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venerdì 17 dicembre 2010

L'ARTE PERIFERICA: INTERVISTA A FRANCESCO TRIPODI

- di Saso Bellantone
Compositore dei musical Il figliol prodigo (2004), di cui scrive anche il libretto, ed Estasi e tormento (2007), su libretto di Natale Zappalà, Francesco Tripodi nasce a Vibo Valentia, il 18 novembre 1972, ma cresce a Bagnara Calabra (RC). Dall’età di 8 anni fino ai 14 prende lezioni private di pianoforte con diversi professori. Nei successivi tre anni entra a far parte del corpo bandistico “Città di Bagnara Calabra” diretta dal M° Vincenzo Panuccio, dove suona la tromba. Dal 1992 al 2002 si iscrive all’associazione “Polimnia” Coro Santa Maria e i XII Apostoli diretto dal M° Loredana Polimeni, dove canta da tenore. Nel 2001 recita nel musical “Forza Venite Gente” di Michele Paulicelli, interpretando il ruolo principale di San Francesco. Nel 2002 si iscrive all’Associazione IRC “Insieme per Riaprire la Città ed esordisce come compositore con la canzone “Dal salmo 69, scritta per uno spettacolo organizzato dalla IRC, con la quale in seguito ha realizzato i musical sopra citati. Nel 2008 si laurea in “Musica, Spettacolo, Scienza e Tecnologia del suono indirizzo Artistico musicale” al Politecnico Internazionale “Scientia et Ars di Vibo Valentia, con una tesi sul musical e la musica digitale. Attualmente vive e lavora a Catania.

Come ti sei avvicinato al musical?
Fin da piccolo ho avuto due grandi passioni: il teatro e la musica. Come tutti i bambini ho cominciato a partecipare alle recite scolastiche e, crescendo, ho avuto la possibilità di esibirmi in spettacoli dove, insieme alla recitazione, c’erano parti cantate. In seguito ho cominciato ad appassionarmi all’opera lirica e poi ho scoperto il musical. E così ho trovato la mia strada, il genere che mi ha consentito di fondere i miei due grandi amori.

Che cos’è un musical?
Definire il musical non è semplice. All’inizio pensavo fosse la naturale evoluzione del melodramma, dove gli strumenti dell’orchestra erano sostituiti dai più moderni strumenti della musica leggera. Poi, invece, grazie ai miei studi, ho scoperto che non è proprio così. Il musical attinge da tanti e diversi generi di spettacolo: dal Burlesque al Vaudeville, dall’Opera alla Rivista e persino dal Circo degli acrobati. Quindi è uno spettacolo eterogeneo dove tanti stili coesistono organicamente dando vita a un genere nuovo e innovativo. Considero il musical un grande contenitore dove si può inserire tutto ciò che serve per fare spettacolo: recitazione, musica, danza, effetti speciali, grandi scenografie, giochi di luci e chi più ne ha più ne metta.

Qual è l’essenza del musical?
Fermo restando quanto detto sopra, se proprio occorre trovare una caratterista peculiare di questo genere, senza la quale non si potrebbe definirlo, questa è sicuramente il ritmo. Il movimento del corpo (la danza) inteso non come balletto a sé stante o come coreografie d’insieme sparse un po’ qui e un po’ lì per rendere più piena la scena, bensì come parte integrante del “dramma”. È dinamismo scenico. Con ciò non voglio dire che un musical si sviluppa sempre ballando o con un moto perpetuo, ma che la sua percentuale coreografica deve essere almeno del 70 di tutto lo spettacolo.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi del musical, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Il musical deve sicuramente intrattenere piacevolmente e far divertire il pubblico, ma non solo. Il musical è arte e l’arte, in tutte le sue forme, è linguaggio. Chi fa arte lo fa con lo scopo di “dire”, di raccontare storie, fatti, di esprimere idee, emozioni, punti di vista. Attraverso il musical (e non solo) si ha la possibilità di colorare la realtà, di presentarla da altre prospettive, di mascherarla, magari, sotto forma di favola, ma sempre con un senso ben preciso. Di dare allo spettatore la possibilità di riflettere e di prendere in considerazione altri punti di vista, e di farlo in maniera distaccata, leggera, in modo da avere una visuale più ampia delle cose, qualunque sia il tema della rappresentazione. Nell’antichità il teatro poteva raccontare delle verità che, se dette in altre occasioni o in maniera diretta, procuravano non pochi guai, anche la pena di morte, in certi casi. Invece gli attori sul palco potevano riportare fatti e misfatti senza conseguenze. Anche questa, oggi, è la magia dello spettacolo.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo si è trasformata di linguaggio in linguaggio fino a diventare, in italiano ad esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire il musical una “poesia”? I tuoi musical sono delle opere d’arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Ancora oggi il “processo poietico”, nel campo musicale, indica l’atto creativo, mentre il “processo estesico” rappresenta l’atto interpretativo; in mezzo c’è lo spartito. In questo senso i musical, e non solo i miei, sono delle opere d’arte, in quanto sono il frutto di una creazione attraverso la quale l’autore tenta di comunicare dei concetti personali, delle emozioni ma anche delle aspirazioni. A volte la scelta di un soggetto può servirgli anche per tracciare una via da seguire per raggiungere determinati risultati. Altre volte per trascendere la realtà, come l’ha sempre vista e pensata, per superare i propri limiti e aprirsi a nuove prospettive che gli consentano di esprimersi in maniera più piena e compiuta, liberandosi dai preconcetti e pregiudizi che ne condizionano anche l’agire quotidiano. E lo stesso possono fare gli spettatori che assistono allo spettacolo.

