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lunedì 30 novembre 2009

CROCE NEL TRICOLORE? NO GRAZIE!


- di Saso Bellantone
Il viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Roberto Castelli (Lega Nord), propone di mettere la croce nel tricolore e fortunatamente buona parte della politica italiana si dichiara contraria. Che cosa significherebbe mettere questo simbolo religioso nella bandiera dello Stato italiano? Brevemente, che l’Italia è uno Stato cattolico. Questo si scontra con il principio della laicità dello Stato, stabilito dall’art. 7 della nostra costituzione (vedi Concordato 1984), discusso dal sottoscritto in un altro articolo intitolato “Scuole e crocifisso: è divorzio”. Dal momento che l’Italia è uno Stato laico, è fuor di dubbio che la bandiera italiana deve restare il tricolore “verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni” (Costituzione art. 12), senza l’aggiunta di croci, asterischi, cancelletti e simili. Ma qual è il senso di trasformare la nostra bandiera nazionale? Perché proporre d’inserirvi la croce, simbolo del cattolicesimo? Dato che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che il crocifisso dev’essere tolto dalle aule scolastiche, proporre d’introdurre il simbolo della croce nella bandiera italiana risolverebbe il problema alla radice, con o senza aule scolastiche. Se questa proposta passasse, però – e la disapprovazione del mondo della politica dimostra che non si è sciocchi a tal punto – non solo rappresenterebbe una dichiarazione universale della cattolicità dello Stato italiano, ma provocherebbe seri problemi con le comunità diversamente religiose da quella cattolica che abitano il nostro paese. In sintesi, scatenerebbe un clima di tensione, fanatismo e intolleranza religiosa, capace di provocare seri problemi per la nostra società e mettere in pericolo la vita dei cittadini del nostro paese. Di fronte all’intolleranza che la Lega Nord ha ostentato ripetutamente a scapito degli immigrati – persone di etnia, cultura e religione diversi dai nostri, ma sono sempre persone come noi – si spera che la proposta Castelli non sia il tentativo di strumentalizzare il simbolo dello Stato italiano e quello della chiesa cattolica – due realtà, nel proprio ordine, indipendenti e sovrane, come recita l’art. 7 della Costituzione – per pilotare, e risolvere una volta per tutte, la questione dell’immigrazione. Auspicando un veloce ritiro della proposta in esame per evitare brutti fraintendimenti e sciagure per motivi religiosi, è bene farsi una domanda: “Che cosa penserebbero dell’alterazione del tricolore tutti coloro che sono morti per l’unità d’Italia?”. C’è poco da dire. Immettere la croce nel tricolore significa non solo sputare in faccia ai nostri “caduti per la patria”, ma anche cancellare in un attimo il loro sacrificio per realizzare il sogno di un’Italia unita. Per anni il Papato – il cui simbolo è appunto la croce – si è opposto all’unità d’Italia, perché ne andava dei propri territori e dei propri beni di cui si era impossessato con astuzia. Ma il sogno di libertà, di unità, di patria del nostro popolo, alla fine, ha avuto la meglio, anche se pagato con il sangue e la morte. In questa prospettiva, fondere la croce con il tricolore significa non solo restituire al Papato quel che gli è stato tolto – e di cui in origine si era appropriato illecitamente – ma l’intera Italia, trasformandola in un immenso stato vaticano. Dal momento che l’Italia è uno Stato laico, cioè non ha preferenze religiose e garantisce a tutti i cittadini di praticare qualsiasi credo preferisca (nei limiti della legge), e tutto questo – e molto altro ancora – è simboleggiato dal tricolore, sento il dovere di affermare: “No! Il tricolore non si tocca!”.

