmela Caratozzolo:
“L’arte mi è sempre piaciuta fin da piccola in tutte le sue varie forme, tant’è che faccio danza da tanti anni: quale miglior medium per avvicinarsi all’arte. L’arte o ce l’hai dentro da quando nasci o è difficile tirarla fuori. Non è una cosa che si può spiegare: o si sente o fai altro. In questa mostra ho creato la Stanza dei Guardiani del Sidro, che parla dei peccati capitali e del peccato originale. Quindi mette in luce questo aspetto biblico, ricalcato dalle mele – simbolo del peccato – che è un messaggio abbastanza lampante. Ognuno fa di sé la propria arte: è una manifestazione dei sentimenti che si hanno e ognuno li esprime come meglio crede, con la scultura, la pittura, l’installazione. L’arte è un dire la propria e comunicare all’osservatore quel che si ha da dire, quel che si dice con il linguaggio dell’arte. L’arte e gli artisti hanno sempre difficoltà, in alcuni casi anche tra di loro, perché l’arte è, naturalmente, soggettiva e ciò spesso crea delle incomprensioni. Tra gli artisti è normale, infatti gli artisti tendono poi a superare queste incomprensioni tra di loro. È anormale quando l’arte non è compresa dagli altri, da chi artista non è e da chi fa di tutto per contrastarla. Bisogna invece cercare di mantenere l’arte e gli artisti nella nostra terra. A tal fine, occorre credere nell’arte e negli artisti e creare degli spazi come questo, il Castello di Bagnara. Se si parte da questo, il resto verrà da solo, passo dopo passo. Le cose non si possono programmare in toto, specie quando si ha a che fare con l’arte. Abbiamo voluto realizzare questa mostra senza chiedere contributi, per dimostrare che come primo passo l’arte non ha bisogno di soldi bensì di un monito pratico: ha bisogno di comunicare, di esprimersi. L’arte necessita di una collaborazione attiva da parte di tutti, senza pensare a scopi di lucro. Poi ovviamente se si fanno le cose in grande, c’è bisogno di un aiuto più concreto e a quel punto si parte con gli aiuti economici, specie quando si ha a che fare con dei giovani artisti che non hanno altri modi per sopravvivere. L’arte può essere un solido strumento per la lotta contro la criminalità e per distogliere i giovani dagli strumenti di comunicazione di massa che li raggirano, mostrando loro un mondo che non esiste. L’arte può risvegliare i giovani, parlargli, mostrargli qual è il vero mondo nel quale viviamo e insegnare loro a denunciare, a battersi per un mondo diverso.”

Gregorio Ocello:
“L’arte mi è sempre piaciuta. Studio infatti al Dams a Roma. In occasione di questa mostra ho pensato di creare un video, un mix di immagini e musica, impiegando un brano di mio cugino Biagio La Ponte, intitolato “Percezioni”, pensato originariamente per il suo cd. Po io l’ho adattata, dandogli un mio significato attraverso il video. L’arte può aiutare la gente a capire certe cose che altrimenti da soli non riescono a capire. È un mezzo che serve per fare aprire gli occhi alla gente, un mezzo che possono usare tutti, è per tutti e non è mai controllato completamente dalla società. È un mezzo per parlare liberamente con la gente comune. Il video che ho realizzato per la Stanza degli Elementi, vuole far capire alla gente che siamo controllati e paragone le persone alla natura. Se la natura dovesse ribellarsi, si pensi ai terremoti agli tzunami, potrebbe prendersi in un attimo ciò che gli spetta di diritto. Lo stesso vale per la gente ma non se ne rende conto. Il video parla dunque a tutti, a proposito di quello che accade nel mondo, impiegando la metafora della natura. L’arte finora è stata aiutata pochissimo perché è pericolosa, scardinerebbe l’ordine delle cose, il sistema. L’arte è ormai considerata qualcosa di commerciale, è usata soltanto per fare soldi e sfruttare la gente con gli occhi chiusi. Anzi è stata trasformata. Lo scopo dell’arte commerciale è il contrario di quello che l’arte vuole raggiungere: aprire gli occhi all’uomo su quello che lo circonda. Occorre investire sull’arte per avere più punti di vista, più libertà, ma investire nel senso di “creare di più”, non in senso economico. L’arte deve essere libera dall’economia. È un investimento per stimolare il criticismo dell’essere umano e soprattutto dei giovani che, grazie alla tecnologia di oggi, possono creare di più e possono parlare agli altri per far aprire loro gli occhi.”

Giuseppe Frosina:
“L’arte mi ha sempre appassionato fin da bambino, quando disegnavo o copiavo le cassette della Walt Disney. Dopo le lacrime che ho versato quando i miei genitori hanno scelto di mandarmi allo scientifico anziché all’artistico, ho deciso di seguire la mia passione e non l’aspetto puramente lavorativo. Così sono andato all’Accademia. Da qui ho seguito la mia strada. Mi è sembrato giusto mettere in piedi questa mostra a Bagnara perché offre l’occasione di evidenziare l’arte e di conoscere i giovani che permangono nella nostra terra. Questa fuga di cervelli verso il nord impoverisce il territorio dove noi nasciamo. Da qui, scaturisce l’esigenza di mettere in piedi un insieme di idee, per dare voce ai giovani che sono rimasti in una terra che non ti dà molte aspettative né via d’uscita. E allora abbiamo deciso di creare, di urlare tramite il metodo per eccellenza: l’arte, dove non ci possono essere censure ma soltanto libera espressione. Abbiamo scelto di organizzare questa mostra in occasione delle Giornate Nazionali per il Patrimonio perché guardandoci attorno abbiamo visto cose che non ci andavano bene – vedi com’è stato trattato il Castello e altri reperti della nostra storia passata – e abbiamo pensato di farla qui per mettere in primo piano anche il nostro patrimonio, usando la nostra voce, quella dell’arte. L’arte è libera espressione. Al contrario di quanto dicono molti secondo cui internet è l’unico metodo per esprimersi liberamente, io credo che ancora oggi questo spetti soltanto all’arte. All’inizio, quando abbiamo pensato di organizzare questa mostra, c’era molta paura di non essere capiti. Paura delle persone che non sono abituate a un certo tipo di discorso o di situazioni. L’incomprensione era la nostra paura più grande. Io penso che fare un certo tipo di cose, anche in contesti come questo, è importante per abituare la gente a un certo tipo di linguaggio. Elevare le persone a qualcosa di più e non abbandonarle alla loro “ignoranza”. L’arte è una crescita e gli artisti sono chiamati ad aiutare gli altri in questa crescita, a prendere coscienza delle cose. La Stanza della Polvere, per esempio, è una metafora che rappresenta l’arrendevolezza dell’uomo. L’uomo si è inserito sempre più in un percorso che non gli appartiene. Io credo che l’uomo è un essere naturale e che il progresso, in realtà, è un regresso. Più progrediamo più ci allontaniamo dal nostro stato naturale. La polvere è la metafora per eccellenza per comunicare questo. Rappresenta infatti la battaglia che l’uomo combatte giornalmente contro quello che ha creato su di sé. La polvere non è un elemento che ci appartiene: ogni giorno tu la togli ma lei torna sempre. Credo che un giorno l’uomo si stancherà di questa situazione che si è creato attorno. Guardiamo le scope molli: guardiamo che cosa accadrà se tutto verrà abbandonato. Non ci sarà più niente, nemmeno l’uomo. Spero che si riesca ad acquisire la coscienza di tornare a quello che eravamo. Finora l’arte e gli artisti sono stati aiutati pochissimo, perché nessuno fa niente per niente. Credo che la politica sfrutti queste occasioni per farsi una cornice attorno che gli possa servire in futuro, non perché si creda a fondo nei valori dell’arte e dell’impegno che stiamo mettendo. È un gioco che bisogna intraprendere, da qualche parte occorre cominciare, abituando le persone e i politici stessi, perché anche oro sono uomini, alla presenza dell’arte. L’importante era iniziare e infondere un certo tipo di fiducia nei nostri confronti. Per ora c’è stata, vedremo in futuro. Vogliamo che la gente si fidi dell’arte, si appassioni e speri in un futuro migliore, privo di paure, di crescita e capace di decodificare qualsiasi tipo di linguaggio in modo costruttivo: l’essere più aperti.”