Perché componi? Perché senti l’esigenza di comunicare mediante l’arte del musical?
Perché non ne posso fare a meno. È il sacro fuoco dell’arte che brucia dentro, e quando decide di venir fuori non posso che assecondarlo. È come un vulcano che erutta quando la pressione della lava diventa incontenibile. Dopo l’eruzione, l’autore crea plasmando questa ricca materia prima per fissare emozioni, stati d’animo, per tracciare nuove vie, per “dire”. Naturalmente il processo creativo ha i suoi tempi. Si parte dall’ispirazione, si continua con l’improvvisazione, per poi perfezionare il tutto con la tecnica, cioè utilizzando tutti gli strumenti a disposizione per arrivare alla realizzazione dello spettacolo.

Che cosa racconti nei tuoi musical?
Nel primo, “Il figliol prodigo”, parlo di fratellanza, di umiltà nel riconoscere i propri errori, di comprensione, di perdono, di rispetto; attraverso il mio linguaggio, cerco di trasmettere il messaggio della parabola raccontata da Gesù riportata nel Vangelo secondo Luca, dalla quale è tratto il testo. Lo faccio perché credo fermamente che i principi contenuti in questo messaggio stiano alla base di una sana e proficua convivenza civile, a prescindere dai credi, dalle razze, dalle estrazioni sociali. Nel secondo, “Estasi e tormento – il mito di Gaziano”, celebro la mia città, Bagnara, che, anche se non mi ha dato i natali, è la mia terra. Il musical mette in scena la nascita di Bagnara secondo una favola mitologica tramandata dagli antichi. Insieme a Natale abbiamo aggiunto altri personaggi e situazioni per arricchire la trama e renderla più romanzata. Grazie anche al suo bellissimo testo, lo spettacolo ha riscosso molti consensi.

Un artista può sentirsi tale senza i pubblici?
Secondo il concetto di cui parlavo prima, dal processo poetico (l’atto creativo) nasce lo spartito e a questo deve seguire il processo estesico (l’atto interpretativo), percettivo da parte del pubblico fruitore. Senza quest’ultimo elemento il cerchio non si chiude; le emozioni non si trasmettono, il messaggio non arriva. Come per il suono, che ha bisogno di un elemento che veicoli le onde meccaniche per diffondersi nello spazio, così l’arte ha bisogno del pubblico per essere assimilata, percepita e tramandata nel tempo. Così ritengo che un artista ha bisogno del pubblico per sentirsi tale.

Che cosa significa oggi vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
A questa domanda non posso rispondere perché io non vivo della mia arte. Il mio impiego attuale è molto lontano dal mondo della musica. Scrivo musica perché è la mia passione, ma la mia passione, purtroppo, non è il mio lavoro. Comunque, tralasciando per un attimo la visione romantica dell’artista, penso che quando l’arte diventa lavoro, come tutti i lavori può essere più o meno remunerativa, e i sacrifici dell’artista nel vivere questa sua missione sono legati a diversi elementi. In questo senso, bisogna ragionare con i concetti freddi del business: il prodotto finale deve vendere e per far ciò deve attecchire nel mercato, e, di conseguenza, deve ricevere il maggior numero di consensi. Così possiamo parlare di valore relativo dell’artista, legato a molteplici fattori quali, tra gli altri, la pubblicità dell’evento, le mode del momento, il gusto del pubblico. Ma il valore assoluto dell’artista si misura nel tempo. Se la sua arte vale, lascerà un segno indelebile nella storia; il prodotto scarso, invece, passerà con la stessa velocità di una meteora.