martedì 24 novembre 2009

IL PECCATO: PAOLO, IL CREDO E IL CONFITEOR

- di Saso Bellantone
Come molti sanno – o non sanno – buona parte della teologia cristiana (cattolica) pone a fondamento della propria interpretazione del peccato il pensiero di Paolo di Tarso. Le Epistole dell’apostolo sono infatti la più vicina fonte letteraria agli avvenimenti riguardanti il Messia Gesù e l’origine del cristianesimo. Non è questa la sede per interessarsi del passato “ebraico” dell’apostolo e delle ragioni di natura psico-fisiologica che lo spingono alla “conversione”. Piuttosto, per fare luce sull’odierna concezione del peccato della chiesa cattolica, ci si soffermerà sulla più celebre Epistola di Paolo: la Lettera ai Romani (68 d.C.). In questa Epistola, Paolo enuncia una teoria generale riguardante il Messia Gesù, detto il Cristo, che è il cuore pulsante di tutta la teologia cristiana successiva. Dal capitolo 5, versetto 12 in poi, stabilendo un parallelismo tra un “primo” Adamo e un “nuovo” Adamo (il Messia), Paolo delucida che il senso profondo della venuta del Messia Gesù è liberare il mondo e l’umanità dallo stato di peccato in cui si trovano a causa della trasgressione di Adamo. Il segno tangibile del peccato è la mortalità del creato intero. Con la propria morte e resurrezione, il Messia Gesù libera il mondo dal peccato e dalla morte, avvolgendoli in uno stato di grazia. Il Messia Gesù, dunque, introduce una nuova giustizia rispetto a quella precedente, quella mosaica. Mentre secondo la Legge mosaica ogni uomo è peccatore e, per questo motivo, muore, con il Messia Gesù si attiva una nuova tipologia di giustizia in virtù della quale tutti gli uomini risultano “giusti”, cioè “non peccatori”. Scrive Paolo: «Noi siamo morti per il peccato» (Romani 6, 2). Paolo pensa il nostro vecchio corpo, mortale e peccatore, è morto crocifisso assieme al Messia, ma ognuno di noi risorge in un corpo nuovo “vivo”, giusto e eterno come quello del Messia stesso, col quale si entra in connessione a partire dal battesimo nel suo nome. In poche parole, il Messia sconfigge una volte per tutte il peccato e la morte e, in questo modo, le elimina dal creato. Chi è battezzato nel suo nome, quindi, non è più in condizioni di peccare né può morire perché è risorto in un nuovo corpo soggetto alla nuova giustizia introdotta dal Messia, la grazia, vale a dire la liberazione dal peccato e dalla morte. Al tempo di Paolo non esiste ancora un cristianesimo: i seguaci del Messia Gesù (e di Paolo) sono considerati una setta interna all’ebraismo. Nel corso del tempo, morto Paolo, appaiono varie correnti o eresie (Marcione, Ario ecc.) che interpretano i fatti relativi al Messia Gesù in diverso modo così, per risolvere una volta per tutte la questione, si decide di organizzare un concilio per ascoltare le differenti interpretazioni e stabilire qual è l’interpretazione “più vera” del Cristo: il Concilio di Nicea (325 d.C.). A partire da questo concilio, il cui arbitro è l’imperatore Costantino, comincia a esistere la religione cristiana, perché proprio in quel momento si stabilì un “canone”, cioè il Credo, e il dogma trinitario. Il Credo, che è rimasto immutato per buona parte fino a oggi, è la professione di fede dei cristiani, il cui testo recita: «Fu crocifisso per noi (Gesù Messia) sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, e il terzo giorno fu risuscitato per la remissione dei peccati (dei nostri)…». Dunque, il Credo è in accordo con l’apostolo Paolo riguardo al peccato: con la morte e resurrezione di Gesù Messia, l’uomo è libero dal peccato. “Rimettere i peccati” significa infatti “assolvere, condonare, liberare dai peccati”. Via via che il tempo passa, la Chiesa introduce una nuova preghiera nella propria dottrina, mettendola in