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lunedì 29 novembre 2010

L'ARTE PERIFERICA: INTERVISTA A MIMMO FADANI

- di Saso Bellantone
Pittore, poeta, grafico, incisore, scultore, critico, autodidatta, Mimmo Fadani nasce a Bagnara Calabra il 1 agosto 1942, dove vive con la moglie e i figli. Dottore honoris causa in Discipline artistiche, professore in Scienze Umanistiche, esperto d’arte, a partire dal 1982 diviene una delle firme più autorevoli del panorama artistico, storico e culturale mondiale. È infatti inserito nei principali Dizionari, Cataloghi, Antologie e Pubblicazioni internazionali d’arte pittorica e poetica, nei quali è definito dai più importanti critici del ‘900 un Autentico Maestro. Quale ambasciatore di valori universali, espone le proprie opere in Italia, Svizzera, Stati Uniti, Spagna, Giappone, Grecia, insomma in tutto il mondo e ha ricevuto premi e riconoscimenti di prestigio mondiale, tra i quali, tanto per citarne alcuni: il Premio internazionale “Una vita per l’arte”; la Medaglia Aurea Premio Milano artista dell’Anno 1988; il Premio Quadriennale “Il Centauro d’Oro”; il Premio Europa 1985; il Premio Pirandello dal 1984 al 1993; il Premio Vasari Milano 1989; l’Oscar d’Italia 1985; il Premio Nettuno d’Oro 1985; la Statua d’Oro delle Arti Visive e iscrizione all’Albo Professionale degli Artisti Europe 1989; il Premio Mondiale “il Centauro d’Oro 1988” e numerosi altri ancora.

Maestro Fadani, come si è avvicinato alla pittura?
Quando andavo a scuola, ero attratto dal disegno e dall’armonia dei colori, ma a causa della schematicità e del tecnicismo didattici non mi ero dedicato a fondo. Tuttavia, col passare del tempo, più ammiravo gli splendidi paesaggi di Bagnara, più osservavo i suoi personaggi caratteristici, più visitavo mostre, musei ed esposizioni pittoriche pubbliche e private, più avvertivo l’incanto dell’arte della pittura e il bisogno di dedicarmi in pieno a quest’arte. Così, da autodidatta e in assoluta libertà, ho iniziato a sperimentare tutte le tecniche possibili e immaginabili: la grafica prima, l’incisione poi, la scultura e infine la pittura, l’arte che più mi appartiene. La pittura, infatti, gode di una vasta scala cromatica dei colori, delle prospettive, dei chiaroscuri e via dicendo, tutti strumenti coi quali riesco ad esprimere in pieno tutte le sensazioni che provo.

Che cos’è la pittura?
È vita, espressione di sentimenti, di purezza d’animo, di cultura. È un calco del carattere altrui, dei paesaggi contemplati, delle visioni cui si ha modo di assistere e che ti comunicano forti emozioni. È un’arte capace di immortalare l’essenza della vita, qualunque sia il soggetto: è un’arte dell’anima. Nelle mie opere, infatti, non riproduco mai quello che vedo: ne evidenzio l’anima. Se la pittura non riesce a esibire questo, allora non è più se stessa e l’uomo perde il senso della vita: le emozioni.

Qual è l’essenza della pittura? Cosa pensa riguardo al senso, allo scopo e agli usi della pittura, a livello sia individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
La pittura fornisce sempre una lezione di vita. Come altre arti, è un’arte nobile che porta l’individuo ad essere parimenti nobile, sia nell’animo sia nell’intelletto. Un artista è un illuminato, possiede una genialità innata, spontanea che sente il bisogno di tramandare ai posteri, traducendo le proprie sensazioni nelle opere d’arte. L’arte, qualsiasi arte, è un punto di riferimento sia per il singolo individuo sia per l’intera società: se quest’ultima è priva di arte, allora è priva di tutto e l’umanità si ritrova manchevole del senso della vita.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo si è trasformata di linguaggio in linguaggio fino a diventare, in italiano ad esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Può definire la pittura una “poesia”? Le sue opere d’arte sono creazioni nel senso pieno del termine?
Sono nuovi mondi, sono portatrici delle sensazioni che vi ho trasmesso, sono vive perché riflettono sia la mia vita sia quella di coloro che ho incontrato e che mi hanno dato lo spunto per creare e ricreare. Questa vitalità, però, non è fine a se stessa, dev’essere trasmessa agli altri e offrire un punto di riferimento nella loro vita. Questa è l’arte: trasmettere l’essenza della vita mediante le proprie creature.