Alessandra Ienco:
“Mi sono avvicinata all’arte con più forza quando ho iniziato l’Accademia delle Belle Arti a Reggio dove, studiando e conoscendo altre tecniche e altri artisti, ho capito maggiormente la mia vena artistica. Un’opera d’arte a primo impatto deve trasmettere qualcosa, specie a un osservatore che non la vive giornalmente come accade per noi. Spesso non è capita però occorre che l’osservatore si avvicini sempre a questa realtà che per lui risulta essere nuova. Pian piano può crearsi una sintonia con l’arte, può educarsi all’arte malgrado, a tal fine, siamo noi i primi a doverlo educare. L’installazione che espongo in questa mostra s’intitola “Le realtà invisibili”, nella quale rappresento l’esperienza umana. È come se ci ritrovassimo all’interno di un cervello, che viene rappresentato attraverso il corpo umano dell’uomo e della donna, che appaiono come dei manichini che hanno il corpo colorato di cielo, in quanto rinvia a un senso di libertà che ritroviamo all’interno di ognuno di noi. C’è una serie di fili che rappresenta il non rappresentabile, cioè sia tutto ciò che è nella mente dell’uomo, i pensieri di ogni singola persona, sia l’energia vitale dell’essere umano, che viene fuori da questo uomo e questa donna, che rappresentano ognuno di noi. In generale l’arte è aiutata e stimolata ma lo stesso non si può dire pienamente al Sud, tranne alcune eccezioni. In questo caso, stiamo tastando il territorio e la gente. Si spera in una rinascita dell’arte e in particolare in una giusta valorizzazione di questi giovani artisti che stanno esponendo oggi al castello. Occorre aiutare l’arte e gli artisti, non possiamo farne a meno. Oggi si spreca tempo a guardare un qualsiasi oggetto elettronico o tecnologico, mentre innanzi a un’opera d’arte si passa dritti e non perdiamo tempo, ma perdiamo la possibilità di riflettere sulla vita con altri occhi, mediante l’opera pittorica, scultorea e altre realtà. C’è bisogno di vedere un oggetto semplice come la lana di quest’opera, alla maniera di un simbolo della continua lotta dell’essere umano con se stesso nel corso del tempo, e che indica anche l’energia dell’uomo che nonostante le lotte, le difficoltà della vita e le cose più belle, comunque trova sempre un modo per uscire e condurre l’uomo in avanti nel suo cammino.”

Mimì Ramone:
“Sono state due settimane toste. La mostra è un evento per Bagnara e per il Sud perché non è soltanto un’esposizione ma un progetto che vorremmo duri nel tempo, per il territorio e recuperare le strutture abbandonate o poco utilizzate e sfruttate. Quel che immaginavamo era una situazione di incontro di artisti, di esposizioni, di installazioni, di performance di danza, di teatro, di musica, cioè un museo che raccolga tutte le forme di arte contemporanea. Volevamo trasformare il Castello in un museo, una cosa che a Bagnara manca. Noi lavoriamo per la creazione di una situazione continuativa per riutilizzare gli spazi inutilizzati, rivalutando la possibilità di crearci da noi il lavoro. Per noi sarebbe bellissimo poter vivere di questo. C’è chi si occupa della parte esecutiva, chi della parte organizzativa, c’è chi ha studiato una disciplina, chi un’altra ma tutti operiamo per lo stesso scopo. Raggruppando queste menti volevamo creare questa situazione, questo laboratorio. Volevamo un punto di riferimento e il Castello ci sembrava la location ideale. Il titolo di questo evento, “Dalla noia nascon fiori unici”, nasce così. Una sera abbiamo cominciato a parlare in piazza di questa iniziativa. L’estate bagnarese era finita, sono partiti tutti e siamo rimasti in quattro a parlarne. Nella noia, ognuno ha tirato fuori un’idea che è diventata un punto di partenza verso qualcosa che nel nostro paese non si era ancora visto. Dalle idee che abbiamo tirato fuori mi sembrava adatto questo pezzo della canzone degli Afterhours. Annoiati dagli eventi che ci sono stati quest’estate – il calendario dell’estate bagnarese è stato peggio degli altri anni, a parte le serate dei Ganja Garden o di Valentina Sofio – per divertirsi occorreva andare fuori, per esempio seguendo Battiato o il Paleariza. Insomma, tutto è nato dalla sera alla mattina. Invito tutti a venire al Castello per darsi una scossa culturale e stimolare la propria curiosità con un’altra cosa nuova. È anche un modo per conoscere i giovani che abitano la nostra terra. Se l’avesse fatta qualcun altro, io sarei stata la prima a dire “andiamo al Castello”. Quando c’è una cosa nuova in giro, vado subito. La gente deve venire qui, per dare quella critica anche negativa, o un consiglio, o accorgimenti, o per spronarci ancora di più, è tutto costruttivo. Quindi, vorrei che si parli di questo, che le opere e le installazioni che abbiamo preparato stimolino la riflessione e che si cominci a pensare a quanto abbiamo da proporre. Se si riesce a centrare questo obiettivo, per me sarebbe il massimo.”

venerdì 23 settembre 2011

DALLA NOIA NASCON FIORI UNICI: programma della Mostra d’Arte Contemporanea al Castello Ducale Ruffo di Bagnara

