IN QUESTO BLOG NON SI PUBBLICANO COMMENTI ANONIMI.

sabato 31 dicembre 2011

BUON 2012 DA DISOBLIO

- di Saso Bellantone
Buon pomeriggio web e buon anno.
La ricorrenza del capodanno è ormai alle porte e ognuno si prepara a viverla come meglio crede. Da soli, in famiglia, con gli amici o con sconosciuti, secondo le usanze ereditate nella comunità dove si è cresciuti in quel preciso arco di tempo e situata in quella precisa posizione geografica oppure in modo alternativo a tutto questo, andando all’estero o restando nella propria nazione, ingozzandosi con i soliti cenoni o patendo la fame, andando a ballare fino alla mattina oppure dormendo come ogni altra notte qualsiasi. I festeggiamenti per il primo dell’anno costituiscono una di quelle commemorazioni che accomunano le civiltà esistite sulla Terra con quelle che ancora resistono a quella dominante, cioè la civiltà planetaria, capitalistica, consumistica (compresa quest’ultima). Il filo conduttore che lega queste civiltà è l’idea superstiziosa (o religiosa) del dispendio in occasione del rito del ciclo dell’anno. Il modo migliore per inaugurare il nuovo anno che viene – o lo stesso anno che torna al proprio inizio – consiste cioè nello spreco dei beni, delle ricchezze, in sintesi di tutto quello che si ha (prestigio sociale incluso) alla scopo di ingraziarsi la natura, dio o qualsiasi altro ente o divinità, e ottenere maggiore fortuna di quanto si è posseduto sino all’ultimo dell’anno precedente. Gettando uno sguardo alla storia del genere umano secondo questa prospettiva, è possibile scorgere immensi sciami di popoli e civiltà che nella ricorrenza del capodanno dilapidano qualsiasi tipologia di bene, attendendosi nell’anno nuovo una moltiplicazione infinita di quanto sprecato, beni materiali (denaro, possedimenti, alimenti eccetera) e immateriali (idee, progetti, sentimenti, credenze e via dicendo).
Se questo è quel che si scorge, potremmo pensare che forse tale ripetizione del dispendio sia scritta nel Dna, rendendo l’essere umano schiavo di tale istinto, cioè incatenato al desiderio dello spreco. L’essere umano è un animale che regola la propria vita mediante un pensiero utilitaristico: fa quel che gli conviene e non fa quel che lo danneggia. Se però la sua storia è una vicenda anche di dispendio, che lo danneggia, non si comprende in quale senso considerarlo un animale utilitaristico. Eppure, i beni che spreca durante il rito del ciclo dell’anno, dimostrano nuovamente che è un animale utilitaristico. Egli dilapida tutto quel ha perché, paradossalmente, intravede in questa prassi un’utilità: il moltiplicarsi dei beni avuti e sperperati. In questo senso, egli crede che quanto più spreca di quel che aveva nell’anno passato tanto più avrà nell’anno nuovo.
Questo ragionamento utilitaristico legato al rito del ciclo dell’anno, a ben vedere, non è altro che un atteggiamento fideistico, teologico e teleologico che – mi sia concessa per stavolta una parentesi non obiettiva – conduce al nulla. Si tratta di una scommessa contro la natura, la sorte, dio, belzebù, extra-terrestri o semplicemente contro se stessi, che conduce al niente. Può darsi il nuovo anno porti nuovi beni, può darsi non ne porti affatto. Tutto ciò dipende da tante di quelle incognite che se staremmo a conteggiarle saremmo già deceduti da un pezzo. Eppure, malgrado tale fede nel rito del ciclo dell’anno sia insensata e controproducente, in quanto, molto brevemente, produce soltanto spreco di beni e di vita, l’essere umano preferisce continuare a dilapidare, a sprecare, a sciupare tutto quel che ha.
Personalmente, mio caro web, se avessi la bacchetta magica o dei superpoteri pari a quelli di un supereroe o di un dio o di un messia qualsiasi, metterei fine a questa ridicola ritualità, ma renderei scontento te e tutti quegli esseri umani che, invece, in tale consuetudine trovate soddisfazione e appagamento. Purtroppo per il sottoscritto, né la magia né i superpoteri esistono in questo mondo, quindi, mio caro web, ritieniti fortunato e vivi il capodanno assieme agli esseri umani come meglio credi e secondo la ritualità che preferisci.
L’augurio che ti mando, mio caro web, se proprio non riesci a uscir fuori da questa logica fideistica del dispendio legata al rito del ciclo dell’anno, è quello di usare questo modo di ragionare, questa prassi, in un’altra maniera che, se apparentemente si mostra dannosa, forse sostanzialmente non lo è: ti auguro, in altre parole, di sprecare tutte le idee che hai avuto sinora, nella speranza che il nuovo anno te ne restituisca il doppio di quelle avute. Ti auguro, detto altrimenti, mio caro web, di pensare e di trasformare questo istinto al dispendio dei beni in un istinto al dispendio del pensiero per, come primo passo da effettuare, dar vita a un’altra civiltà planetaria nella quale capitalismo, consumismo, potere siano soltanto dei miraggi.
Con il presente post auguro sia agli oltre 16700 lettori di Disoblio – da qualsiasi luogo della crosta terrestre leggano questo blog – sia ai lettori di Costaviolaonline e Paperblog, un buon 2012, cioè un 2012 pensante. Per l’appunto, Disoblio premierà i suoi lettori inaugurando nel nuovo anno altre due rubriche, riguardanti l’una la poesia, l’altra diari dal web, entrambe, nell’auspicio di riuscirci così come nelle vecchie rubriche, con un unico scopo: pensare.