contrasto sia con il Credo sia con Paolo: il “Confesso”. Il Confiteor è menzionato per la prima volta come parte dell’introduzione della Messa di Bernoldo di Costanza (morto nel 1100), ma molte sono le forme che circolano nel Medioevo. Nel 1962, la Chiesa stabilì la forma del “confesso” così come la conosciamo ora. Il testo di questa nuova preghiera recita: «Confesso a dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato, in pensieri, parole, opere ed omissioni, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa…». È evidente il contrasto del “confesso” con Paolo e il Credo. Il “confesso” ripristina lo stato generale di peccato (e di morte) e di condanna che Paolo considera cancellato dalla morte e resurrezione del Messia Gesù e che il Credo convalida. L’uomo tornerebbe a essere schiavo di un circolo vizioso del peccato che lo coinvolge in modo onnilaterale. Secondo il “confesso” l’uomo non solo peccherebbe mediante pensieri, parole, opere e sviste, ma la colpa grava tutta su di lui. Le Epistole di Paolo sono la testimonianza più vicina al Messia Gesù. Paolo descrive la propria sapienza come un evangelo trasmessogli direttamente da Dio, dunque superiore a tutti gli altri evangeli. In altre parole, la sapienza paolina è la “verità” perché proviene da Dio. Le sue Epistole sono la codificazione di questa sapienza divina. Ripristinando quel che Dio ha cancellato per mezzo di suo figlio, lo stato di peccato, allora la Chiesa pretende di stabilire una verità superiore a quella divina, perché in contrasto con la verità codificata nelle Epistole prima e convalidata poi nel Credo. Così facendo, si potrebbe pensare che la Chiesa vuole innalzare il proprio volere al di sopra di quello divino, ossia che vuole mettersi al posto di Dio. Dal momento che l’uomo non è Dio e sbagliare è umano, è preferibile pensare che l’introduzione del “Confesso” nella dottrina cattolica sia semplicemente una “omissione”, una svista, un abbaglio operato dalla Chiesa accidentalmente e senza secondi fini. Se è andata così, ritengo necessario che la Chiesa riveda la propria dottrina, per epurarla da preghiere che potrebbero non solo metterla in contrasto con se stessa e con il proprio credo (e, come si è visto, lo è di fatto), ma anche metterla in disaccordo con la verità divina svelata all’apostolo delle genti e contenuta nelle sue Epistole. In sintesi, bisogna abolire il Confiteor.

giovedì 5 novembre 2009

CROLLO DEL MURO DI BERLINO: S'AVVICINA IL 20° ANNIVERSARIO

- di Saso Bellantone
Il 9 novembre ricorre il 20° anniversario del crollo del Muro di Berlino. Gli hotel registrano il tutto esaurito. Per ricordare il crollo, migliaia di Domino in poliestere di 2,5 metri crolleranno per due chilometri nel centro della città. Non mancano i preparativi festeggiare la ricorrenza: oltre ai Bon Jovi, agli U2 e all’orchestra dell’Opera di Berlino – che si esibiranno davanti alla Porta di Brandeburgo – si prevedono oltre 30 performance di spettacoli, 38 mostre, 4 convegni e molti altri eventi appartenenti alla manifestazione “Venti di Libertà”, pensati dall’amministrazione comunale di Roma. “Il 9 novembre 1989” afferma il sindaco di Roma Alemanno, “è l’anno zero dell’epoca che stiamo vivendo. Non potevamo non dare importanza a quell’evento”. Sicuramente molti dei più giovani si chiederanno “Che cos’è il Muro di Berlino? Qual è il significato simbolico del suo crollo? Perché organizzare tutti questi festeggiamenti in occasione dell’anniversario della sua caduta?”