- di Saso Bellantone
Il 24-25 settembre 2011, in concomitanza alle giornate Europee del Patrimonio, il collettivo Laboratorio Kaleidoscopio con la collaborazione del Comune di Bagnara Calabra, presenta la Prima Mostra d’Arte Contemporanea presso ilo Castello Ducale Ruffo di Bagnara, intitolata “Dalla Noia Nascon Fiori Unici”. Oltre ai curatori, Giuseppe Frosina, Carmela Caratozzolo e Mimì Ramone, gli artisti che parteciperanno alla mostra con le loro opere sono: Laura Gramuglia, Pietro Morello, Nadia Giovinazzo, Mapi Dafine, Carmelo Sofio, Giuseppe Macrì, Tonino Cassalìa, Domenica Esposito, Alessandra Ienco, Gregorio Ocello, Valentina Leuzzi, Teresa Ribuffo, Margherita Calabrò, Sara Calabrò, Carmelo Gramuglia, Enzo Triulcio. Di seguito, il programma della mostra:
24 settembre
Ore 18:00 Inaugurazione della mostra
Con la partecipazione del Sindaco dott. Cesare Zappia e gli assessori Giuseppe Spoleti e Bruno Dominici.
Ore 21:30 - Reading
Poesie e racconti a cura di Francesco Villari (Prod. appese), Mike Rob e Matteo (“Sotto le ascelle”).
Ore 22:00 - Performance Live
Mordecai Non Parla
Francesco Stilo e Pieropaolo Casile

25 settembre
Ore 11:00
Apertura mostra e visita guidata.
Ore 21:45 Performance teatro-danza
"Tempo di vento" a cura di Carmela Caratozzolo - scuola Ariadne - Bagnara Calabra
Ore 22:00 - Perfomarce Live
Michele “MikyDeath” con Sergio Idone (voce, basso), Marco Modica (violino) e
Federica Catalano (voce femminile)
Selezione musicale a cura di Daniele Giustra
Durante la mostra degustazione di vini a cura della casa vinicola Criserà.

giovedì 22 settembre 2011

ARCHE': genesi in corsa

- di Saso Bellantone
In principio, nel vuoto, vi erano due entità. Erano infelici perché vagavano nel niente sempre da sole. Durante il loro vagabondare nel puro nulla, per un istante, si ritrovarono l’una innanzi all’altra. Fu amore a prima vista. Subito, si presero per mano e ricominciarono il loro girovagare nel vuoto, felici della compagnia trovata. Una delle due, però, era talmente felice della presenza altrui, che corse così velocemente da perdere la mano dell’altra. Quando se ne accorse, decelerò, attese che l’amata la raggiungesse e nel momento in cui fece per stringerle nuovamente la mano, restò meravigliata: nella mano, l’altra reggeva una nuova entità, aveva Arte... continua a leggere

sabato 17 settembre 2011

BAGNARA: L'ARTE PERIFERICA. Incontro a più voci su "Arte espressione dell'anima"

- di Saso Bellantone
Si è tenuto ieri presso la piazza Matteotti di Bagnara Calabra, l’incontro culturale intitolato L’ARTE PERIFERICA. Confronto a più voci su “Arte espressione dell’anima”, cui hanno partecipato: il musicista Mario Lo Cascio, il regista della Compagnia teatrale Argos Giuseppe Pietropaolo, lo scrittore Giuseppe Bagnato, il compositore Francesco Tripodi, il regista e attore della Filodrammatica Scillese Filippo Teramo, il poeta dialettale Rocco Nassi. Il maestro Mimmo Fadani, coinvolto in alcuni impegni artistici nella città di Venezia, è stato ugualmente presente alla serata inviando una lettera.
L’Arte Periferica è una rubrica curata dal blog Disoblio, condivisa in esclusiva su scala nazionale dal portale Paperblog e in esclusiva sul territorio calabrese dal portale Costaviolaonline. Tale rubrica da voce a tutti quegli artisti che sono sconosciuti al grande pubblico o dei quali difficilmente si parla, perché al di fuori degli imperanti meccanismi di promozione e pubblicizzazione, a guadagno di pochissimi. I suoi scopi sono: evidenziare come l’arte e gli artisti non abitino soltanto nelle metropoli della nostra società ma anche e soprattutto nelle “Periferie” di essa; far conoscere tali artisti e la loro arte; avvicinare i giovani alle arti; fare pensare. Leggendo il medesimo questionario rivolto ad artisti di diversa natura, il lettore, paragonando le risposte di uno con quelle di altri, ha la possibilità di coglierne le somiglianze e le differenze e, anche, di trovare se stesso.
Prima di dar voce agli ospiti, coerentemente con la natura letteraria della rubrica L’arte Periferica, e cioè di promuovere l’arte e gli artisti sconosciuti al grande pubblico, si è posta l’attenzione sulla questione Fadani e Giverny, già sollevata mediante un articolo pubblicato da Costaviolaonline.

L’opera grafica di Mimmo Fadani, “Risorgi Calabria”, è stata apprezzata a tal punto da essere pubblicata e recensita nel dizionario enciclopedico internazionale d’arte moderna e contemporanea. Affascinato da quest’opera, Denis Cornet, direttore e proprietario della prestigiosa galleria d’arte “Thuillier” di Parigi, ha proposto a Mimmo Fadani di esporre le sue opere nei luminosi locali e di aderire al prossimo SAM (Salone artisti membri e amici del Who’s Art Club International), che si terrà presso la storica galleria d’arte “Go” di Giverny, dove il grande pittore Claude Monet, animatore dell’impressionismo, visse a lungo e morì a 86 anni (Parigi 1840 – Giverny 1926). Dal momento che per effettuare una tale esposizione occorre investire ingenti somme, il maestro Fadani, che è sprovvisto di esse, rischia di non poter esporre le proprie opere a Giverny e nella casa di Monet. Per questo motivo, sono state sollecitate le autorità a farsi carico di tale questione e di trovare una soluzione, principalmente economica, per consentire a Mimmo Fadani di esporre le proprie opere a Giverny e per rendersi orgogliosi, un domani, del fatto che un nostro conterraneo, calabrese e meridionale, ha rappresentato con la sua arte, nella casa di Monet e innanzi ai più celebri artisti e critici del panorama artistico internazionale, il Sud e tutti noi.

Nel corso della serata, gli ospiti hanno parlato di se stessi, di come ognuno, rispettivamente, si è avvicinato alla propria arte (musica, teatro, scrittura, composizione, regia, poesia dialettale), dell’essenza e dello scopo di ogni arte, dell’ultima opera d’arte realizzata. Si è inoltre evidenziato quali difficoltà gli artisti e l’arte sono costretti ad affrontare giornalmente nella nostra terra: sinteticamente, la mancanza di un sostegno strutturale, strumentale ed economico da parte di enti pubblici e privati e, anche, la condanna da parte dei concittadini, compaesani, conterranei, in quanto l’arte è, al Sud, considerata un hobby e non un lavoro. Su questa scia si è posto l’accento sul fatto che l’arte è un fenomeno che va al di là dell’umana ragione e contingenza, ricalcandone la sua potenza unificante, salvifica, socializzante, emozionale, comunicativa, narrante, critica e propositiva, identificante, esistenziale, sensibilizzante, familiarizzante, rammemorante.