sabato 24 dicembre 2011

La lettera di Babbo Natale

- di Saso Bellantone
Cari Bambini,
vecchi, grandi e piccini, vi scrivo questa lettera con grande rammarico. Non so da dove cominciare e il solo pensiero di quanto sto per dirvi mi rattrista maggiormente, ma l’amore che provo per voi non mi lascia alternative. Ogni anno attendete la mezzanotte per vedermi comparire all’improvviso dal camino o dalla finestra e lasciarvi i miei regali sotto l’albero. Che gioia che provo nel vedervi sorridere e scartare ognuno il proprio dono! Il vostro sorriso, ogni volta, mi riempie il cuore. È per questa ragione che amo il mio lavoro e lo considero il più bello del mondo. Lavoro tutto l’anno senza sosta per appagarmi, in un solo istante, di quei sorrisi e non chiedo altro alla vita. La mia felicità è la vostra felicità. Tuttavia mi duole annunciarvi che quest’anno non mi vedrete saltar fuori dal camino né dalla finestra né da qualsiasi altro luogo. Quest’anno, vi chiedo scusa anticipatamente per questo, non ci incontreremo e sotto l’albero, ahimè, non troverete regalo alcuno.
Mi spiace dirvelo per mezzo di una lettera e non di persona ma, mi vergogno a dirlo, non saprei nemmeno come raggiungervi. Gli ultimi anni sono stati estremamente duri. Gestisco da millenni la più grande azienda esistente, ho operai in tutto il mondo e che si occupano delle mansioni più disparate, e non ho mai incontrato difficoltà. Siamo sempre stati puntuali, precisi, non abbiamo mai sbagliato una consegna e ogni anno abbiamo chiuso in pari in bilancio e abbiamo ricominciato da capo l’anno seguente. Ma gli ultimi anni sono stati estremamente duri. Da parecchio tempo non riusciamo più a raggiungere il pari in bilancio. Siamo in deficit. Abbiamo chiesto un prestito dietro l’altro, sperando di aggiustare le cose e tornare in attivo, ma ci siamo illusi. Le cose sono peggiorate maggiormente e ormai nessuno più è disponibile a farci un ulteriore prestito o a investire sull’azienda. Tutto ciò ha causato quel che volevo non si verificasse mai e, tuttavia, ormai è accaduto. L’azienda è fallita.
Il fallimento è cominciato con l’avvento dell’elettricità, delle nuove tecnologie e dei servizi, i quali hanno anche generato un radicale e continuo cambiamento dei costumi e consumi. Io e i miei operai eravamo felici della continua trasformazione ed evoluzione di queste apparecchiature e abbiamo iniziato a rinnovare l’azienda acquistando di tutto, senza badare a spese. Ma ci siamo ritrovati, di anno in anno, con troppe cose da pagare. Radio, frigoriferi, televisori, lavatrici, lavastoviglie, phone, forni elettrici, mangianastri, lettori cd, stereo, sbattitori, condizionatori, ventilatori, rasoi e spazzolini elettrici, tagliacapelli, piastre, forni a microonde, telefoni cordless e cellulari, computer, notebook, stampanti, fax, fotocopiatrici, televisori al plasma, palmare, I-phone, mp3, lettori cd portatili, lettori dvd, stufe e termosifoni, home theatre, proiettori e schermi giganti, tv digitale e satellitare. E ancora automobili, impianti stereo con schermo e le mensole con le casse più potenti, navigatori satellitari, cerchi in lega, assetto da corsa, scooter, mobilia, asciugamani, servizi da tavola, tasse, luce, acqua, gas, metano, affitto dei capannoni in alcuni casi, mutuo in altri, ici, ormai imu, spazzatura, canone rai, posti auto, carburante, linea telefonica e internet, alimenti, prodotti igienici, indumenti, insomma tutto l’occorrente per un capannone. E ancora farmaci, interventi/cure mediche improvvisi, ricariche telefoniche, lenti a contatto o occhiali, prodotti di bellezza maschili e femminili, biglietti del cinema, dei teatri, dello stadio, dei concerti, dei parcheggi, dei treni, degli aerei, dell’assicurazione; bollo, immatricolazione, libri, cd, materiale scolastico e universitario, prodotti necessari per i figli – dagli indumenti agli alimenti, dai passeggini alle culle, dall’occorrente sportivo a quello per le gite scolastiche o per i viaggi di studio – il costo dei ristoranti, delle pizzerie, dei veglioni, delle feste di compleanno, di diploma, di laurea, di matrimonio, battesimo, cresima, venticinquesimo, cinquantesimo; il costo delle sigarette, degli alcolici, dei quotidiani, delle raccomandate, di caramelle, gomme da masticare, bracciali, collane, anelli, orecchini, piercing, tatuaggi, dei funerali, del cimitero, del viaggio di nozze, delle vacanze al mare, in montagna, nelle capitali italiane ed europee, degli avvocati, dei commercialisti, dei notai, del parrucchiere, della babysitter, di Fido, Miao, Nemo, Tarta e Ruga.
Insomma, se a tutte queste spese e a molte altre ancora, sulle quali non sto qui a puntualizzare, si aggiunge il costo di ognuno dei miei gnomi operai, si capisce allora il perché di questo fallimento. Sono un Babbo Natale serio e ho sempre voluto che ognuno dei miei dipendenti fosse contrattualmente e fiscalmente in regola. Questo, naturalmente, ha comportato una spesa per ogni singolo operaio maggiore dello stipendio percepito da ognuno a fine mese, perché dovevo pagare loro i contributi, l’assicurazione e tutto il resto. E tutto ciò, alla luce delle progressive spese elencate e della rivoluzione accaduta da quando è apparsa quella vecchia, come la chiamano, ah sì, Befana, ha comportato il crollo della mia azienda. Da quando c’è questa Befana, la mia azienda ha perso mercato in modo vertiginoso. Secondo quanto mi hanno spiegato, questa Befana riesce ad abbattere i costi di produzione di ogni regalo, perché ha esportato le sue aziende all’estero, dove la qualità della vita è molto inferiore rispetto a quella della Lapponia, quindi dove non soltanto la merce costa molto di meno ma perfino gli stipendi degli stessi operai sono molto più bassi. Per non parlare poi delle aziende che Lei ha lasciato proprio qui in Lapponia, le quali per abbattere i costi fanno produrre i loro regali da altre aziende costituite da dipendenti che lavorano in nero. Per farla breve, dal momento in cui è apparsa la Befana, la mia azienda non è riuscita più a sopportare i costi e le spese. Di anno in anno ho dovuto licenziare sempre più operai, chiudere stabilimenti ma non è servito a nulla. La mia azienda ha contratto tanti di quei debiti con i fornitori, gli assicuratori e i banchieri da vedersi costretta a chiudere i battenti.
Mi spiace Bambini che la nostra storia di incontri, regali e sorrisi debba finire in questo modo. Da quest’anno il Natale non sarà più lo stesso, voi non sarete più gli stessi io non sarò più lo stesso. Con il fallimento della mia azienda ho perso tutto quel che avevo, persino le renne, ho perso anche il diritto di avere un mio nome, il mio nome. Vi chiedo nuovamente scusa se le cose sono andate in questo modo, ma non c’è stato nient’altro da fare. So di non essere nelle giuste condizioni per farlo, ma vorrei chiedervi un favore, anzi due. Il primo: quando non troverete nulla sotto l’albero, non comprate i prodotti di quella strega, quella Befana; non fosse stato per lei, forse oggi la mia azienda sarebbe ancora all’in piedi. Il secondo: donate, scambiatevi lo stesso dei doni, quelli cioè che non possono essere comperati e sapete a cosa mi riferisco: l’amore, l’amicizia, il rispetto, la tolleranza, la cura, insomma il tempo per gli altri. Forse in questa maniera il Natale non scomparirà mai, anzi sarà veramente, per la prima volta, Natale ed io non potrò tenermi il mio nome.
Vi voglio tanto bene, il vostro

Babbo Natale.