Perché dipinge? Perché sente l’esigenza di comunicare mediante l’arte della pittura?
Dipingere fa parte di me stesso. Non riesco a farne a meno, è come l’aria che respiro. Ogni giorno vago nel mio paese alla ricerca della luce, dei personaggi, dei fiori, dei colori, delle espressioni, della mimica, degli elementi unici che lo qualificano. Quando poi mi trovo di fronte a una tela, devo eternarli, tutti. È come un diario: la pittura è la mia scrittura, completa la mia realtà. Ho bisogno di nutrirmi della poesia del mio paese, dalla mattina alla sera. Ma la sera, questa poesia si è già tramutata nelle mie opere, nei miei dipinti.

Che cosa racconta nei suoi dipinti?
Amo raccontare i personaggi, i paesaggi e le visioni che mi danno sensazioni uniche. I tramonti e le aurore di Bagnara, ad esempio, sono unici e rendono unica la stessa Bagnara, baciandola con delle gradazioni di colori introvabili nel mondo. Il sole si rispecchia nel mare cristallino, con delle sfumature di viola, di arancione, di azzurro e di grigio ed è, ogni volta, un’estasi di emozioni. Non riesco a sfuggire a queste visioni e prospettive così affascinanti, né ai personaggi di Bagnara che mi hanno dato tanto nell’arte. Esprimo e riverso sulla tela o sul foglio bianco tutte le sensazioni che provo innanzi a loro. Nella poesia non guardo la metrica né la professionalità; nella pittura, non mi curo delle tecniche. Lascio che le mie emozioni si trasferiscano da sé, sulla tela come nel foglio. Devo essere spontaneo, libero, creatore: solo in questo modo evito di falsificare le emozioni provate.

Un artista può sentirsi tale senza i pubblici, senza coloro che fruiscono delle sue creazioni?
L’artista ha il dovere di comunicare quello che prova. Nel momento creativo, deve pensare soltanto a trasmettere in pieno le proprie emozioni. Poi, però, le sue opere devono essere messe a disposizione di tutti, in modo che tutti recepiscano ciò che l’artista ha provato. Ogni opera d’arte è dell’umanità, in qualunque modo si presenti: impressionismo, cubismo, metafisico, stilizzato. L’artista deve saper trasmettere: spetta ai fruitori, in seguito, riuscire a godere delle stesse emozioni dell’artista.

Che cosa significa oggi vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Quando esco fuori, vedo un mondo corrotto, che non è più semplice e genuino e questo mi provoca molta sofferenza, mi fa chiudere in me stesso. Ma non riesco a convivere con queste tristi emozioni: devo liberarmene, trasferirle nella tela. In questo modo le affronto e, liberandomene, posso permettere ad altri di fare lo stesso. Credo significhi questo vivere come un artista: creare l’opera prima per se stesso, per la propria salvezza, e poi per tramandarla agli altri, per la salvezza di altri. Vivere di arte è unico, sia quando si affrontano emozioni paradisiache sia quando si ha a che fare con emozioni malinconiche o dolorose. L’artista non dimentica nulla: fissa nelle opere tutte le proprie emozioni. Io le chiamo “le mie creature”. Quando le osservo, è come un documentario: rivedo me stesso e il mondo, con il quale mi sento sempre in armonia. Le mie creature, le mie figlie mi restituiscono le emozioni che ho provato e in questo modo trovo di nuovo la forza necessaria per vivere, per creare, per immortalare una nuova lezione di vita da trasmettere agli altri, affinché apprendano come me l’essenza del vivere e dell’essere.

Che cosa la spinge a restare nella sua terra natia?
Io amo Bagnara. Il senso della mia vita si trova qua. È la mia musa ispiratrice. È la mia vita. Bagnara è arte ed io ne sono il suo celebratore, con la penna ma soprattutto con il pennello. Non saprei vivere altrove.

Ogni giorno lei si appropria dei personaggi, dei paesaggi, delle visioni cui assiste e li partorisce come fossero suoi figli, dà loro nuova vita trasformandoli in opere d’arte. In un certo senso, realizza dei sogni. Ma il Maestro, il sognatore Fadani ha, come si suol dire, un sogno nel cassetto?
Non ho cassetti: ho i miei personaggi, i miei paesaggi, le mie visioni che crescono, prendono forma, colore e definizione sulle mie tele. Sono questi i miei unici sogni e mi sento pago di questo. Non ho pretese né obiettivi. Ogni opera mi rende felice e mi rafforza: non necessito di altro.

Alcune parole per i giovani.