Non si è fatta sentire per nulla l’assenza del maestro Mimmo Fadani, impegnato artisticamente nella città di Venezia, il quale, anzi, inviando una lettera, ha dato numerosi spunti di riflessione – sull’arte, sulla decadenza della società e il dominio imperante della tecnica e del consumismo, sulla necessità dell’arte per riqualificare la dimensione della vita, sui giovani. A questi ultimi, il maestro Fadani ha rivolto parole di preoccupazione innanzi allo stile di vita suicida largamente diffusosi tra i giovani, e parole di speranza, invitandoli a seguire l’esempio degli artisti ospitati durante l’incontro culturale, che hanno dedicato una vita intera all’arte e all’esaltazione di quei valori universali, veri pilastri della vita umana. Sulla scia di Fadani, gli ospiti hanno concluso i loro interventi incitando i giovani ad avvicinarsi alla musica, al teatro, al musical, alla poesia, alla scrittura e soprattutto alla lettura e allo studio, unici strumenti capaci di opporsi alla crisi “culturale” imperante. Assieme alle arti, la lettura e lo studio, fatte con passione, consentono a ognuno di scoprire la propria identità, il proprio pensiero, le proprie doti innate e, frantumando le barriere della solitudine, di scoprire la bellezza di vivere in armonia con l’altro.

venerdì 16 settembre 2011

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Filippo Teramo, regista della Filodrammatica Scillese

- di Saso Bellantone
Nato a Scilla, Filippo Teramo è il presidente della compagnia in cui svolge anche i ruoli di attore e regista. È anche Presidente del Comitato Provinciale di Reggio Calabria della FITA (Federazione Italiana Teatro Amatori) ed è tra i fondatori della nuova compagnia scillese. Formatosi alla fine degli anni ottanta con la Nuova Filodrammatica Scillese, il suo repertorio conta di varie istrioniche interpretazioni sia comiche sia drammatiche. Ha partecipato nei primi anni novanta alla tournèe, con la compagnia scillese del tempo, ospitata dalle comunità italo-americane in USA e Canada. È l’ideatore e il coordinatore artistico della rassegna teatrale SCILLA TEATRO FESTIVAL, curata dalla Filodrammatica Scillese e giunta alla terza edizione. Tra le più recenti rappresentazioni della compagnia, che hanno riscosso un ottimo gradimento tra il pubblico, si ricordano: Un terno al lotto (Antonella Zucchini), A Furtuna và e veni (Ruggero Ciancio e Massimo Bruno), U Maluspiritu (Placido Cardona), Largu tri canali (Placido Cardona), Lo Spione (Samy Fayad), Troppa Grazia San Giuseppe (Maria Pia Battaglia), Testimoni Oculari. Sacra rappresentazione della Via della Croce (Angelo Franchini), A repubblica ri patati (Alfio Bonanno), Eccomi! Via Crucis della Passione e Morte di Gesù e Vita e Martirio di Padre Giuseppe Puglisi (Giovanni Bellantoni), Asu i coppi e tri i bastuni (Pino Giambrone ), Parasceve. La notte degli azzimi (Giovanni Bellantoni), Cincu fimmini e un tarì (Pino Giambrone).

Come nasce la Filodrammatica scillese?
La nostra associazione nasce ufficialmente il 29 gennaio 2006 e ha come finalità la pratica, la diffusione e la promozione dell’attività e della cultura teatrale. Nasce nell’ambito parrocchiale mantenendo stile, contenuti e metodi propri di un’associazione culturale, in cui in ogni attività, ciascun componente persegue soprattutto la crescita umana e spirituale. L’associazione, sempre alla continua ricerca del confronto culturale, rinascendo, ha voluto rivolgere uno sguardo alle esperienze passate, mutuando i sogni, le gesta, le passioni e le interpretazioni istrioniche di tutti i protagonisti della storia della “filodrammatica scillese”, quale patrimonio da non disperdere e base per un solido cammino, oltre che unico filo conduttore della chiara vocazione degli scillesi verso il teatro come mezzo espressivo e comunicativo ma anche come fattore culturale e artistico.

Che cos’è il teatro?
Mi piace ricordare un pensiero del grande Eduardo De Filippo “Fare teatro significa vivere sul serio quello che gli uomini nella vita terrena recitano male…”. Credo che questo sintetizzi il vero significato della nostra passione teatrale.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi del teatro, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Se alla base di ogni nostra azione vi è la consapevolezza che attraverso questo strumento si può valorizzare la socializzazione, credo che tutto diventa più facile. Il teatro lo permette, è un ottimo strumento di crescita culturale, sociale e affettiva e attraverso l’uso del suo linguaggio specifico, costituito dalla voce, dalla mimica, dalla gestualità, dalle emozioni trasmesse, dal reciproco coinvolgimento, esalta lo sviluppo culturale, facilita gli scambi sociali, crea nuovi orizzonti di affettività.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire le commedie della Filodrammatica scillese delle opere d'arte, delle creazioni nel senso pieno del termine?
Se lo intendiamo nel senso che ogni rappresentazione ci permette di confrontarci, allora, credo che questo ci permette di esprimere sentimenti profondi, di aiutare l’esercizio del giudizio, del ragionamento, ci permette di affinare lo spirito critico, stimola la sensibilità estetica e, pur nella giusta misura, in ogni rappresentazione si può trovare una risposta di senso alle domande esistenziali. E quindi alla fine ti ritrovi una sorta di “creazione” che si rinnova in ogni replica.

Perché recitate? Perché sentite l’esigenza di comunicare mediante l’arte della teatro?
L’arte del recitare permette: a ognuno di noi, volontari del palcoscenico, di avere un osservatorio privilegiato; ai nostri collaboratori, di confrontarsi in un laboratorio in cui, al momento teorico, si unisce quello della preparazione, un momento pratico, quello dell’interpretazione sulla scena; al pubblico, di interagire con le emozioni e con la sola gratificazione che da esso ci si aspetta, l’applauso.

Che cosa racconta la Filodrammatica Scillese con le sue commedie?
Non sempre si racconta qualcosa. Gran parte di noi, nel mentre programmiamo una stagione teatrale, siamo consapevoli di aver ricevuto in eredità una realtà vivibile e culturalmente vivace, frutto del lavoro di uomini e donne piene di iniziative, di inventiva, capaci di leggere e cogliere le esigenze del tempo corrente. Con i nostri lavori talvolta facciamo emergere i limiti e i difetti dei nostri comportamenti quotidiani ma senza alcuna morale, lasciamo libero il pubblico di ridere e magari tornando a casa di “ridere amaro” con la speranza di aver dato l’occasione di riflettere.

La Filodrammatica scillese può sentirsi tale senza i pubblici?
Assolutamente no. La forma del teatro amatoriale presuppone un contatto privilegiato con gli spettatori. Quando siamo in scena sentiamo tutto, le emozioni, le risate, l’applauso ma anche la noia. È un momento magico con l’interscambio di emozioni forti.