. Rispondiamo brevemente a queste domande. Il muro di Berlino fu appunto una cinta di mura imponente che separò Berlino Ovest e Berlino Est dal 1961 al 1989. Cominciò a essere edificato nella notte del 13 agosto 1961. I soldati della Repubblica democratica tedesca (RDT) elevarono barriere temporanee, in seguito sostituite con un vero e proprio muro alto 4 m e lungo 47 Km, dotato di fossati e postazioni anticarro per evitare la fuga dei cittadini rinchiusi a Berlino Est. In quei giorni, il governo della RDT, capeggiato da Ulbricht, affermò che si trattava di una misura difensiva temporanea per evitare una possibile invasione ad opera della Repubblica federale tedesca (RFT). In realtà, il muro restò in piedi per quasi trent’anni, divenendo il simbolo della cosiddetta Guerra Fredda. La Guerra Fredda fu il conflitto – mai sfociato in uno scontro armato – che a partire dalla metà del 1945 vide come protagonisti gli Usa e l’Urss, nazioni vincenti della Seconda guerra mondiale, entrambe dotate di un arsenale nucleare capace di distruggere il pianeta e sterminare gli uomini. Il Muro di Berlino rappresenta il simbolo del clima di tensione e terrore che invase il mondo in quegli anni e della divisione tra i paesi soggetti al regime comunista e le nazioni democratiche dell’Europa occidentale e transatlantiche. Furono anni difficili. Superato il pericolo nazi-fascista e la follia di Hitler di un Terzo Reich, tutto il mondo guardava al Muro come all’immagine della “minaccia rossa”, ossia di un possibile impero comunista planetario, ma anche di un possibile scontro nucleare tra le potenze americana e comunista. Molti perirono per sfuggire alla tirannia e alla paura del governo di Berlino Est, sottoposto al regime comunista. Molti, dall’esterno, smarrirono la speranza di assistere al crollo del muro e dunque alla fine della paura di una guerra nucleare. Altri – tra cui spiccano i nomi di Gorbacev, Reagan, papa Wojtyla – non persero mai la speranza e il 9 novembre 1989, di fronte alla televisioni di tutto il mondo, finalmente si giunse alla demolizione del muro, alla fine della paura rossa e alla liberazione dei berlinesi est. Da quel momento, si cominciò a sognare la diffusione della democrazia, della libertà e del diritto a vivere in ottica globale e a considerare tutti i popoli del pianeta appartenenti a un’unica patria: la Terra. Il crollo del Muro di Berlino, come ben afferma Alemanno, introduce l’umanità in una nuova era della propria storia e rappresenta la volontà degli uomini di governarsi da sé nel pieno riconoscimento e rispetto delle differenze etniche, culturali, linguistiche, religiose ecc. Senza questo avvenimento, oggi, nessuno potrebbe immaginare di condurre la propria vita così come la vive. Per questa ragione, la caduta del Muro simboleggia l’accesso dell’umanità intera al proprio futuro, da costruire responsabilmente e all’unisono, poiché da allora ogni popolo si rende conto di far parte di un’unica comunità di destino. Tuttavia, a distanza di 20 anni, quell’avvenimento dà ancora da pensare, almeno nel suo aspetto simbolico. Che accade oggigiorno? Da un lato, diffondiamo la libertà e la democrazia in quei paesi ancora soggetti a regimi totalitari, mediante la politica, la diplomazia, il dialogo, ma anche mediante manifestazioni musicali, artistiche, religiose, sportive ecc. Dall’altro lato, nascondiamo dentro di noi e a noi stessi un muro pericoloso quanto quello di Berlino: vale a dire, il Muro del Pensiero. Basti pensare agli immigrati. Nonostante ci battiamo per loro riempiendoci la bocca di meravigliose parole e aforismi, quando giungono nel nostro paese li cacciamo via, abbandonandoli alla schiavitù e alla tirannia della povertà, della fame, della disperazione. Un altro esempio della barriera che abita in noi, separandoci dalla ragione e lasciandoci in balia della stupidità, è Il Muro del Pianto di Gerusalemme che separa ebrei e musulmani. Quest’ultimo è, invece, il simbolo della divisione planetaria nella quale ci troviamo, capace di provocare sommovimenti politici, guerre