Credete in voi stessi. Bisogna curare la volontà di apprendere, di vedere e capire che cos’è la vita, allontanandosi dai suoi volti negativi come per esempio la droga, l’alcool, la corruzione, l’essere nullafacenti. Dovete ancorarvi in quei sentimenti veri, leali e puri di cui nel tempo si è sempre alimentato l’uomo e che danno quella forza, quella luce, quello splendore grazie al quale soltanto ci si può definire uomini. È in questa luminosità che bisogna vivere: chi va nel buio, dirige alla morte eterna. La luce può darvi la via del sapere e del potere vivere felici. Createvi un avvenire, vivendo nella società sana e non corrotta. Avvicinatevi alla musica, alla poesia, alla pittura, all’arte. Socializzate con chi si fa promotore di una certa cultura, ancorata nella luce. I poeti, gli scrittori, gli artisti sono i veri filosofi della vita, i veri maestri ai quali ispirarsi.

venerdì 26 novembre 2010

BAGNARA... RARI BELLIZZI di ROCCO NASSI

- di Saso Bellantone
Per comprendere l’evoluzione poetica di Rocco Nassi, non si può fare a meno di leggere la raccolta Bagnara… rari bellizzi (2007). Bagnara… rari bellizzi non è Pe’comu parru scrivu… Amari penzeri (2010). Sarebbe un grave errore accostarsi alla prima opera di Nassi col senno della seconda. Le due opere contrassegnano due momenti differenti della poetica e della vita di Nassi. E quando si parla di Nassi, poesia e vita non sono sostanze diverse come la notte e il giorno ma un’eclisse sia di sole sia di luna a un tempo: sono profondamente unite. Nassi è uomo e poeta a un tempo: la sua vita è la sua poesia dialettale e la poesia dialettale è la sua vita. Nell’una c’è l’altra, e viceversa. Le due raccolte in esame raccontano, ricapitolandoli, due diversi periodi dell’uomo-poeta Nassi.
Pe’comu parru scrivu… Amari penzeri è l’opera per la gente, della denuncia, del radicamento. L’opera di chi è stanco di osservare un mondo che crolla sulle macerie dei precedenti disastri ma che vuole spazzare via questi rottami per far respirare di aria nuova il vecchio mondo, culla di ogni certezza. Qui incontriamo un uomo-poeta maturo, sicuro, che ha chiaro il proprio compito, la propria missione: la rima, la parola dialettale per sovvertire l’ordine costituito e restaurare quello precedente, quello passato, quello vero. Qui incrociamo un uomo antico, non nel pregiudizio ma nei valori, come la sua poesia. Un uomo che conserva la propria identità e le proprie radici nell’illusione del presente, offrendole alla gente come uno specchio nel quale ricordare, ognuno, la propria. Qui incappiamo in un verso dialettale debole sì rispetto alla forza dell’italiano ma potente e immediato, sintetico, scrupoloso e deciso come erano soltanto i Bagnaresi di un tempo. È un verso vernacolare che tuona il recupero del passato per impiegarlo oggi come una forza salvifica, che sfida l’attuale decadenza generale, colpendola là dove trae la propria linfa vitale: la lingua del potere (l’italiano). Pe’comu parru scrivu… Amari penzeri è un incrocio del quale l’uomo-poeta Nassi si fa profeta e innanzi al quale i Bagnaresi e, dopo di loro tutti i Calabresi, devono scegliere: o ritornare al passato verso la vita; o procedere avanti verso la catastrofe.
Bagnara… rari bellizzi è invece l’opera per uno solo: per Nassi. L’opera della malinconia, della solitudine, della tristezza, della critica rabbiosa, della sofferenza, del ritorno. Qui assistiamo alla contemplazione di un mondo perduto fisicamente ma custodito nella memoria. Qui partecipiamo al ritorno dell’uomo-poeta nella propria terra natìa: Nassi non la riconosce perché è cambiata, non è più quella di un tempo ma ne è ancora innamorato. E questo amore lo spinge a strappare via dai propri occhi i veli che mascherano la propria terra d’origine. Ed eccola lì, bella, raggiante, attraente come sempre: ci sono ancora le persone, gli avvenimenti, gli usi, i costumi, le tradizioni caratteristiche di Bagnara. Dietro queste visioni, l’uomo-poeta Nassi scorge gli antichi valori e il proprio passato, che osserva ora malinconico ed estasiato, ora sorridente e bramoso. Qui troviamo un vagabondo che, girando per le strade del paese, è assalito dai ricordi, memorie che ancora vivono, che parlano una lingua diversa da quella del potere, della tecnica, della decadenza (dall’italiano). Parlano il dialetto ma il dialetto è debole, insicuro, tentennante come quello del suo cantore, di chi stava per dimenticarlo. È il travaglio di chi ritorna a parlare la vecchia lingua, di cerca, sonda, scava, gira e rigira nel dialetto, per comprendere quel che vede e capire se stesso e il proprio destino. Le immagini sconvolgono, la parola è pesante, l’inchiostro deforma ancora le immagini e la voce. In una lotta senza tregua contro se stesso e contro il tempo, Nassi impara nuovamente a vedere, a parlare, a vivere e a cantare l’esperienza di questa schiarita.
U tramuntu è l’immagine di quel tramonto dimenticato, che soltanto un bagnarese può sperimentare. U cinima i Bagnara narra malinconicamente l’antica serenità e gioia per criticare l’attuale preoccupazione e infelicità dilaganti. A fuitìna bagnarota non descrive soltanto la prassi dell’innamoramento così come avveniva un tempo ma anche l’esplosione impetuosa dell’amore di Nassi per Bagnara. A randi hiumara racconta la vita che qui si svolgeva cancellata dal cuore di cemento dei politici, mentre Va crisci gioventù descrive la preoccupazione di fronte a un mondo completamente diverso da quello conosciuto nella giovinezza dall’uomo-poeta. A bagnarota è un omaggio alla donna di un tempo, difficilmente rintracciabile oggigiorno. Stesso dicasi per gli uomini, con la poesia Cumpari Carminu. Mitico Cinneju testimonia come dall’ingenuità, una volta, accadevano fatti divertenti: è un’allegria diversa da quella suscitata oggi dalla volgarità del linguaggio e dalla consapevole idiozia dei conterranei. Non simu mai cuntenti è un esempio di come la poesia nassiana sia capace di fotografare le caratteristiche fondamentali dell’essere umano. Chista t’a potìvi risparmiari è una dimostrazione dell’originale modo bagnarese nell’usare il sarcasmo per trasmettere ragionamenti molto profondi, riguardanti anche la fede. U cumpari “fina a curva” denuncia uno dei mali di questa terra, la logica politica della raccomandazione, mentre U mbrogghjuni riferisce metaforicamente dei truffatori di un tempo per parlare di quelli d’oggi. A posta e Cosi ill’autru mundu criticano la decadenza generale del mondo contemporaneo e la sofferenza sparsa nell’intero pianeta.
Queste sono soltanto alcune delle poesie vernacolari presenti in Bagnara… rari bellizzi. Se quest’ultima racconta la storia di un vagabondo che tornato alla propria terra, impara a riscoprirla e a ritrovare se stesso come uomo e poeta, siamo felici che invece Pe’comu parru scrivu… Amari penzeri narra un’altra storia: quella di un uomo-poeta radicato in Bagnara, che usa il dialetto al servizio della gente. Leggendo la poesia di Nassi, a ben vedere, oltre alla sua, si assiste alla storia di altri vagabondi in cerca di se stessi e delle proprie radici: quale? La nostra.