24/12/2011
Korvatunturi, Lapponia.

PS: Peccato non esistano davvero Babbo Natale e la sua azienda. Se così fosse stato, il fallimento della sua azienda forse avrebbe pensare e capire che la crisi economica, oltre che essere una macchinazione bancaria internazionale, dipende anche dall’estrema condotta consumistica che ci qualifica, anzi s-qualifica, dalla culla alla bara. Malgrado Babbo Natale e la sua azienda non esistano, l’azienda Italia, Europa, mondo globalizzato vivono veramente la situazione drammatica raccontata in questa lettera la quale, in questa prospettiva, merita di essere letta da capo.

giovedì 22 dicembre 2011

L'arte periferica: intervista a Raffaele Facciolà

- di Saso Bellantone
Nato a Reggio Calabria, Raffaele Facciolà studia tecnica vocale e repertorio con il maestro Gaetano Tirotta e nel 2006 si diploma in canto presso il Conservatorio “F. Cilea” di Reggio Calabria con il massimo dei voti. Nel 2002 segue il corso di perfezionamento “Crotone in Musica” indetto dall’associazione ACAM. Con l’Associazione “Nuovo Laboratorio Lirico” debutta nel 2003 con il “Don Giovanni” di Mozart nel ruolo di Masetto, durante il “Terzo festival dell’Opera Giocosa”. È stato anche Il Conte nella “Nina ossia la Pazza per Amore” di G. Paisiello e Don Chilone in “Erighetta e Don Chilone” di L. Vinci. Nel frattempo svolge intensa attività concertistica sia sacra che profana. Nell’aprile 2006 riceve il primo premio al concorso Nazionale “Campi Flegrei” di Pozzuoli (Napoli). Nel marzo 2007 vince il ruolo di Nardo del “Filosofo di Campagna” presso il medesimo concorso. Nel settembre 2007 viene selezionato dall’“Accademia Lirica Toscana” per ricoprire il ruolo di Don Perizonio nell’“Impresario in Angustie” di Cimarosa per i teatri di Cortona e Anghiari. Nello stesso mese segue un corso di perfezionamento di tecnica vocale e repertorio con il M° Michael Aspinall. Nel 2008 ,sotto la direzione del M° Marc Andrè, è Norton nella “Cambiale di Matrimonio” per il Teatro di Chiasso. Ad aprile 2009 è stato Don Magnifico nella “Cenerentola” di Rossini per il Teatro Borgatti di Cento (FE). Nel febbraio 2011 è stato Uberto nella “Serva padrona” per i Pomeriggi Musicali di Milano. A settembre è stato interprete principale dell'opera contemporanea, in prima rappresentazione assoluta, “La Baronessa di Carini” del M° Antonino Fortunato a Palermo e al Teatro Bellini di Catania. Presso il Teatro Vittorio Emanuele di Messina ha interpretato il ruolo di Don Parmenione nella farsa Rossiniana “L’Occasione fa il Ladro”. Attualmente vive a Scilla.

Come ti sei avvicinato al Canto Lirico?
Quando sia esattamente nata in me la passione per la musica e il melodramma non posso dirlo con precisione. Quello che posso dire è che a 11 anni, mentre tutti i miei coetanei ascoltavano musica rock e pop, io mi emozionavo ascoltando Pavarotti e le composizioni Verdiane. Mi ha sempre affascinato cantare, non di meno esibirmi e stare in palcoscenico. Feci la mia prima lezione di canto a 12 anni ma il mio percorso da cantante lirico inizia nel 2002, quando cominciai a studiare tecnica vocale con il M° Gaetano Tirotta.

Che cos'è il Canto Lirico?
Il Canto Lirico, o belcanto, è quell’insieme di tecniche vocali, stile e interpretazione personale che ci permette di esprimere la vocalità cantata nell’ambito del melodramma o, in maniera più ampia, della tradizione musicale Europea dal ‘500 ad oggi. Forse quest’ultima definizione è un po’ troppo tecnica ma ha il pregio di essere sintetica e abbastanza esauriente. Per dirla in altre parole il “vero” Cantante Lirico utilizza le sue qualità vocali naturali, incanalate nella tecnica del belcanto, per esprimere ciò che l’autore di un brano vuole esprimere. Con lo studio del Canto la voce “parlata” sublima in una dimensione super-umana per diventare strumento e mezzo d’espressione per eccellenza. Non dimentichiamoci che il vero primo strumento musicale, e non solo, è la voce. Ci sarebbe da discuterne all’infinito ma preferisco fermarmi per ovvie ragioni di spazio.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi del Canto Lirico, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Vorrei rispondere con una frase che troneggia sul frontone del bellissimo teatro Massimo di Palermo: “L'arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l'avvenire” questo dice già tutto. Il belcanto, inserito nel suo contesto musicale insieme al melodramma e alla musica classica, ha lo scopo di di suscitare nello spettatore quella famosa catarsi estetica che induce gli spettatori tutti a sentirsi parte di un qualcosa di più grande che tutti li riunisce e li accomuna, questo è il senso della Musica. La musica Classica, e quindi anche il canto lirico, opera tutto questo all’interno di quello che a me piace chiamare L’Arte dei Suoni. Anche qui il discorso sarebbe ben lungo ma per spiegarmi posso dire che la musica classica, al contrario della musica popolare, trova la sua forza nelle forme musicali che si sono susseguite nei secoli e nella prassi con la quale gli strumenti, compresa la voce, vengono suonati e concertati. Tutto questo ha uno scopo: l’armonia dei suoni e degli intenti.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire le tue performance delle opere d'arte, delle creazioni nel senso pieno del termine?
L’esempio del poeta che crea mondi è molto pertinente nel mio caso. Quando si parla di melodramma lo si associa immediatamente al compositore/autore delle musiche dimenticandosi puntualmente di chi ha creato le parole che gli artisti cantano. I cosiddetti librettisti erano poeti (più o meno valenti) che facevano i salti mortali per riadattare testi teatrali e non, dei generi più disparati, alle esigenze dei compositori e dei cantanti. Trasformavano tutto in poesia che poi veniva musicata. In sostanza il Cantante Lirico è colui che rende vita ai versi e alla musica di altri. C’è chi potrebbe vedere in noi dei meri esecutori ma vi posso assicurare che mediare gli intenti degli autori e nel contempo esprimere ciò che c’è da proporre al pubblico non è affatto un compito da semplici esecutori. Per usare una metafora da sala cinematografica: se il regista e gli autori creano il film, l’addetto alla proiezione decide quando e come proiettarlo, noi siamo la Lampada che da luce alla pellicola e rende possibile la magia.