e delirio, soltanto per una questione religiosa. Com’è possibile, nel nuovo millennio, scatenare ancora guerre di religione? Com’è possibile sostenere ancora “il mio Dio è più vero del tuo”, quando invece, per limitarci alle 3 religioni del Libro, tutte risalgono a un unico capostipite: Abramo? Che dire della fame nel mondo? Del commercio di schiavi, bambini, donne, organi e stupefacenti? Delle guerre economiche e delle multinazionali d’armi, di farmaci, di alimenti ecc. che giocano freddamente col destino del popolo di turno? In questo scenario, mi chiedo che senso ha svolgere tutti quei festeggiamenti nella capitale tedesca, per ricordare il crollo di un Muro che, se materialmente non esiste più, “idealmente” è più forte di prima. Credo che ricordare il crollo del Muro di Berlino significhi ricominciare ad abbattere l’ignoranza, la follia e l’idiozia che abitano in ognuno di noi, al fine di costruire un futuro migliore per chi abiterà il pianeta dopo di noi. Se non si parte da questo, anche questo evento finirà per scadere in un’occasione per fare baldoria, come è già accaduto a tanti altri.

mercoledì 4 novembre 2009

SCUOLA E CROCIFISSO: E' DIVORZIO

- di Saso Bellantone
Qualche anno fa, nel 2002, Soile Lauti, cittadina italiana di origine finlandese, chiese alla scuola frequentata dai propri due figli – l’istituto statale “Vittorino da Feltre” di Abano Terme – di rimuovere i crocifissi dalle aule scolastiche. Il caso finì al Consiglio di Stato, il quale si pronunciò contrario alla richiesta della italo-finlandese. La donna non si arrese e dopo aver fatto ricorso presso i tribunali italiani, si rivolse alla Corte europea. Ieri la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo si pronuncia a favore della donna e decide che il crocifisso, simbolo del cristianesimo, non potrà più apparire nelle aule d’insegnamento, perché rappresenta “una violazione della libertà dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e una violazione alla libertà di religione degli alunni”. È la prima sentenza in assoluto in materia di esposizione dei simboli religiosi nelle aule scolastiche. Il governo italiano annuncia che farà ricorso; il Vaticano boccia la sentenza, definendola “miope e sbagliata”, e difende il crocifisso perché è uno dei simboli dell’identità storico-culturale e spirituale degli italiani; la Cei (Conferenza episcopale italiana) considera la decisione della Corte europea frutto di una visione parziale e ideologica; il ministro Mariastella Gelmini dichiara che “la presenza del crocifisso in classe non significa adesione al cattolicesimo ma è un simbolo della nostra tradizione”; il ministro per gli Affari europei, Andrea Ronchi, considera il crocifisso “uno dei simboli profondamente legati alla storia, alla cultura e all’identità degli italiani”; insomma, è il putiferio. Molti si pongono la questione: “la sentenza rappresenta un passo in avanti sulla strada della laicità dello Stato o la negazione totale della tradizione cristiana del nostro paese? Personalmente, ritengo ben posta la prima parte della domanda, ma non la seconda parte. Le ragioni sono le seguenti. LAICITA’ DELLO STATO: l’art.7 della Costituzione della Repubblica Italiana stabilisce che “lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modifiche dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. I Patti Lateranensi sono quegli accordi sottoscritti l’11 febbraio 1929 nel palazzo di San Giovanni in Laterano tra Mussolini (per lo Stato italiano) e il Cardinal Gasparri (per la Santa Sede). Questi accordi si compongono di un Trattato, di un Concordato e di una Convenzione finanziaria. Il “Trattato” riconobbe alla Santa Sede la sovranità sulla Città del Vaticano, nella quale si esplica la potestà di imperio del Papa. Dal