mercoledì 24 novembre 2010

CAINO di JOSE' SARAMAGO

- di Saso Bellantone
Le stelle compiono il proprio incommensurabile giro, senza sosta. In un istante appare una civiltà e l’istante dopo non c’è più. La forza di gravità tiene ancorato al suolo terrestre il corpo dell’essere umano ma non riesce ad imbrigliare la sua mente che, invece, eternamente vaga leggera nell’universo in cerca delle risposte alle proprie domande fondamentali: Chi sono? Dove sono? Come sono? Perché sono? Da dove vengo? Dove sto andando?. Si può trovare una risposta per tutti questi interrogativi ma non per uno: perché sono?. Da solo, l’essere umano non trova soluzione all’enigma e deve ricorrere al mistico: dio. Un altro dilemma per risolvere quello precedente. Che animale curioso è l’uomo. La storia di ogni civiltà è condizionata dal modo in cui si rapporta al divino, con il quale risponde alla domanda perché sono?. Anche la storia della nostra civiltà, l’Occidente, è conforme a questo criterio. La storia dell’Occidente è vincolata a un libro o, meglio, a una raccolta di libri che non solo descrive in quale modo avviene la relazione tra dio e gli uomini ma che, per di più, si presenta alla maniera della verità assoluta. In altri termini, questa raccolta consente all’essere umano di rispondere alla domanda perché sono? in modo ultimo e definitivo. Malgrado la sua fortuna millenaria, oggigiorno questa risposta comincia non solo a essere sgradita anzi inizia a irritare. Secondo la verità narrata da tale collezione di libri, l’essere umano sarebbe soltanto un burattino utile per soddisfare i capricci di dio, di un dio cioè che: da un lato impartisce ordini e sentenze spietati, ingiusti e illogici per vincere la propria noia; dall’altro lato è indifferente alla volontà e alle emozioni umane. In questo senso, l’essere umano è niente rispetto a dio e l’intera storia dell’Occidente (che ha posto al proprio epicentro tale raccolta di libri) non è altro che l’avventura degli schiavi, delle vittime, del gioco preferito da dio.
Mentre Il vangelo secondo Gesù Cristo è un romanzo che compendia a un tempo i Vangeli canonici e apocrifi, per narrare la storia dei protagonisti del Nuovo Testamento secondo una prospettiva esclusivamente umana, Caino (2009) invece non è soltanto il romanzo di uno scrittore ma il testamento di un essere umano. Saramago racconta i momenti salienti dell’Antico Testamento per contestare la crudeltà, l’iniquità e la paradossalità del giocatore menefreghista delineato nella Bibbia come sorgente del mondo e dell’umanità. Saramago è Caino ma Caino è anche tutti coloro che oggigiorno si rifiutano di rispondere alla domanda perché sono? mediante la verità assoluta della Bibbia. Se questo dio esiste davvero e la storia dell’umanità consiste soltanto nel gioco preferito di un dio sadico, scorretto e contraddittorio, allora sia l’uno sia l’altra sono insensati. Se invece nessuno dei due si qualifica in questo modo e dio esiste davvero, allora la storia degli uomini non può essere altro che «la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui» (p. 74). Se è così, se è soltanto una storia di incomprensioni, allora basterebbe mettersi a ragionare l’uno davanti altro, come Caino e dio. Forse Saramago lo sta già facendo: ma non è lui che deve capire dio, è dio piuttosto che deve capire Saramago.