Perché canti? Perché senti l’esigenza di comunicare mediante il canto lirico?
Non credo che questa sia una di quelle cose per le quali esista un perché. È un bisogno, una necessità innata. Come il grattarsi una puntura di zanzara.

Che cosa raccontano le opere nelle quali hai modo di esibirti?
I soggetti sono svariati per non parlare delle ambientazioni. Si va dai miti greci e nordici, passando per ambientazioni di tutte le ere, fino ad arrivare a quelle contemporanee o addirittura favolistiche. Quello che però non manca mai è il conflitto, sia esso tra i vari personaggi che interno a ciascuno di essi. Il teatro in musica è innanzi tutto semplice teatro che vive dello squilibrio che alberga in ciascuno di noi. Le Opere Liriche raccontano di odio, onore, tranelli e fraintendimenti ma soprattutto d’amore. Questo non manca quasi mai ed è il motore drammatico nella maggior parte dei casi.

Un artista (un cantante d’opera) può sentirsi tale senza i pubblici (gli ascoltatori)?
Assolutamente no. La saggezza popolare in questa risposta mi viene in aiuto con il detto: tu te la canti e tu te la suoni.

Che cosa significa oggi vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Il lavoro del Cantante d’Opera non si discosta molto da quello di qualsiasi altro libero professionista. Siamo soggetti alle richiesta del mercato e dunque la situazione cambia notevolmente rispetto al territorio nel quale si opera. Quello che però fa davvero la differenza è il valore che si dà agli artisti. Purtroppo il nostro territorio non è solo depresso sul piano economico ma ancora di più su quello culturale. L’arte in generale è vista come un’attività marginale della società. La musica classica, rilegata al ruolo di semplice svago, spesso viene equiparata a forme musicali con le quali non ha niente a che fare. Così anche il ruolo del musicista che opera in questo campo perde di dignità ed insieme a questa anche il posto che gli spetterebbe nella comunità.

Cosa ti spinge a restare nel Sud?
Non c’è nulla che mi spinge a restare o a partire fuorché la musica. Per il momento mi trovo qui, domani potrei trovarmi da tutt’altra parte. L’importante è che, ovunque vada, non manchi mai la musica.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Poter vivere del mestiere che amo e che so fare. Sarà un sogno misero ma se si avverasse mi sentirei il più fortunato tra gli uomini.

Chi desidera seguirti e saperne maggiormente su di te, dove può rivolgersi?
Il mio indirizzo e-mail è raffaele.fac@gmail.com .

Alcune parole per i giovani.
Non vivete la musica come spettatori ascoltando quello che altri hanno scelto per voi. Siate curiosi di conoscere le delicatezze e la travolgente passione che vi può offrire la musica “colta”. Coltivate l’amore per il bello che la mente umana può partorire e non ne sarete mai sazi.