Che cosa significa oggi vivere come attori e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Molta passione equivale a grandi sacrifici. Non è impresa facile cercare di conciliare tempi, abitudini e distanze, il più delle volte si è tentati a gettare la spugna ma poi prevale il sentimento.

Che cosa spinge la Filodrammatica scillese a restare nel Sud?
E perché altrove se non al Sud? Confucio diceva “Se ascolto dimentico, se guardo capisco, se faccio imparo”. Compagnie come la nostra hanno il dovere di mettere in pratica questo pensiero. Anche attraverso la pratica della comunicazione sul palcoscenico e dell’interpretazione sulla scena, si ha la possibilità di sperimentare un diverso modo di apprendimento. La funzione di compagnie amatoriali come la nostra deve essere intesa come un’esperienza formativa e irripetibile dove anche il pubblico vive intellettualmente ed emotivamente.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Certo, sono soprattutto un sognatore e di solito i sogni nel cassetto rimangono tali. Ma ne voglio svelare soltanto uno: sogno un maggior protagonismo dei nostri giovani. Sembrano distratti da tante cose, si parlano a distanza e con mezzi tecnologici. Credo ci sia bisogna di creare aggregazione con il contatto, ritornando a praticare la strada, le piazze, i teatri, i luoghi all’aperto guardandosi negli occhi, per cogliere le emozioni di una risata ma anche di una lacrima.

Il titolo della vostra ultima commedia è “Cincu fimmini e un tarì”. Di che cosa parla?
Racconta l’arte dell’ “arrangiarsi”, peculiarità dei popoli meridionali. Il meridionale “uno ne pensa e cento ne fa” e anche così il personaggio principiale di questa commedia “u zu Tatanu Zarbu” che ha saputo raccogliere queste caratteristiche che lo contraddistinguono dagli altri suoi simili, esasperando conflitti tra apparenza e realtà, tra normalità e anormalità. È uno “sbriga faccende”, facendo la spola tra il suo paesino dell’entroterra, in cui vive, e il capoluogo della
sua regione. Riceve anche commissioni per le giocate del lotto. Il destino gli è fatale, dimentica di giocare un terno commissionato da tale Alfiu Santaita, che fortunatamente o sfortunatamente esce nella ruota di Palermo. Alfiu, persona rigorosamente aliena da compromessi, vuole a tutti i costi rimborsata la vincita a qualunque costo, altrimenti bisogna pagare con la vita lo sgarbo ricevuto. Il barone Paolo Trupia, titolo comprato a suon di
quattrini, con la moglie Vicia Naca e i due figli gemelli biovulari, o come dice lo stesso barone, “di du ova”, che ricorrono alla famiglia Zarbu per stipulare un contratto di fidanzamento con due delle quattro figlie, Agnesina, Catarina, Rusinedda e Assuntina, ancora da maritare. Quale delle quattro piazzare, è il dilemma del nostro protagonista. Si va avanti con questi personaggi tra una serie d’equivoci, che si rivelano davvero esilaranti, e alla fine “u zu Tatanu Zarbu” coadiuvato dalla moglie Adelina Barone, servendosi della sua fantasia, va alla
ricerca del paradosso, risolvendo i problemi, che gli si presentano, aiutato dal destino
“ ‘sta potenti machina ca movi la vita e ca nuddu è capaci di firmari, o di farici cangiari strata”.

Oltre a seguire i vostri spettacoli, chi desidera saperne un po’ di più sulla Filodrammatica scillese, dove può rivolgersi?
Stiamo lavorando al nostro sito web dove già si possono trovare le prime informazioni www.filodrammaticascillese.it ma ci si può contattare via e-mail all’indirizzo filodrammatica@parrocchiascilla.it

Alcune parole per i giovani.
Diffidate da chi vi dice che Voi siete il futuro, perché vi sta rubando il vostro presente.

L'ARTE PERIFERICA: intervista al poeta dialettale Rocco Nassi

- di Saso Bellantone
Nato a Bagnara Calabra, appassionato di dialetto, Rocco Nassi ha pubblicato due libri intitolati “Bagnara rari Bellizzi” e “Pe’ comu parru scrivu… Amari penzeri”. È stato citato nel nell’almanacco popolare “Il gran pescatore di Chiaravalle” anno 2010 e 2011. Collabora con i gruppi dialettali su Facebook, tra i quali “Parra e scrivi comu ti fici to’ mamma”, “Mottetti canzuni proverbi e detti calabrisi”, e il gruppo poetico “Solo Poesia”. Attualmente vive a Bagnara.

Come ti sei avvicinato alla poesia dialettale?
Sono nato e vivo a Bagnara e spero di morire qui. Amo il mio paese natio, perché mi ha dato tanto, soprattutto il mio amore per la poesia. Mi sono avvicinato alla poesia non per la mia bravura a scuola o per lo stile o per la grammatica eccetera bensì con la musica. Frequentando le scuole elementari e medie amavo ascoltare le poesie che avevano il senso della musicalità. Da lì è nato il mio amore verso questo tipo di letteratura. Fin da piccolo scrivevo poesie in italiano però non mi sentivo appagato abbastanza. In italiano scrivono in tanti. Dal momento che io scrivo della mia vita mi sono detto: “Perché non approfondire la poesia che è l’amore della mia vita, andando a raccontare la mia vita però in dialetto?”. Sentivo l’esigenza di sviluppare con la poesia qualcosa che era mio: il mio modo di essere un bagnaroto, di vivere i miei amici e i ricordi del mio paese. Così, ho iniziato a poetare su qualsiasi cosa, dalla mia nascita fino a ora e, affrontando tutti questi aspetti, ho deciso di pubblicare il mio primo libro, intitolato “Bagnara rari bellizzi”. Qui c’è la mia vita: si racconta di quando ero bambino, del modo di stare con gli amici e col mio paese. Poi metto in evidenza quegli aspetti familiari di un tempo, che oggigiorno tendono a svanire e che invece dovremmo recuperare, per esempio nella poesia “U capudannu ‘n famigghia”. Con la poesia racconto tante piccole storie. Ma la mia poesia non è soltanto cronaca. Vi è anche l’aspetto drammatico, teatrale. Ogni poesia può essere ironica o tragica. Inoltre, ogni poesia è colorata dal mio specifico modo di recitare, che tutti quelli che mi ascoltano e mi seguono conoscono. Nel corso del tempo, naturalmente, la cura del dialetto mi ha spinto ad approfondire anche il volto stilistico-grammaticale della poesia e questo mi ha aperto altri orizzonti. Ho scoperto che il nostro dialetto non è poi così male per raccontare storie ed esprimere emozioni, e non va banalizzato o ridicolizzato come fanno molti. Oggi, non riesco ad allontanarmi più dalla poesia.