MALEDIZIONE DEL CALCIO

- di Saso Bellantone
È una consuetudine, oggigiorno, lagnarsi di due fenomeni, apparentemente diversi ma profondamente legati tra loro, a causa dei quali la nuova era sembra mostrarsi, anziché un progresso, una degenerazione totale. Si parla cioè di crisi dei valori e di crisi economica, lamentandosi melodrammaticamente con chiunque che tutto è peggiorato, che non ci sono più valori, che non si arriva a fine mese, che la fine del mondo è vicina e simili. Ma appena si presenta l’occasione, si taglia su due piedi la messinscena apocalittica, romantica, messianica o critica, si abbandona tutti e ci si reca nel posto più adatto – in casa propria, nei circoli, allo stadio – per seguire come indemoniati lo sport più famoso del mondo: il calcio. Quanta ipocrisia. Nessuno sottolinea come quelle crisi dipendano anche da questo sport (e da altri, naturalmente). Nessuno evidenzia come, d’altro canto, il calcio rispecchi la bestialità dominante l’era contemporanea, la ripugnante lontananza umana dalla civiltà, provocata dall’avidità di fama, di denaro, di potere.
Una volta, quando ancora non si parlava di crisi economica e di crisi dei valori (perché c’era la povertà), il calcio era un gioco, limitato nel tempo e negli spazi sociali. Costava poco o nulla. Era un luogo dell’incontro con l’altro che richiedeva disciplina, spirito di sacrificio, voglia di imparare e, per chi andava a scuola, almeno la sufficienza in tutte le materie. Era un’occasione per conoscere degli amici, per aggregarsi e scambiarsi l’un l’altro amicizia, simpatia, rispetto, fiducia, cura, aiuto, comprensione, dialogo, emozioni sincere. Era un’esperienza formativa di vita: s’imparava l’uguaglianza, a stare in comunità, il lavoro di squadra, a gioire e a soffrire insieme, il rispetto per ognuno. Era un punto di riferimento per tutti, un modo per affrontare assieme agli altri i problemi quotidiani di ognuno. Incarnava la speranza di poter cambiare le cose, di poter realizzare i propri sogni, indipendentemente dal fattore economico. Era un evento, una festa, una piacevole distrazione sotto controllo.
Oggi, nel tempo della crisi economica e della crisi dei valori (perché c’è benessere e consumismo), il calcio è un business senza tempo e senza spazio, perché è onnipresente. È un’epidemia cronica sfrenata ma anche una gallina dalle uova d’oro (per alcuni). Non è soltanto un investimento economico ben programmato ma anche uno spreco di tempo, di salute e di vita. Una moda, un lavoro serio, una possessione diabolica, una competizione continua contro tutti per guadagnare fama, ricchezza. Un luogo della disuguaglianza, della solitudine, dell’illusione, dello sfruttamento, dell’inimicizia, dell’antipatia, dell’insolenza, della diffidenza, del menefreghismo, della disattenzione, dell’intolleranza, della rabbia, dell’avvilimento, della sregolatezza, dell’incomprensione, dell’abbandono, della disumanizzazione, della corruzione, dell’infelicità, della vuota chiacchiera. Un luogo della cattiveria, dell’offesa, del razzismo, dell’ignoranza, della stupidità, della rissa, dello scompiglio, del sangue e della morte. Un luogo selvaggio, della decadenza dei costumi, della morale e dei valori.
Malgrado ciò, la gente continua con i propri infidi melodrammi e non smette di adorare il calcio più di ogni altra cosa, lasciandosi degenerare. Se nell’era contemporanea il calcio può essere soltanto questo, allora “Che il calcio sia maledetto!”. Se invece può tornare a essere ciò che era un tempo, allora occorre rendersi conto che questa metamorfosi può originarsi esclusivamente per effetto di un’altra: la nostra.