domenica 18 dicembre 2011

Il problema degli eventi culturali nella civiltà planetaria

- di Saso Bellantone
Tra i concetti di civiltà e di cultura vi è una stretta connessione (http://disoblio.blogspot.com/2011/04/dalle-antiche-civilta-alla-civilta.html). Un gruppo di individui può intendersi una civiltà quando sviluppa e condivide storicamente un insieme di elementi: linguaggi, leggi, ordinamenti, culti, miti, saperi, arti, scienze, tecniche, usi, costumi, tradizioni. Lo stesso gruppo può dire di avere una propria cultura non soltanto perché si riconosce come una civiltà mediante l’insieme degli elementi appena elencati, ma quando da questi ultimi ricava un’interpretazione generale della vita. In questo senso, ogni civiltà è una cultura, ogni cultura è una civiltà.
Nel corso dei secoli, molte civiltà, dunque molte culture, sono scomparse e quelle attualmente irriducibili sono pronte a svanire, a causa della globalizzazione. Questo fenomeno coinvolge infatti la totalità degli individui abitanti il pianeta Terra, organizzandoli alla maniera di un’unica civiltà – appunto, planetaria – contrassegnata da medesimi linguaggi, leggi, ordinamenti, culti, miti, saperi, arti, scienze, tecniche, usi, costumi, tradizioni, insomma da una medesima cultura (interpretazione della vita): il capitalismo.
Il capitalismo è quel modo di pensare che, interpretando la vita alla maniera del lavoro, della merce, del denaro, spersonalizza l’esistente e il mondo delle relazioni umane. È il linguaggio che si parla, la legge che si rispetta, il dio che si venera, il sapere che si possiede, le arti, le scienze e le tecniche che si praticano, gli usi, i costumi e le tradizioni che si consolidano giorno per giorno. È quella forma di pensiero che aggredisce il pianeta e che costringe la totalità degli individui a ragionare nel medesimo modo, ossia a calcolare e a capitalizzare. In altre parole ad accumulare merci, beni, ricchezze – e prestigio – da investire per tesaurizzare in seguito altre merci, beni, ricchezze da investire nuovamente dopo e così via, senza fermarsi mai. Portato alle estreme conseguenze, il capitalismo riconduce le merci, i beni, le ricchezze della totalità degli individui – in una parola, la vita di tutti – nelle mani di pochissimi, ognuno dei quali le impiega per lottare “economicamente” con gli altri pochissimi, allo scopo di ottenere il potere: il dominio del pianeta e del genere umano. Pur coinvolgendo la totalità degli individui, il capitalismo si manifesta come una cultura nelle mani di questi pochissimi possidenti, ricchi, multimilionari, potenti – appunto detti “capitalisti” – i quali sono di già, o lo saranno presto, i signori della Terra. Cioè, i signori della civiltà planetaria.
Se lo scenario nel quale viviamo è quello appena descritto, tutto diventa problematico, perché qualsiasi ente e avvenimento non fa che riverberare la cultura, l’interpretazione della vita, il pensiero prevalente la civiltà planetaria: il capitalismo. Questa sorte spetta anche agli eventi culturali. Nel panorama tracciato, l’espressione “evento culturale” avrebbe il senso di un accadimento che si dà nel modo della cultura dominante e che in quest’ultima trova il proprio scopo: il capitalismo. Quell’espressione, quindi, significa né più né meno un “evento capitalistico”, una circostanza nella quale quel che accade non è altro che il capitalismo stesso, ossia tesaurizzazione e investimento senza sosta di merci, beni, ricchezze e prestigio che spersonalizza l’esistente, violenta il pianeta e accresce il potere dei signori della Terra. Se un evento culturale non è altro che un evento capitalistico, che senso ha allora parlare ancora di eventi culturali? Perché si continua a organizzarli e a parteciparvi? A che pro un individuo, o un gruppo, li programma e/o vi prende parte? Nel contesto globalizzato, globalizzante, planetario, capitalistico, gli eventi culturali sono diventati un problema, o meglio, un riflesso del problema dei problemi dell’umano contemporaneo, vale a dire la sua cultura, la sua interpretazione della vita, il suo modo di pensare: il capitalismo. Quanti ne sono consapevoli? È possibile che qualcuno non sia al corrente del fatto che, nell’organizzare e/o nel partecipare a un evento culturale, di fatto, pianifica e aderisce a un evento capitalistico? E se ne fosse cosciente? Perché progettare e/o intervenire a un evento apparentemente culturale ma sostanzialmente capitalistico? È possibile che si continui a usare l’espressione “evento culturale” proprio perché si vuole contrapporre al capitalismo qualcosa che capitalismo non è? Se così fosse, l’espressione “evento culturale” soddisfa tale intenzione? Che cosa significa “evento culturale”?
Il termine “evento” indica un avvenimento – di qualsiasi tipologia, quindi fisico, astrofisico, chimico, giuridico, religioso, politico e via dicendo – che rompe la routine introducendo una novità. Facciamo degli esempi: evento è il cadere e il conseguente frantumarsi, all’interno di una camera vuota, di una lampadina, staccatasi improvvisamente dal lampadario; evento è il sopraggiungere di un’idea mai pensata; evento è il passaggio di una stella mai vista, la scoperta di una cura farmacologica, l’approvazione di una legge, l’assistere a un miracolo o la creazione di una Carta Costituzionale. Evento è l’accadere del nuovo in un preciso spazio-tempo ma è tale soltanto se c’è un osservatore (soggetto) che si accorge di esso. Se non ci fosse, non sarebbe un evento né si potrebbe parlarne al riguardo. Un evento è un avvenimento nuovo per un soggetto (almeno) o per una comunità. Per esempio: morire non è evento per colui che muore ma lo è per gli altri che assistono o giungono a conoscenza della sua morte. Quindi, “evento” è l’accadere del nuovo per un soggetto o per una comunità.
Da “cultura”, il termine “culturale” indica il modo dell’accadere di un dato fenomeno riguardante una civiltà, la quale si riconosce come tale mediante un insieme di attività intellettuali e pratiche, dalle quali trae e condivide una medesima interpretazione della vita (vedi sopra).
Un “evento” può dirsi “culturale” quando chiama in causa, mediante una, alcune o l’intero insieme di attività proprie di una civiltà, l’interpretazione della vita di quest’ultima, introducendo una novità. Nell’era della civiltà planetaria avente una medesima cultura/interpretazione della vita, il capitalismo, non è possibile parlare di “evento culturale” proprio perché in tali circostanze non si assiste ad alcuna novità. Nel corso di ogni evento culturale si fa esperienza non del nuovo bensì del solito, dell’abituale, del noto, vale a dire la riduzione della totalità degli enti a merce, bene, ricchezza da tesaurizzare e investire continuamente; la spersonalizzazione dell’esistente; l’abuso del pianeta; l’assicurazione del potere dei signori della Terra. Si esperisce, ogni volta, il capitalismo stesso, la sua logica. Per questo motivo è preferibile parlare di “evento capitalistico” e non di “evento culturale”. Ciò nonostante, si continua a impiegare quest’ultima espressione, organizzando e partecipando a eventi culturali. Perché? Sembra che l’essere umano non riesca a farne a meno. Quale bisogno lo spinge a impiegare quell’espressione e a organizzare e a partecipare agli eventi culturali? A ben vedere, due diversi tipi di bisogno: l’uno capitalistico, l’altro anti-capitalistico.
Consci che il marchio dominante la nostra era è il capitalismo, alcuni organizzano e/o partecipano a eventi culturali per il bisogno di tesaurizzare e investire merci, beni, ricchezze, prestigio, insomma per il bisogno del potere; altri perché sono mossi da un bisogno estraneo al capitalismo. Mentre i primi intendono il termine “culturale” come un sinonimo di “capitalistico”, i secondi invece lo considerano come qualcosa di radicalmente diverso. Associandolo infatti ai saperi, alle arti, alle scienze, insomma alla “conoscenza” – erroneamente, in quanto “cultura”, nella nostra società planetaria, è il capitalismo stesso – questi ultimi organizzano e partecipano a eventi culturali perché credono, nel corso di queste circostanze, di trovarsi in una regione “altra dal capitalismo”, nella quale cioè il capitalismo non c’è più, non è più. Di quale regione si tratta?
Se il capitalismo è la cultura dominante la civiltà planetaria, allora questa regione “altra dal capitalismo” è un luogo nel quale la cultura dominante e la civiltà che ne scaturisce, quella planetaria, non trovano asilo. Si tratta di uno spazio insomma nel quale l’interpretazione della vita e la forma d’organizzazione della totalità degli individui legate al capitalismo non hanno più alloggio e nel quale, invece, possono trovare dimora “altre” interpretazioni della vita, “altre” forme d’organizzazione della totalità degli individui, in breve una “altra” cultura e civiltà. Chi organizza e partecipa a un evento culturale per questo motivo e secondo questa prospettiva, non lo considera dunque un “evento capitalistico” ma un “evento altro dal capitalismo”, nel quale cioè possono accadere una cultura e una civiltà, dunque un’interpretazione della vita e una forma d’organizzazione della totalità degli individui, “altri” dal capitalismo, al di fuori di esso, estranei a esso. In questo senso, tale “evento altro del capitalismo” non può che essere un “evento del pensiero”.
Nell’era del capitalismo e della civiltà planetaria, un evento culturale può essere considerato un “evento” soltanto quando introduce qualcosa di nuovo rispetto al capitalismo. Che altro, se non il pensiero, può essere inteso una novità nello scenario capitalistico in atto? All’interno del capitalismo, infatti, non esiste pensiero ma soltanto calcolo, il quale si manifesta nel modo del tesaurizzare e dell’investire senza sosta beni, merci, ricchezze e prestigio allo scopo del potere. Nel capitalismo non c’è tempo per il pensiero, soltanto per il calcolo. Un evento culturale, quindi, può essere veramente un “evento” soltanto se strappa il tempo al calcolo per offrirlo gratuitamente al pensiero. Quando un evento culturale avviene alla maniera di un evento del pensiero, che cosa, di fatto, si pensa? Un’altra cultura, un’altra civiltà, un’altra interpretazione della vita, un’altra forma di organizzazione della totalità degli individui. In altre parole, un modo di pensare e di abitare il mondo diversi, alternativi a quelli capitalistici. Nel corso di un evento culturale, cioè di un evento del pensiero, si affronta la questione del capitalismo, ma tale problema non è altro se non la questione stessa del pensiero: che cosa significa pensare, nell’era del capitalismo? La risposta, forse, consiste proprio in quel che accade quando, durante un evento culturale, il termine “calcolo”, inteso nel senso di tesaurizzare e investire allo scopo del potere, è lasciato all’abbandono e quel che si esperisce è tutt’altro che il capitalismo.