momento che con la conquista di Roma (1870) il Papato perse tutti i propri possedimenti che furono annessi al Regno d’Italia, al Trattato si aggiunse una “Convenzione finanziaria” che riconosceva un indennizzo alla Santa Sede (mai corrisposto). Il “Concordato” regolava i rapporti tra Stato e Chiesa, conferendo a quest’ultima “un’ampia libertà d’azione”. Il 18 febbraio 1984, a Villa Madama, il Concordato fu sostituito da un nuovo accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede. Per quale motivo? Di fronte al cambiamento istituzionale e sociale del paese, divenne necessario “abrogare” il principio del ’29 che riconosceva la religione cattolica come unica religione di Stato, per affermare il principio della “laicità dello Stato”. Quest’ultimo riconobbe “uguale libertà a tutte le confessioni religiose” e modificò l’obbligo d’impartire nelle scuole pubbliche l’insegnamento della religione cattolica, prevedendo “il diritto degli studenti di scegliere se avvalersi o meno di questo insegnamento”. Che cosa afferma il Concordato dell’84? In breve, che il cattolicesimo NON E’ PIU’ religione di Stato; che lo Stato E’ LAICO; che tutte le confessione religiose SONO PARIMENTI LIBERE a quella cattolica (così afferma anche l’art.8 della Costituzione, pur recitando la formula “le confessioni religiose DIVERSE DALLA CATTOLICA hanno diritto di organizzarsi in statuti ecc.); che NON E’ OBBLIGATORIO studiare la religione cattolica e ci si può astenere dal suo insegnamento. In questo panorama, il problema dei crocifissi nelle scuole offre a tutti l’opportunità di rivedere la storia del nostro paese, anche a livello politico-giuridico, e di notare – se prima se ne era all’oscuro – che da circa 25 anni lo Stato è laico e che non è obbligatorio studiare il cattolicesimo nelle scuole. In questo senso, la prima parte della domanda qui interrogata, vale a dire “la sentenza (della Corte europea) rappresenta un passo in avanti sulla strada della laicità dello Stato?” è ben posta perché tuttora nelle nostre scuole si studia esclusivamente la religione cattolica ed è presente esclusivamente il simbolo del cattolicesimo. Che fine ha fatto la laicità dello Stato in questi 25 anni? Non solo NON E’ obbligatorio studiare la religione cattolica, ma è necessario attuare quanto prevede il Concordato dell’84. Vale a dire: garantire a tutti i cittadini italiani che frequentano le nostre scuole il DIRITTO DI ASTENERSI DALL’INSEGNAMENTO DEL CATTOLICESIMO. Questo chiama in causa la questione della materia alternativa all’ora di religione o di una revisione di quest’ultima in chiave multi-etnica, multi-culturale e, se si vuole, multi-religiosa. Le scuole pubbliche sono organi dello Stato italiano e non della Santa Sede. L’insegnamento del cattolicesimo e la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, perciò, vanno in contrasto con il Concordato dell’84. La scuola, infatti, è quel luogo nel quale avviene non solo la formazione storica, letterario-linguistica, artistica, tecnica e scientifica dei giovani, ma dove si svolge anche l’educazione di quest’ultimi a diventare buoni cittadini del nostro paese, l’Italia, che è laico. Insegnare la religione cattolica nelle scuole e porre il crocifisso nelle aule scolastiche significa, per gli adulti, negare la laicità dello Stato e indottrinare i giovani, subliminalmente, al cattolicesimo o persuaderli a diventare cattolici (o a pensare da cattolici). Esiste una legge che garantisce la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche oppure no? In ogni caso, il crocifisso rimane un simbolo cattolico che, coadiuvato dall’ora di religione, sviluppa una qualche influenza sui giovani. Dal momento che nelle nostre scuole non ci sono solo italiani ma anche italo-arabi, italo-cinesi, italo-africani, italo-indiani