martedì 23 novembre 2010

OPIUM di Maxence Fermine

- di Saso Bellantone
Ognuno di noi, fin dalla infanzia, s’innamora di qualcosa e promette a se stesso di volerne sapere tutto. È un patto che inconsapevolmente stipuliamo con le sorgenti remote e sconosciute della nostra volontà, un invisibile contratto che ci spinge inevitabilmente a sapere di più e ancora di più a proposito di quel che amiamo. L’amore non possiede perché e non conosce il senso di se stesso. Proprio come il sapere. Entrambi vagano nel limbo dell’esistenza desiderosi di scoprirsi, ma ogni passo che li avvicina al proprio senso contemporaneamente li allontana da esso. L’amore e il sapere sono prigionieri di questo spleen, sono schiavi di questa interminabile caccia tra l’ignoto e il pericolo. Pur bramando se stessi, non possono conoscersi, non possono trovarsi. Se ciò accadesse, subitaneamente si smarrirebbero, divenendo altro da sé. Ma prima o poi tutto varca la soglia dell’impossibile e accade l’inatteso: l’etereo accordo si sfalda, l’amore diviene un ricordo, il sapere una visione e l’incoscienza la consapevolezza di aver vissuto davvero e di voler ricominciare tutto daccapo.
Nel suo Opium (2002), Maxence Fermine racconta la storia di Charles Stowe, avventuriero del the, la spezia che ama fin da bambino. L’amore per il the e il desiderio di conoscerne e gustarne le tre qualità vietate al commercio (verde, blu e bianco), lo spingono a intraprendere un viaggio in Cina. Qui, l’apprendimento dei segreti del the finisce per coincidere con la scoperta del vero amore e dell’oppio. Ma la conoscenza di questi ultimi gli fa capire che se l'amore e l'amaro benessere dell'oppio possono finire, invece «la vita è l’oppio di cui non ci stanca mai» (p. 165).

martedì 16 novembre 2010

"VIENI VIA CON ME" CON FAZIO E SAVIANO

- di Saso Bellantone
ELENCO PER DEFINIRE “VIENI VIA CON ME”: Altri conduttori. Altra scenografia. Altra musica. Altro humor. Altre storie. Altre parole. Altri temi. Altre voci. Altri ospiti. Altre prospettive. Altri ricordi. Altre idee. Un altro pensiero. Un’altra politica. Un’altra etica. Un altro sociale. Un’altra Italia. Un’altra democrazia. Un altro presente. Un altro futuro. Un’altra speranza. Un’altra vita. Altre emozioni. Altri sogni. Un nuovo coraggio. Una diversa compagnia.
Credo sia questo il modo migliore per parlare del programma Vieni via con me. Dopo la seconda puntata in onda ieri sera su Raitre, alle 21:10, non ci sono più dubbi. Vieni via con me è un virus nell’arrugginito sistema-Italia. È la scomposizione della grande illusione che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno. Lo smantellamento della stessa abitudine al letargo con la quale conviviamo in ogni istante. Una doppia demolizione finalizzata all’edificazione di una società e di persone diverse.
Fazio e Saviano non conducono uno show. Il palco è vuoto. Un luogo di passaggio che poi torna a essere vuoto. Il vero show è quello che avviene nelle nostre case, dietro i televisori, per effetto di tutti coloro e di tutto ciò che passano sul palco e vanno via: il nostro cambiamento. Ma il nostro, è soltanto l’inizio del cambiamento: è una visione. È l’osservare come sarebbe la nostra società, se decidessimo di portare avanti, fino alla fine, il processo di metamorfosi appena avviatosi.
Non si tratta, dunque, come fanno molti, di osannare o criticare Vieni via con me: occorre, preferibilmente, pensare alla nostra decisione. Ognuno deve interrogarsi e capire chi vuole essere, in quale Italia desidera abitare, d’ora in poi.