mercoledì 7 dicembre 2011

Pensieri visivi: LA PERSISTENZA DELLA MEMORIA di Salvador Dalì

- di Saso Bellantone
Orologi. Tre orologi deformi e uno consunto dalle formiche. Due si trovano su un solido geometrico, sul quale si regge a stento un albero morto; uno è appeso sul ramo dell’albero avvizzito; e l’altro è sul volto di un uomo addormentato sulla sabbia di una baia irreale. I solidi, alcuni monti lontani e la luce abbagliante di un sole che non si vede, nella quale si confondono cielo e mare, delimitano l’insenatura. La persistenza della memoria (1931) di Salvador Dalì parla del tempo. Più esattamente, di due tempi: cronologico e mnemonico-onirico. Il primo, è il tempo quantificabile e misurabile, è la convenzione mediante la quale l’essere umano regola la propria esistenza assieme agli altri e attribuisce senso agli avvenimenti. Il secondo, invece, è un tempo incalcolabile e indipendente dalla volontà umana, nel quale sorgono spontaneamente ricordi e sogni.
Queste due tipologie di tempo rappresentano due livelli della realtà completamente differenti tra loro: il conscio e l’inconscio, il convenzionale e il repentino, l’esterno e l’interno, il sensibile e lo psichico.
Cristallizzando e offrendo all’osservatore una visione trasfigurata, assurda, irreale, dunque appartenente alla tipologia di realtà connessa al tempo mnemonico-onirico, nella quale, per contrasto, si pronuncia anche sulla tipologia di realtà legata al tempo cronologico, La persistenza della memoria pone un interrogativo: quale, tra le due, è la realtà? Quale il vero tempo?
Il tempo cronologico mostra una realtà quella fuggevole, transitoria, che passa, nella quale tutto ciò che nasce dirige alla propria fine e niente può tornare indietro. Il tempo mnemonico-onirico invece manifesta una realtà improvvisa, eterna, continua, dove, malgrado la volontà umana, tutto permane e si può persino tornare indietro. Può forse quest’ultima realtà essere quella vera? Può forse conservarsi quando il tempo della vita umana, o di una sola vita umana, è scaduto, è passato, è finito? Chissà se la risposta a questo quesito consiste nella luce abbagliante dell’opera, nella quale cielo e mare si confondono. Che cosa c’è oltre? Un sole, o qualcos’altro? Non è possibile vedere né capire, perché quella luce è così splendente da rendere ciechi. Allora, non resta altro che chiudere gli occhi o dormire, per sperimentare il tempo mnemonico-onirico e la realtà che in esso emerge e continuare a porsi l’interrogativo.

martedì 6 dicembre 2011

NATALE: in arrivo il Cazzoneriococco

- di Saso Bellantone
Si avvicina il Natale ed ecco che il balordo show dei regali torna alla ribalta, manifestando nella sua pienezza la natura paradossale e stupida degli esseri che ritengono di essere il centro del mondo. “Umani”, così si fanno chiamare. Secondo un’antica radice indoeuropea, homo è colui “colui che misura”, cioè colui che è dotato del giudizio e, per questo motivo, è capace di stabilire il senso delle cose. Ma siamo sicuri che sia così? Per tutto l’anno, questi umani si lamentano della crisi, del capitalismo, dell’aumento delle tasse e dei prezzi di qualsiasi bene, di non arrivare a fine mese, dei politici, dell’assenza di servizi, dei cani che hanno cagato sull’uscio di casa e poi, come per magia, durante il regno innevato e iperilluminato del vecchio Santa Claus, PUFF!, ecco che dimenticano tutto. Come spiegare questa amnesia?
Pare sia causata da un’infezione virale, provocata dal Bacillus cazzonerìus, meglio conosciuto come Cazzoneriococco o Istupidococco, che ogni anno puntualmente – incredibile, le case farmaceutiche non ne sanno nulla! – colpisce le cellule cerebrali dell’intero genere umano, rallentandone i processi chimici quasi fino ad azzerarli, e lo ammorba, rendendolo la tipologia vivente più ottusa del pianeta Terra. Infettati da questa malattia congenita, questi chiacchieroni, indiavolati per tutto l’anno persino contro l’immagine che lo specchio del bagno riflette loro ogni mattina, questi umani diventano silenziosi, sorridenti, previdenti e miracolosi angeli che, con falso buonismo, volano di vetrina in vetrina per annunciare la lieta novella a chiunque: il regalo.
Sì, è scritto bene, la lieta novella è il regalo, non la nascita del Messia nel quale fanno finta di credere, recandosi a messa soltanto la notte di Natale. La notizia felice è il regalo, i regali da fare a tutti: alla moglie o alla fidanzata, ai figli o ai nipotini, ai genitori o ai nonni, agli zii o ai vicini di casa, agli amici o ai colleghi, ai conoscenti o agli estranei, al cane, al gatto, al pesce nell’acquario, al topo di fogna, alla blatta sotto il lavello, alle formiche nella dispensa, all’amico immaginario. “Più ne fai più ne ricevi. E se non ne ricevi, non importa. Bisogna regalare comunque per apparire benestanti, in salute, felici, sicuri, senza problema alcuno”. Così si ragiona. E allora ecco che le lamentele di un anno intero vanno a farsi fottere, la crisi, la povertà, lo stipendio o la pensione che non c’è, le tasse, i debiti, la banca del sangue o del seme… tutto va a farsi fottere. Si aprono nuovi mutui, ci si indebita maggiormente e si spende, si spende, si spende fino all’ultimo centesimo per regalare e apparire, per apparire e regalare, per poi tornare a indiavolarsi nuovamente, dopo la notte del primo della classe degli ammorbati – altro che Capodanno! – e a lamentarsi sino al Natale successivo perché il mondo va a rotoli.
L’amnesia natalizia causata dal Cazzoneriococco dimostra dunque che gli esseri non hanno il diritto di denominarsi “coloro che misurano”, coloro cioè che stabiliscono il senso delle cose. Per comprovare invece di avere tale diritto, basterebbe poco, e cioè impedire il sorgere di questa patologia: evitare di infettarsi. Come? Rimanendo indiavolati anche nel Natale, sottraendosi alle lunghissime file innanzi ai negozi e ai cenoni interminabili (durante i quali il più di quel che si cucina finisce nell’immondizia), mettendo da parte la tredicesima per i tempi infausti che arriveranno – e arriveranno, statene certi –, smettere di sentirsi obbligati a fare i regali, dimenticare proprio l’idea del regalo.
La logica del regalo non è altro che una delle abitudini, di pensiero e di condotta, con le quali i potenti stabiliscono il proprio dominio su tutti gli altri, con le quali pochissimi capitalisti statuiscono la propria signoria su una gigantesca moltitudine di schiavi, su di noi. Lasciandosi colpire dalla pestilenza del regalo, ci si impoverisce ulteriormente, nelle tasche e nell’animo. Si peggiora la propria situazione economica, si frantuma il mondo delle relazioni che si ha con gli altri, specie con i propri cari, contribuendo a cancellarlo una volta per tutte.
Invece di godere di un attimo di gioia nel dare o ricevere un regalo, per poi ritrovarsi, nell’attimo successivo, soli, infelici, inutili a causa della logica del regalo, questo Natale è preferibile orientarsi secondo l’idea del dono, la quale non impoverisce economicamente né spiritualmente, e manda in frantumi il potere di pochi su molti. Il dono è infatti qualcosa che non può essere acquistato con i soldi né con le carte di credito, non si può mai possedere e, paradossalmente, si può soltanto “donare” ad altri, rafforzando il mondo delle relazioni che si ha con gli altri. Che cosa, allora, è possibile donare ad altri? In una parola, il tempo, il quale si frammenta in altri doni specifici, come per esempio, il dialogo, l’ascolto, la comprensione, la cura, la compagnia, la visita e tanti altri ancora.
In questa maniera, si resta immuni alla malattia natalizia causata del Cazzoneriococco (la stupidità) e si ha davvero il diritto di denominarsi “umani”, ossia coloro che stabiliscono il senso delle cose. Tutto ciò perché il dono è principalmente un qualcosa che, prima di essere donato ad altri, è donato a se stessi. Che cosa? Ciò che consente veramente di stabilire il senso delle cose. In breve, il pensiero, la facoltà di pensare.