Che cos’è la poesia dialettale?
La poesia consiste in ciò che racconta: momenti di vita, attimi. La mia poesia nasce da niente e da tutto. Da qualunque cosa: una parola, una frase, una situazione. Non è una cosa mirata, studiata, calcolata. Per esempio, in un discussione o un evento posso trovare lo spunto per fare una poesia e quando torno a casa concentro tutto quello che penso, per esempio sull’amuri, riportandolo in versi. Molte delle mie liriche nascono da casualità ma la particolarità è che nascono in dialetto. Io mi sento principalmente bagnaroto e meridionale al cento per cento. Ragiono, penso e scrivo in dialetto. Ormai, il dialetto è incarnato in me. Non esiste riesco a scostarmi da questa logica e da questa lingua a cui mi sento molto legato. I nostri detti non moriranno mai perché dicono soltanto la verità. Se io non pensassi, scrivessi, vivessi in modo dialettale, mi sentirei snaturato. È questo il mio forte legame con il dialetto: sapere di essere principalmente e carnalmente dialettale.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della poesia, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Credo che qualunque cosa si scriva in poesia dialettale, anche una sola parola, è una conservazione della nostra memoria storica, del nostro attuale modo di essere ed essere stati meridionali. Qualsiasi cosa leggo di altri, è come se fosse pane per il mio cervello. Per quanto riguarda i contenuti, invece, io non mi esprimo mai. Mi concentro su tutto l’aspetto della poesia, cioè su come è stata formulata dal poeta e dico la mia soltanto se mi viene chiesta dal poeta. Non vado mai a commentare una poesia di un altro. La mia poesia, nel bene e nel male, piace, e di questo sono molto orgoglioso e soddisfatto perché forse riesce a sensibilizzare ognuno di noi. Chi mi ascolta si rivede, s’identifica nei miei versi o quantomeno scorge il passato ed il mio amore per la poesia si raddoppia. Questo è uno dei miei obiettivi: scoprire il nostro passato, come eravamo, chi eravamo e mantenere questi ricordi.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire le tue poesie d'arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Considero la mia poesia come una creatura, un figlio, una figlia, mio padre, mio padre, come qualcosa che mi appartiene o una persona a cui voglio bene. In questo senso e soltanto in questo, per me è creare, fare poesia. Ma per quanto mi riguarda, poesia è ciò che si avvicina di più al dialetto. In qualsiasi posto andiamo o ci troviamo, infatti, il dialetto è famiglia, unione, calore, affetto. Artisticamente è meraviglioso, perché uno va a curare questo tipo di aspetto e lo fa proprio con chi gli vuole bene. Per me la poesia è questo. È una creatura.

Perché scrivi poesie? Perché senti l’esigenza di comunicare mediante l’arte della poesia?
Per varie ragioni, come quelle appena accennate. Ti ho spiegato di che cosa parla “Bagnara rari bellizzi”. Poi ho fatto anche “Pe’ comu parru scrivu”. Qui si trova la mia protesta personale verso il mio paese, ne ricostruisco gli aspetti negativi però li porto sempre nella lettura e nell’ascolto in modo ironico, per fare capire ancora di più alla gente la poesia sia sul piano della recita e della scrittura, sia su quello della protesta. La proposta è difficile da fare poeticamente, un poeta deve mettere in evidenza il problema. Per esempio, in questo libro, affermo: Mentimu ‘a facci. Cioè ognuno di noi si faccia avanti e dica la sua. Ecco la proposta, quando è possibile, non può mancare, nemmeno nella poesia.

Che cosa racconti nelle tue poesie dialettali?
Oltre che protestare, racconto il mio amore. Tutto si fa per amore. Si scrive per amore perché si ama la casa, la famiglia, la moglie, i figli eccetera. Se non c’è l’amore non si fa nulla. Se ognuno di noi mettesse un pochino di quell’amore che proietta su propri cari, allora il paese sarebbe diverso e tanti altri problemi no ci sarebbero. Per esempio, ci si lamenta del comune ritenendo che è tutto dovuto. Ma io mi chiedo: “Noi, cittadini, facciamo qualcosa perché questo comune funzioni bene?”. L’amore riguarda tutto, non soltanto i familiari o la poesia, ma tutto quello che è nella vita e nella nostra società.

Un poeta può sentirsi tale senza i pubblici?
Se la mia poesia non è sentita dagli altri, è qualcosa di personale: è sempre un sentimento, qualunque sia il soggetto. La mia poesia piace alla gente perché il mio messaggio viene ascoltato, colto, viene personalizzato ma anche perché piace ascoltare il nostro dialetto così come lo recito. Non dimentichiamoci che ogni mia poesia è musicata e recitata. La recita del verso per me è importante, mi soddisfa in pieno. Forse è proprio la recita a far sì che la gente mi ascolti e mi apprezzi. Quando si crea questo legame con la gente, questa familiarità, non desidero altro. Questo contatto che mi rende felice.

Che cosa significa oggi vivere come poeti e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Per me la poesia non è un sacrificio. Mi hanno sempre chiamato poeta fin da piccolo perché ho sempre scritto poesie, ma non so se sono un poeta. Questa valutazione spetta alle persone. So che mi hanno dato questo nomignolo e a me sta bene. Anzi, devo essere orgoglioso di questo. Io lascio tutto al giudizio delle persone. Su Facebook collaboro ad alcuni gruppi dialettali nei quali metto tutte le mie poesie e lascio il giudizio della gente. Questo perché voglio capire ancora oggi se effettivamente la mia poesia colpisce la gente, se piace o non piace. Ad alcuni sì, ad altri no. Io non so se sono effettivamente un poeta nel senso pieno della parola. Io so chi è l’uomo Rocco Nassi, non il poeta. Ogni mattina, come tutto il resto della mia vita, da quando ne ho compresa l’importanza, rifletto su molte cose. Nella vita non si comprende l’importanza del pensare subito. Ognuno ha i suoi tempi. Personalmente, ho iniziato a capire certe cose da 17 anni in su, più o meno. Prima non capivo. Ero un ragazzo che cresceva per giocare, per pensare ad altre cose ma non alle cose reali. Da allora, ogni giorno della mia esistenza è dedicato alla riflessione. Io vorrei che in tutto quello che abbiamo e facciamo a Bagnara, dal più piccolo al più grande, ci sia amore. Faccio un esempio. Faccio parte di un’associazione, ho partecipato alla Società Operaia, alla Sagra del pesce fritto, del pescespada eccetera. Tutto questo lo faccio con piacere e ci metto tutta la passione e tutto l’amore possibile. Perché faccio queste cose? Perché credo che se si fa qualcosa in modo personale, come fosse della propria famiglia, tutto sarebbe diverso. Io non sono per la distruzione o per la critica distruttiva, ma per quella costruttiva. Ogni qualvolta succede qualcosa e chiedono la mia disponibilità per un evento, lo faccio con entusiasmo e lo considero come la mia famiglia. Ovunque vado, voglio che tutti i componenti che sono seduti con me abbiamo rispetto l’uno con l’altro, ascoltandosi. Non gradisco quando uno dice una cosa e l’altro che non è d’accordo se la prende a male e fa di tutto per distruggere quel che si era costruito. Preferisco che ci siano i pareri, anche contrari, e che alla fine tutto quanto porti alla conservazione di quel che è stato fatto.