e così via, mantenere l’ora di cattolicesimo e il crocifisso nelle aule significa trasmettere a questi nuovi abitanti del nostro paese l’idea di una scuola, e di uno Stato italiano, tutt’altro che laici, bensì cattolici. Se è vero che il Concordato dell’84 stabilisce la laicità dello Stato e se è vero che le scuole appartengono allo Stato e non alla Santa Sede, allora lo Stato deve garantire la laicità delle proprie scuole, utili non all’educazione religiosa – che avviene piuttosto negli organi ecclesiastici e nelle abitazioni private – bensì alla laica formazione storica, letterario-linguistica, artistica, tecnica, scientifica e civile delle risorse giovanili della Repubblica italiana. D’altrocanto, come recita l’art.2 della nostra Costituzione, “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, anche i nuovi valori che emergono dal contesto sociale; inoltre, come afferma l’art.19, “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa ecc.”, purché rientri nel buon costume. In breve: o la Costituzione e i suoi articoli non significano nulla oppure vanno riconosciuti, rispettati e applicati. In sintesi: tutte le strutture statali devono mostrarsi, in coerenza con la Costituzione, laiche. CROCIFISSO COME SIMBOLO DELLA STORIA, CULTURA E IDENTITA’ DEGLI ITALIANI: da un punto di vista istituzionale, l’Italia riconosce come propri simboli due: la Costituzione e il tricolore. Da un punto di vista storico ed emotivo, l’altro simbolo nel quale un italiano si riconosce è l’Inno di Mameli. Chi afferma che il crocifisso rappresenta uno dei principali simboli della nostra identità storico-culturale, da un lato, dimentica la Costituzione e il tricolore e, così facendo, dimentica la storia d’Italia. L’identità di un italiano si dà, “storicamente”, a partire dall’unità d’Italia del 1861 o, al massimo, comincia a formarsi dagli anni del Risorgimento, di Mazzini, Cavour, Carlo Alberto (da cui lo Statuto Albertino), Vittorio Emanuele II, Garibaldi ecc. fino all’unità del 1861. In questo periodo il crocifisso non c’entra niente con la formazione dello Stato italiano; piuttosto, la Chiesa, abusando del simbolo della Croce, è stata l’acerrimo nemico di chi voleva riunificare il territorio italiano fino alla celebre presa di Porta Pia, avvenuta il 20 settembre 1870, con la quale si mise fine al potere temporale dei papi. Per quanto riguarda la prospettiva “culturale” dell’identità di un italiano, quest’ultima non è il frutto di pochissimi elementi, ma di innumerabili uomini, vicende, invenzioni, scoperte e scienziati, opere d’arte e artisti, poeti, navigatori, compositori, cavalieri, filosofi, medici, linguaggi, costumi, miti ecc. che vanno indietro nel tempo sino a migliaia di anni fa, ossia Etruschi, Greci, Italici, Latini e compagnia bella. Chissà quanti nomi, quanti fatti, quanti simboli vi sono venuti alla mente. In questo gigantesco quadro, all’interno del quale si colora la cultura italiana, com’è possibile ridurre tutto il nostro patrimonio di conoscenze a un simbolo soltanto quale il crocifisso? Se s’intende il crocifisso come un simbolo culturale, allora perché nelle scuole non gli si affianca l’Uomo vitruviano, la Gioconda, Cesare, Dante, Boccaccio, Verdi, Paganini, Caravaggio, La nascita di Venere, Marconi, Volta, Aristotele, Platone, Alessandro Magno, Carlo Magno, Ruggiero II, Federico II, Colombo, Vespucci, Giolitti, De Gasperi, la Ferrari, la pizza, gli spaghetti e chi più ne ha più ne metta? IL CROCIFISSO PUO’ ESSERE DECLASSATO A MERO SIMBOLO CULTURALE? Personalmente, credo che il crocifisso è, principalmente e primariamente, un SIMBOLO RELIGIOSO. Se da un lato, da un punto di vista culturale, il crocifisso può essere connesso ai vangeli e al Messia Gesù, rappresentando un modo