sabato 3 dicembre 2011

DISSESTO IDROGEOLOGICO: intervista al geologo Rocco Dominici

- di Saso Bellantone
In seguito alle recenti catastrofi avvenute nel genovese e nel messinese a causa del maltempo, e alle continue frane che si verificano lungo la SS 18, nel tratto Bagnara-Favazzina – l’ultima risale all’11 novembre – si è deciso di incontrare Rocco Dominici – Geologo, Ricercatore presso il dipartimento Scienze della Terra dell’Università della Calabria, Docente del corso di laurea in Scienze Geologiche: Corso di Sedimentologia e Dinamica dei Litorali, Tettonica e Tettonica Regionale – e di porgergli alcune domande per capire un po’ di più quel che sta accadendo al nostro clima e al nostro territorio, parlando di dissesto idrogeologico.

Da anni ormai, nella nostra provincia, si parla senza tregua di dissesto idrogeologico e si abusa a tal punto di questa definizione, che se chiedessimo alla gente di spiegarcela, pochissimi saprebbero farlo. Cominciamo sciogliendo i primi dubbi al riguardo: che cosa si intende per “dissesto idrogeologico”?
Il dissesto idrogeologico rappresenta la manifestazione di un disequilibrio del territorio in cui le cause idro-geologiche rappresentano solo 2 delle componenti “normali” del processo. A queste componenti se ne aggiunge almeno un’altra “normale”, di fondamentale importanza nella comprensione del dissesto idrogeologico, rappresentata dalla tettonica, in cui i terremoti ed il sollevamento continuo della Costa Viola, con valori che hanno raggiunto 1 cm/anno, sono la manifestazione più evidente, e che spiegano per altro il perché nelle grotte di Tremusa (Melia) troviamo delle conchiglie fossili. Altri fattori sono il clima e la vegetazione che controlla i processi di alterazione delle rocce e dei terreni.
Sulla base di questi elementi il “dissesto idrogeologico”, inteso come disequilibrio, può e rappresenta un processo naturale in cui oggi l’uomo e le sue attività e necessità, non sempre eco-geo-sostenibili, rappresentano la causa d’innesco del dissesto idrogeologico e spesso il principale fattore di controllo. In tali condizioni il dissesto idrogeologico si sviluppa sempre di più in aree densamente popolate ed urbanizzate, determinando condizioni di rischio per insediamenti, infrastrutture, attività sul territorio ed assumendo di conseguenza una grande rilevanza sociale e economica.