Che cosa ti spinge a restare nel Sud?
Da ragazzo ho tentato di prendere un posto nella ferrovia e ho chiesto qualche raccomandazione. E mi sono vergognato. Ho rinunciato a un posto nelle poste per tre mesi e per tanto tempo mi sono chiesto “Perché non ci sono andato?”. Poi questo grande amore di cui ti parlavo (la poesia) mi ha portato a dire: “Caro mio, nessuno ti dà niente”. E questo non l’ho detto io. È una frase che rimarrà per secoli. Nessuno ti aiuta. O ti fai una cosa per i fatti tuoi o decidi di abbandonare il tuo paese e come va va. Parti all’avventura come partivano tantissimi nostri antenati e nonni. Siccome questo paese è la mia carne, ormai è dentro di me, fa parte del mio essere, ho deciso di restare qua. Mi sono convinto di fare le cose da solo, mi riferisco all’attività lavorativa, ho fatto un po’ di tirocinio e poi mi son messo in privato. Una volta sono stato per un mese in Polonia, per miei problemi personali, e lì è nata “Ndi tìa vozi tornari”. La parte finale di questa poesia dice: “Girai tutto ‘u mundu ma paìsi ‘i stessi no’ ndi trovai. Amici cari restati ccà e no ‘bbandunati mai”. Cioè il mio è un voler dire a tutti quanti: “Attenzione noi abbiamo un bene che si vede, che è alla vista di tutti però noi lo distruggiamo e non facciamo niente per migliorarlo. Il problema siamo noi. Io voglio restare qua per continuare a mettere in evidenza questo.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Sono un sognatore per natura, nel senso che sogno, però non sono un sognatore nella vita. E credo che chi sogna troppo sbaglia. I sogni glieli lascio ai bambini perché è giusto che i bambini sognino però man mano crescono devono capire che non tutti i sogni sono realizzabili. Il sogno non è reale, vero al cento per cento: può esserlo, ma per me non va bene. Io sono o per il sì o per il no. Realizziamo o non realizziamo, si può o non si può. Occorre essere realisti.

I titoli dei tuoi primi due libri sono: Bagnara rari bellizzi e Pe’ comu parru scrivu… Amari Penzeri. Di che cosa parlano, rispettivamente?
Il primo parla della mia vita, della vita dei miei compaesani, di antichi uomini e donne che non ci sono più, della bellezza di questo paese. Cerco di raccontare, amodo mio naturalmente, tutto quello che hanno visto i miei occhi. Il secondo, “Pe’ comu parru scrivu… Amari penzeri”, è diverso. Qui i penzeri sono amari anziché duci, però non possono essere altrimenti. Ogni mia pubblicazione futura, uscirà sempre con la parte ironica e quella tragica. Questa parte per me è importante. Non smetterò mai di pensare che le mie poesie non siano poesie teatrali. Perché è il giusto messaggio al giusto argomento. Non ci dimentichiamo che parliamo di dialetto, cioè di vita paesana, nella quale c’è soprattutto questo aspetto. Io non lo dimentico e non voglio che altri lo dimentichino. Faccio un esempio. Chiunque scrive, anche io stesso, tendiamo a storpiare il dialetto con l’italiano o viceversa, e questo da molto fastidio. Molti dimenticano che chi scrive poesie, specie in dialetto, non può fare a meno di scrivere veramente in dialetto, e ciò è un controsenso. Invece loro si giustificano parlando dell’evoluzione della lingua. Io sono d’accordo ma quest’ultima non può essere un taglio drastico. Cioè se io dico una cosa in dialetto e poi scrivo una cosa in italiano, che non ha niente a che fare col dialetto, è li che cozza. Per esempio, il termine vandiari non è la stessa cosa di vindìri. ‘U vindiri è riferito al fatto che tu vendi qualcosa, ‘u vandiari significa che tu vai a gridare, a pubblicizzare il tuo prodotto. ‘U vandiari è una nostra caratteristica. Per esempio, in una poesia ho messo tenori ‘i vita. Ho dovuto farlo perché “tenori” in dialetto non esiste. Dovevo andare a trovare un termine. In quel momento non lo trovai e misi “tenori”. Un altro esempio. In una poesia “Capudannu ‘n famigghia”, nel verso sotto ho messo brindari e nella parte di sopra ho messo struzzari, che è un termine dialettale. Perché ho usato “brindari”? Perché mio zio, che non è del Sud, diceva “brindamu” e io ho messo “brindari” in ricordo di lui. Chiaramente non tutti lo sanno. Quindi occorre non dimenticare la vera parola dialettale e aprirsi a un nuovo termine quando occorre. Per questo motivo, ho fatto il gruppo su Facebook, “Parra e scrivi comu ti fici to’ mamma”, lasciando a tutti la possibilità di scrivere qualunque cosa che non sia legata a un modo di dire, a un proverbio eccetera, perché questo servirà come conservazione della memoria storica dialettale. Pochissimi, però, hanno capito il senso di questa pagina. Molti mi hanno fatto degli appunti sul mio modo di recitare, cantilenante, in quanto la mia poesia dialettale è musicata. Mi sono chiesto perché la gente mi facesse notare questo e ho fatto una ricerca. Nel corso della storia, di persona in persona, pur in epoche diverse, si ripete ciclicamente qualcosa. Quello che ho pensato io adesso lo ha già pensato uno del Settecento. Nella ricerca ho scoperto che la lirica, anticamente veniva cantata. Io non so se è una cosa ereditaria, però molte volte parlo, recito e dico le mie poesie con quella caratteristica: cantando. Perché per me è così.