sabato 13 novembre 2010

ZAHALìA

- di Saso Bellantone
Pioveva. La strada era sola. Come me. Ero bagnato fino alle ossa. Di luce. Ma la strada era asciutta. Buia come la morte.
Vagavo disorientato nella morte. Mi sentivo osservato. Perché la luce mi bagnava. Ma vedevo solo il buio. E la pioggia di luce che m’inzuppava... continua a leggere

giovedì 11 novembre 2010

LA POLITICA SECONDO LA METAFORA DELLA SCRITTURA

- di Saso Bellantone
Ultimamente molti amici e conoscenti mi hanno rivolto la stessa esortazione: “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”. A seconda dei casi, ho annuito, ho dissentito, ho sorriso, ho digrignato i denti, ho fatto finta di nulla, ho simpatizzato, ho disputato, ho capito, ho frainteso ma ho sempre riflettuto a lungo sulle parole che mi sono state rivolte. Oggi ho deciso, cari lettori, di rendervi partecipi di queste riflessioni.
Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”. Quest’espressione può essere interpretata in vari modi: come un luogo comune, un detto di circostanza, un suggerimento ispirato da sentimenti benevoli oppure ostili, una follia. Eppure dà da pensare e può rappresentare qualcosa di più rispetto a tutto ciò che è stato appena elencato: ossia, una metafora con la quale soppesare il rapporto che intercorre tra il politico e i cittadini.
Quando qualcuno mi sollecita “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”, è uno shock. La frase testimonia certamente che chi l’ha pronunciata è un mio lettore o per sentito dire sa che scrivo. Il mio trauma però non proviene dal tentativo di capire il perché sono stato esortato in questo modo. Riguarda, invece, i chiari messaggi che la proposizione stessa comunica. Chi la pronuncia
1) si raccomanda a me;
2) mi esorta a fare quel che faccio in modo buono.
Questi messaggi sono inquietanti, principalmente perché chi li lancia è un vago conoscente o uno sconosciuto. Con il primo messaggio, il mio interlocutore si raccomanda a me. Raccomandarsi significa affidarsi totalmente a qualcun altro, il quale è obbligato, senza possibilità di fuga, a prendere su di sé chi si affida a lui. Mi chiedo: come posso prendere in carico la raccomandazione che costui mi rivolge? Mediante il secondo messaggio: fai quel che fai in modo buono, nel mio caso “scrivi articoli buoni!”. Buoni? In che cosa consiste la bontà di un articolo, secondo il mio interlocutore? Costui non lo specifica però ripete: “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”. Mi rendo conto che un articolo non è qualcosa di commestibile, dunque non può essere buono né cattivo per il palato. Dunque, immagino dovrebbe rinviare a una morale, al giudizio sul bene e sul male, e orientarsi in qualsiasi argomento in questo senso. Dal momento che il mio interlocutore non specifica qual è la sua concezione del bene e del male, dalla quale è possibile trarre ciò che è buono e ciò che è cattivo, devo lavorare di fantasia e fare quel che faccio in modo buono per il mio interlocutore diventa un’impresa ardua.
La frase “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”, assorbe il destinatario (scrittore) nella raccomandazione e nell’esortazione del mittente (lettore). Raccomandandosi, il mittente consegna totalmente se stesso al destinatario, senza ripensamenti. L’esortazione è un rafforzativo di questo atto di affidamento e il destinatario deve obbligatoriamente prendere su di sé il mittente e averne cura, facendo quel che fa in modo buono per lui (scrivere articoli). All’oscuro della concezione del bene e del male del mittente, il destinatario scrive articoli brancolando nel buio e sperando di azzeccare il gusto del mittente. Ma quando il mittente diventa giudice, si spalanca la voragine dell’assurdo.
Scrivendo un articolo bianco, il mittente si lamenta dell’assenza del nero o degli altri colori. Scrivendone uno nero, si lagna che non c’è il bianco né gli altri colori. Scrivendone uno multicolore, il mittente brontola che non c’è il bianco né il nero. Scrivendone uno bianco e nero, borbotta che non ci sono gli altri colori. Scrivendone uno bianco nero e multicolore, il mittente contesta che l’articolo deve trattare esclusivamente o del bianco o del nero o degli altri colori. Scrivendone uno totalmente privo di tinte, bofonchia che non c’è il bianco né il nero né gli altri colori. Smettendo di scrivere articoli, il mittente sbuffa che il destinatario non scrive articoli. Insomma chi prima afferma “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”, in seguito non è mai contento, trova sempre qualcosa che non va’. Basterebbe chiarire la propria concezione del bene e del male e il destinatario si prenderebbe cura del mittente, che si è affidato totalmente a lui, scrivendo articoli buoni per lui con più facilità.