di pensare basato sull’amore, la pace, il rispetto, la tolleranza, il sacrificio, il perdono ecc.; dall’altro lato, il crocifisso può essere messo in relazione alla Chiesa come istituzione fatta di uomini, dunque a Costantino, a Rotari, alla caccia alle streghe, alle Crociate, all’Inquisizione, al potere temporale dei Papi ecc. In altri termini, se da una parte acquisisce un significato positivo (Messia Gesù), dall’altra ottiene un senso negativo (Chiesa e Papato). Nella sua ambivalenza dovuta non all’iniziatore ma “agli uomini che possono sbagliare perché uomini”, intendere il crocifisso come simbolo dell’identità culturale italiana può significare l’una e l’altra cosa. Se invece lo si considera esclusivamente un simbolo religioso, vale a dire come rappresentazione della manifestazione del divino avvenuta col Messia Gesù, dunque come rivelazione della verità e di Dio – ed è così che deve intendersi – allora è chiaro che non lo si può imporre a chi possiede un credo diverso dal nostro e frequenta le nostre scuole. Se lo si interpreta come simbolo religioso, il crocifisso simboleggia che la verità assoluta delle cose è il Dio cristiano, manifestatosi per mezzo del Messia Gesù, suo figlio morto in croce e risuscitato. In questo senso, un ebreo, musulmano, are krishna, induista ecc., che crede in un’altra verità assoluta delle cose, non può accettare il simbolo della verità dei cattolici, posto nelle aule dove i propri figli vanno a educarsi e a formarsi. Difendere il crocifisso come patrimonio culturale del nostro paese e non credere in ciò che rappresenta, ai miei occhi, vuol dire essere confusi, significa volere “la botte piena e la moglie ubriaca”. Se gli italiani desiderano tutelare la presenza del crocifisso nelle scuole dicano “Non si tocca perché questo è un paese di religione cristiana”, non perché è un simbolo dell’identità storico-culturale degli italiani. Ma, a quanto pare, lo Stato è laico. Il problema è che non tutti gli italiani sono cristiani e che, oggigiorno, non tutti gli italiani hanno condiviso la nostra storia. Chi nasce oggi in Italia da genitori provenienti dal Giappone, dal Brasile, dalla Groenlandia o dalla Somalia, come può aver condiviso la nostra storia? Può conoscerla e studiarla nelle scuole. Ma a scuola non s’insegna che la storia della cultura italiana è sintetizzata principalmente dal cristianesimo. S’insegna “la” religione cristiana e si studia la cultura italiana, in modo onnilaterale (arte, scienza, musica, letteratura, storia ecc.), dalle origini ai nostri giorni. E in questo immenso arco di tempo, tutto partecipa alla formazione della nostra identità culturale, naturalmente, anche ma “non” soltanto la religione cattolica. PER CONCLUDERE: la questione posta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo è importante perché serve per vagliare la nostra preparazione, mentale soprattutto, per adeguare tutte le strutture che compongono il nostro paese al nuovo e diverso contesto sociale nel quale viviamo. Se la Repubblica italiana è laica, allora bisogna prendere provvedimenti; se non lo è, allora bisogna fare altre scuole per chi non è cattolico. Questo, però, dimostrerebbe che non amiamo l’altro così come insegnano i valori cristiani che tanto difendiamo. Inutile riempire le scuole di simboli religiosi per una questione di uguaglianza e pari opportunità. A scuola s’impara tutto quello che non è religione, la quale, a sua volta, và insegnata nei luoghi di culto d’appartenenza e nelle mura domestiche private. Infine, se si difende la presenza del crocifisso nelle scuole – e lo svolgimento dell’ora di religione – almeno si abbia un po’ di fede in più e si metta in pratica l’universo di valori che il simbolo della Croce rappresenta, cose che non a tutti interessa fare.