Oltre ad acquistare i tuoi libri, chi desidera saperne un po’ di più su Rocco Nassi e la sua poesia, dove può rivolgersi?
Alcune parole per i giovani.
Avvicinatevi alla letteratura, qualunque essa sia, italiana o dialettale, perché avete tanto da imparare da essa e nulla da perdere. Nelle parole della letteratura, forse un po’ strane, è racchiuso il nostro modo di essere meridionali. Lì è la storia meridionale. Lì possiamo capire se sono venuti qui i greci, i romani, gli arabi, i francesi, gli spagnoli e tanti altri ancora. La nostra lingua testimonia questo. E allora non c’è nulla da vergognarsi se noi usiamo termini dialettali che non sembrano somigliare all’italiano. Al contrario, è qualcosa di cui essere orgogliosi. Quindi, avvicinatevi alla letteratura, qualunque essa sia. Se però preferirete quella dialettale, è chiaro, mi renderete felice.

mercoledì 14 settembre 2011

BAGNARA: "Dalla noia nascon fiori unici". Mostra di Arte Contemporanea al Castello Ducale Ruffo

- di Saso Bellantone
Tutti invitati il 24 e il 25 settembre 2011, presso il Castello Ducale Ruffo di Bagnara, in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio, per la mostra di Arte Contemporanea “Dalla noia nascon fiori unici”, organizzata da Laboratorio Kaleidoscopio e curata da Domenica Triulci, Carmela Caratozzolo e Giuseppe Frosina. La mostra presenterà diverse istallazioni audio-visive, esposizioni fotografiche, performance teatrali e danzanti, e sarà accompagnata dalla degustazione di vino e prodotti tipici calabresi.
Laboratorio Kaleidoscopio è un collettivo no-profit di artisti, nato nel 2011 allo scopo di riorganizzare, riassettare e valorizzare il territorio nel suo volto sociale, artistico e culturale. Come recita il Manifesto, il collettivo vuole incarnare senza alcuna eccezione le diverse voci della creatività, perché accomunate da un’unica provenienza, l’arte, e impiegarle per comunicare e sottolineare agli Enti pubblici, ai privati, ai politici e ai cittadini quanto è importante la cura dell’arte e degli artisti. Il collettivo è composto da giovani artisti desiderosi di esprimersi, di manifestare l’attuale disagio giovanile, trasformandolo però, con l’arte, in un’unica opera d’arte che ne racchiude infinite e differenti. Nell’occasione della mostra di Arte Contemporanea, sarà il Castello Ducale Ruffo di Bagnara la grande opera d’arte a contenerne e presentarne centinaia e diverse, secondo appunto caleidoscopiche prospettive artistiche: camminando, respirando, cantando, disegnando, scolpendo, suonando, fotografando, danzando, pensando, parlando, immaginando, creando.
Il collettivo Laboratorio Kaleidoscopio ha tra i suoi obiettivi quello di rigenerare la voglia di vivere, di acculturarsi, di rinascere di ogni singolo individuo ma facendolo assieme, partendo sempre dall’arte. L’arte è il punto di partenza di questo collettivo e serve per ritagliare degli spazi nell’attuale monotona, accelerata e omologante quotidianità, nei quali occuparsi, insieme, della cura dell’altro, della coscienza, dell’unicità di ognuno. Questo è il punto d’arrivo che questo nuovo collettivo intende raggiungere con la potenza unificante e compartecipante dell’arte, l’unico linguaggio capace di superare ogni conflitto, solitudine e silenzio, e di far sperare in un domani pacifico, traboccante della reciproca comunicazione artistica e umana di ognuno di noi, verso l'intesa con l'altro.

sabato 10 settembre 2011

L'ESSENZA DELLA GLOBALIZZAZIONE: le radici filosofiche della globalizzazione (3)

- di Saso Bellantone
Il termine globalizzazione (vedi parti 1 e 2) evoca l'immagine del globo. Questa evocazione però indica un riferimento, una stretta connessione che intercorre tra il termine-fenomeno indagato (globalizzazione) e l’immagine che suscita (globo). La globalizzazione pronuncia qualcosa, riferendosi all'immagine del mondo e allo strumento di orientamento e di localizzazione che il globo è, presenta e rappresenta. Dal momento che quest’ultimo, così come ogni altra immagine-strumento, è vitale per l’essere umano – infatti risponde sia all'istintivo bisogno umano di orientarsi, di localizzarsi e di localizzare sia al piacere umano per la scoperta – allora nel riferirsi a quest’immagine-strumento, la globalizzazione sembra pronunciarsi su quel bisogno e sul piacere. In una parola: sulla vita. Considerando che questo termine, oltre al globo, evoca altre immagini (la sfera e l’occhio) con le quali dice che il fenomeno in esame coinvolge simultaneamente l'ente Terra e l’essere umano, la visibilità e il vedere, le forme e la rappresentazione dell'ente, allora la globalizzazione si manifesta come un fenomeno filosofico che si pronuncia sulla vita in modo, appunto, filosofico. Per comprendere però quando un fenomeno è filosofico e quando non lo è, così come per capire quando si ha a che fare con il linguaggio filosofico e quando si ha a che fare con altri linguaggi, occorre capire, almeno in grandi linee, che cos'è la filosofia e di che cosa si occupa. In questa maniera si può iniziare a chiarire perché la globalizzazione, in quanto è un fenomeno filosofico, parla a proposito della vita con il linguaggio della filosofia.
Per capire che cos’è la filosofia e di che cosa si occupa, occorre tornare preliminarmente a Platone e Aristotele. Prima di quest’ultimi infatti non esisteva la filosofia né i filosofi bensì la sapienza e i pensatori. Si trattava di uomini che iniziavano a fornire una spiegazione dei fenomeni naturali e una risposta alle domande riguardanti l’esistenza, la vita e il senso dell'essere umano in essa, secondo una prospettiva non più mitico-cultuale bensì razionale. In breve, tali pensatori tentavano di rispondere alle domande riguardanti l'origine, l'essenza, la forma e la struttura del tutto, compresa la posizione dell’essere umano in esso, mediante la logica e senza ricorrere al mito. Diversamente dai pensatori che li hanno preceduti, Platone e Aristotele hanno il merito di aver “disciplinato”, cioè di aver messo in regola la filosofia. In altre parole, di averne stabilito l’identità, le caratteristiche, la fisionomia. Con Platone e Aristotele la filosofia si manifesta come una disciplina, un sapere, un modo di pensare dai lineamenti ben precisi e diverso da altri, da quello cioè di altre discipline e saperi (per esempio, dalla fisica o dalla matematica). Platone e Aristotele sono i primi (Eraclito escluso) a parlare della filosofia e dell’atteggiamento che l’essere umano deve avere per essere definito un “filosofo”, ma ognuno lo fa a modo proprio, in una maniera cioè differente da quella dell’altro. Non a caso, entrambi sono due pilastri del sapere filosofico, le cui ombre, radicalmente diverse, hanno influenzato la storia della filosofia, decidendone il destino per diversi secoli. Dal momento che, però, parlano in maniera diversa della filosofia, occorre conoscere da vicino in quale maniera Platone e Aristotele, rispettivamente, la caratterizzano. In questo modo è possibile iniziare a capire che cos’è la filosofia e perché la globalizzazione è un fenomeno filosofico.

venerdì 9 settembre 2011

LA ROSA E L'UOMO

- di Saso Bellantone
Dall’alba dei tempi, esiste un’isoletta deserta sperduta nell'oceano, abitata soltanto da una rosa, bella, splendente, immortale, eterna, sempre uguale a se stessa. Un giorno, le correnti spinsero sulle coste dell’isola un naufrago. Quando questi si svegliò, lottò per giorni contro il mare per sfuggire al triste fato, ma capì che gli era impossibile lasciare l’isola. Così, camminando sotto il sole, assetato, si trovò d’un tratto di fronte alla rosa... continua a leggere