L’errore del mittente non è soltanto di trascurare di fornire il destinatario della propria concezione del bene e del male ma anche di dare per scontato che questi la conosca già, dunque è in grado di scrivere articoli buoni per lui. Prima di affidarsi totalmente al destinatario, obbligandolo a prendersi cura di lui, il mittente dovrebbe conoscere già il destinatario e sapere già “perché scrive? Che cosa? Come? Quando? Dove? Per chi? Per quale scopo?” e via dicendo. Se non lo conosce, dovrebbe cominciare a conoscerlo, dialogando con lui. Sicuro che la propria concezione del bene e del male coincide con quella del destinatario, il mittente sarebbe finalmente in condizione di dirgli: “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”. Ma tutto questo non avviene. Si continua a dare per scontato che il destinatario conosca già la concezione del bene e del male del mittente e si continua a essere scontenti degli articoli che quello scrive.
L’assenza di un dialogo tra mittente e destinatario impedisce a entrambi di capire nuovamente lo scopo della scrittura: il benessere collettivo e non individuale. La scrittura infatti è sì personale ma, dal momento in cui viene diffusa, diviene di tutti, riguarda tutti e può influenzare tutti, causando benessere o malessere generale. Quindi, in assenza di dialogo tra mittente e destinatario, si dimentica che concretizzare e diffondere la scrittura, comporta l’assunzione di questa responsabilità. Questa deficienza può essere molto pericolosa, perché può legittimare sia il mittente sia il destinatario a considerare lo scopo della scrittura non il benessere collettivo, bensì quello individuale. Il destinatario può scrivere per interessi propri, trascurando di aver cura del mittente che si è affidato a lui. Il mittente può esortare il destinatario a scrivere per avvantaggiare i suoi interessi a scapito di tutti gli altri, persino del destinatario. Può accadere però che alcuni mittenti dialoghino e si accordino con il destinatario, allo scopo di curare gli interessi di entrambi, a scapito degli altri mittenti restanti. In questi casi, la scrittura si mostra come mero egoismo, tornaconto personale, propaganda, lavaggio del cervello, inganno, come uno strumento per dominare gli altri e affermare il benessere di uno o di pochi, e non come uno strumento per dialogare con gli altri e sostenere il benessere collettivo.
La scrittura oggigiorno è de-responsabilizzata perché non ci si confronta nemmeno mediante la lettura. Non solo non si legge ciò che si scrive attualmente, ma neanche ciò che è stato scritto nel passato. Non leggendo, sia il mittente sia il destinatario smettono di ereditare non soltanto gli scritti e la scrittura lasciati dai loro predecessori, ma finiscono per ignorare la concezione del bene e del male che quelli hanno trasmesso loro, codificandola. Per questa ragione, la scrittura è intesa oggi come uno strumento utile per il benessere individuale e ci ritroviamo in un generale relativismo morale, nel quale sia il mittente sia il destinarlo usano la scrittura per i propri scopi individuali. In altre parole, ognuno dà per scontato che la propria concezione del bene e del male sia quella giusta e pretende, pur senza esprimerla, che gli altri la rispettino e che coincida con la scrittura.
Se non ci si confronta nemmeno mediante la lettura e non si eredita la concezione del bene e del male tramandataci da chi ci ha preceduto, come si può scrivere per il benessere collettivo? Ossia, come si può immaginare che la scrittura possa perfezionare, aggiornandola, la visione del bene e del male tramandataci? Senza la lettura degli scritti e della scrittura che abbiamo ereditato, non si è capaci di giudicare se quelli odierni siano buoni o cattivi per il benessere collettivo, né si è in condizioni di opporsi all’uso della scrittura per il benessere individuale. Non si è capaci neanche di capire quando uno scrittore è intoccabile e quando non lo è. Vale a dire: se uno scrittore scrive in un blog privato, è libero di scrivere quel che vuole e il lettore non può dirgli nulla. Se però scrive in un blog pubblico, il lettore dovrebbe vedersi riconosciuto il diritto di contestare quel che lo scrittore scrive e di fare in modo che quello scrittore non scriva più in quella sede. Ma gli scrittori di oggi non riconoscono ai lettori questo diritto. Anzi, preferiscono spacciare la propria scrittura come comunitaria quando invece è egoistica e dissimulare quel che è egoistico come comunitario.
Ogni volta che mi dicono “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!” sono felice di essere soltanto uno scrittore in quanto tale e non un politico. Ma se penso a quest’espressione come una metafora per indicare l’odierno rapporto tra i politici e i cittadini, è con amarezza, cari lettori, che rinvio nuovamente a quanto detto sopra, aggiungendo: “Benvenuti in Italia!”.