Che cosa ti spinge ogni anno a tornare alla tua terra natia?
Grazie a Dio la città dove lavoro è abbastanza vicina a Bagnara da consentirmi di tornare molto spesso. I motivi sono legati fondamentalmente agli affetti: la famiglia, gli amici, le piacevoli chiacchierate (specie quelle con il mio intervistatore). Ma oltre a questi, la cosa che più mi manca di Bagnara è il mare. Io abito in collina e il mare lo vedo da lontano. Quindi sento il bisogno, quando torno al mio paese, di ricaricarmi di aria salmastra per riequilibrare il mio organismo.

Il musical ha lo scopo di allietare e far riflettere raccontando storie, fatti, idee, emozioni, di presentare la realtà da altre prospettive, di immaginarla, di sognarla appunto. Per questo motivo, puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Ogni artista deve essere un sognatore. L’elemento naturale dell’arte è proprio il sogno, l’immaginazione. Rimanendo nel mio ambito, quando si allestisce uno spettacolo, tutto si deve svolgere in uno spazio e in un tempo ristretti; grandi per quanto possano essere, sono sempre concentrati in specifici momenti, in determinate misure. I concetti stessi di tempo e di spazio perdono la loro consistenza naturale. Si entra letteralmente in un’altra dimensione, si vive in un altro mondo e le emozioni che ne scaturiscono fanno emergere aspetti e risorse di noi stessi, che in altri contesti rimangono sopiti, nascosti. Quando dormiamo facciamo sogni che a raccontarli hanno la durata di un film. Invece studi scientifici hanno dimostrato che noi sogniamo per tempi brevissimi, della durata di qualche secondo. Lo stesso avviene quando si entra nella dimensione dell’arte. A tal proposito Shakespeare stesso ha usato proprio queste parole: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”. Più chiaro di così… Il mio sogno nel cassetto è quello di vivere di musica e di vedere le mie creature (così considero i miei lavori) camminare con le proprie gambe. Purtroppo, dopo pochissime rappresentazioni, entrambi i musical vivono segregati nel dimenticatoio. Mi piacerebbe che, insieme ai lavori che verranno, girassero per i teatri e le piazze, regalando emozioni alle platee di tutto il mondo.

Qual è l’ultimo lavoro di cui ti stai occupando?
Da diversi anni sto lavorando a un nuovo musical, “La leggenda del Faust”, tratto dal romanzo di W. J. von Goethe. La trama si svolge intorno a tre personaggi principali: «Faust, vecchio filosofo e scienziato che, stanco della vita, decide di farla finita e cerca di suicidarsi ingerendo un potente veleno; Mefistofele, creatura infernale che assume le sembianze umane per corrompere Faust attraverso un patto siglato col sangue: la giovinezza e la gioia di tutti i piaceri della vita in cambio della sua anima. E poi Margherita, giovane fanciulla di sani principi morali che, per amore, si dà a Faust, dal quale viene sedotta e abbandonata, ma che sarà la protagonista assoluta del finale». A differenza dei due musical precedenti, sto realizzando quest’ultimo a partitura continua, cioè tutto cantato - senza parti recitate - come avviene nel melodramma e in molti musical. Il progetto è ambizioso. Il testo l’ho tratto da una traduzione in italiano del libretto originale dell’opera “Faust” di C. Gounod, curata da O. Cescatti, che io ho rielaborato. È strutturato in due atti; il primo l’ho quasi terminato, mi resta da musicare tutto il secondo. Com’è nel mio stile, utilizzo tutta la gamma di strumenti musicali, da quelli classici orchestrali a quelli più moderni, quali i suoni elettronici, intrecciandoli insieme per dare colore all’arrangiamento. Gioco molto sull’armonia, stando sempre attento a mantenere i giusti equilibri con la melodia, affinchè il tutto risulti originale e piacevole all’ascolto.

Alcune parole per i giovani.
Accostatevi alla musica, nei modi e nelle forme che più vi sono congeniali. Tra tutte le arti, la musica è quella più fruibile. La si può ascoltare, la si può eseguire, la si può creare. Tutto dipende dalle attitudini e dal talento. Non bisogna sforzarsi di essere musicisti a tutti i costi per diventare famosi; il risultato finale sarebbe devastante e, in ogni caso, non si farebbe arte. Ma imparare a suonare uno strumento musicale, anche a livello amatoriale, può rendere la vita più leggera e compiuta. La musica può servire per rilassarsi, per sfogarsi, per farsi compagnia. Chi fa musica non è mai solo. Così si evita di cadere in stati di solitudine che potrebbero portare a conseguenze pericolose. Tra tutti i pregi della musica, un posto di rilievo lo ha sicuramente l’aspetto terapeutico. La musica è vita. Allena la mente e nutre lo spirito. Dunque:
- esaltatevi con la musica, non con la droga;
- parlate di musica, non di violenza;
- armatevi di musica, non di strumenti di morte;
- impegnatevi a infondere rispetto rispettando, e non a incutere paura.
Buona musica a tutti.

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