Che cos’è una frana? Che cosa è un’alluvione?
Perché e in quale maniera si verificano le frane e le alluvioni? In quali casi avvengono assieme?
Le frane e le alluvioni sono fenomeni esclusivamente naturali oppure possono essere causati, consapevolmente o inconsapevolmente, dagli esseri umani?
Quando il suolo terrestre può essere considerato a rischio?
Frane ed alluvioni come anche i terremoti sono la manifestazione di un pianeta che vive ed evolve in funzione di fattori naturali purtroppo sempre più collegati in modo diretto ed indiretto all’uomo.
Tra questi l’esempio delle variazioni climatiche rappresentano uno di quei fenomeni in cui ancora oggi gli esperti discutono su qual è il peso dell’uomo, in quanto è sicuramente vero che lo “stress” antropico sul pianeta non ha mai raggiunto questo livello per cui una causa è sicuramente anche l’uomo, ma è altrettanto vero che sul nostro pianeta, nel corso della sua storia, sono state registrate variazioni climatiche anche quando l’uomo non era all’apice della vita.
Le frane rappresentano un movimento di una massa di rocce e terreni guidata dalla forza di gravità lungo un versante acclive o una scarpata, mentre l’alluvione è data dall’inondazione di acque e sedimenti provenienti da un’ampia area (bacino idrografico che per la Fiumara Sfalassà misura 25km2) su un’area ben definita, che prende il nome di piana alluvionale o conoide alluvionale.
I fattori che causano, controllano e favoriscono frane e alluvioni sono molteplici. Alcuni di questi li possiamo definire “normali” come le caratteristiche dei terreni e delle rocce, il clima ed in particolare le piogge, la morfologia, i terremoti.
L’uomo e le sue attività rappresentano un fattore “unico” perché agisce in molteplici modi innescando una frana o un’alluvione, oppure favorendone le condizioni al contorno (di preparazione) anche in aree ed in tempi in cui l’evento è poco probabile, ma soprattutto perché rappresenta il fattore di controllo del RISCHIO.
Con il termine di Rischio si intende la probabilità di perdite in termini economici e di vite umane in conseguenza di una definita tipologia di evento franoso o di un’alluvione. Per capirci, se abbiamo un’alluvione o una frana in un’area desertica il rischio è ZERO in quanto la perdita di vite umane e/o danni è nulla.
L’uomo, ed in particolare l’ampliamento delle aree antropizzate, si sviluppa in modo continuo e rapido determinando la presenza di vite umane e di strutture (case, strade, industrie ecc.) in aree in cui si verificano frane, alluvioni e terremoti in modo discontinuo e con tempi relativamente lunghi (da alcuni anni a centinaia o migliaia). Da qui nasce il dissesto idrogeologico come condizione di rischio per l’uomo e le sue attività, in quanto l’uomo dimentica di valutare attentamente tutti i fattori “normali” che controllano l’equilibrio idrogeologico dei luoghi.
La valutazione degli scenari di rischio rappresenta la soluzione tecnica alla mitigazione del rischio idrogeologico, in quanto consta di uno studio multidisciplinare (geologi, naturalisti, biologi, ingegneri, architetti, sociologi, economisti, ecc.) finalizzato alla ricostruzione delle condizioni di rischio a breve e lunga scadenza su un’area antropizzata effettiva o potenziale.
I Piani di Coordinamento Territoriale Regionale e Provinciale, i Piani Strutturali Comunali, I Piani Spiaggia, i Piani di Lottizzazione, sono gli strumenti per la corretta definizione degli Scenari di Sviluppo che presuppongono anche la Valutazione del Rischio Idrogeologico.
La predisposizione e l’utilizzo di tali strumenti, obbligatori per legge – che è spesso difficile per mancanza di multidisciplinarità, di lungaggini politico-ammnistrative, di inadeguate risorse finanziare, ecc. – non rappresenta mai la negazione di costruzione di una strada o di una casa ma semplicemente definisce i metodi con cui va costruita e le aree in cui è possibile farlo.
Gli studi scientifici e tecnici oggi hanno individuato sempre più dettagliatamente le aree di rischio e nuove e più efficaci metodologie di mitigazione del rischio, offrendo alla società civile la possibilità di intervenire.

Il territorio della provincia di Reggio Calabria, e nello specifico quello della Costa Viola, è a rischio?
La provincia di Reggio Calabria rappresenta un territorio complesso dal punto di vista geologico, morfologico, ecologico, con peculiarità urbanistiche e storiche che ne determinano un fascino che attrae migliaia di studiosi.
Gli studi scientifici condotti nell’ambito di numerosi progetti scientifici nel corso degli ultimi 5 anni, sono una testimonianza dell’importanza che riveste il territorio della Provincia di Reggio Calabria per la comunità scientifica nazionale ed internazionale, e della sensibilità istituzionale della Regione Calabria ed in particolare dell’Autorità di Bacino Regionale.
Nell’ambito della Misura POR Calabria 2000-2006 – Misura 1.4 – Azione 1.4.c. “Studio e sperimentazione di metodologie e tecniche per la mitigazione del rischio idrogeologico” sono stati finanziati 11 progetti. Gli studi eseguiti (tra il 2008-2010) dalle più importanti istituzioni scientifiche nazionali ed internazionali rappresentano un punto di partenza per studi ed interventi di difesa idrogeologica.
Alcuni di questi studi – come ad esempio: Pericolosità delle conoidi alluvionali, Sviluppo e applicazione di metodi per la valutazione della pericolosità dei fenomeni di dissesto dei versanti, Movimenti in massa e attività sismotettonica, Trasporto solido dei corsi d’acqua e interazione tra il trasporto solido litoraneo e fluviale, Mappatura del regime ondoso (Dipartimento Scienze della Terra e Dipartimento Difesa del Suolo dell’Università della Calabria, C.N.R. I.R.P.I., Dipartimento Scienze Geologiche-Università - ROMA3, Dipartimento di Ingegneria e Tecnologie Agro-Forestali – Università Palermo, ENEA; C.N.R.-I.R.P:, -I.S.A.Fo.M., -I.M.A.T.I., ISAC, -IAMC; LCPC-Laboratorie Central des Ponts e Chaussees, Ist.HR Wallingford LTD) – trovano un diretta ricaduta sulle peculiarità territoriali della Costa Viola in cui frane-alluvioni-terremoti e moto-ondoso costituiscono nel loro insieme un unico processo che modella il paesaggio e ne rappresenta la ragione di tanta bellezza.
I centri abitati di Bagnara, Favazzina, Scilla, Villa S.G., Cannitello, si sviluppano all’interno di piane costiere costruite dai sedimenti trasportati dai torrenti che si accumulano all’uscita dalle strette valli vicino alle spiagge, formando delle morfologie con una forma in pianta a cono (conoidi) ed alimentando le spiagge. Le portate liquide dei principali torrenti come lo Sfalassà e il Favazzina sono per gran parte dell’anno di alcune decine di litri/secondo ma possono raggiungere valori di 2-300.000 l /sec in occasione di eventi alluvioni a cui si aggiungono decine di migliaia di mc di detriti.
Le piccole piane costiere sono collegate da ripidi versanti attraversati da canali e valloni (Condoleo, Rustico, Mancusi, Canalello, sono alcuni) con pendenze medie superiori ai 35° costituiti da eterogenei di ammassi rocciosi alterati e fratturati, coperti da un suolo composto da sabbia e limo. L’effetto delle piogge su questi versanti è duplice: da un lato le acque superficiali scorrendo liberamente provocano profonde erosioni lineari e frane; dall’altro aumentano il peso del terreno che tende in modo naturale a spostarsi verso il basso (frana). In queste condizioni il processo può assumere dei connotati peculiari, in cui il terreno in frana si combina con l’acqua formando una miscela che si sposta velocemente (diverse decine di km/h) verso il basso attraverso un flusso di detriti e fango (debris-flow), capace di spazzare via tutto quello che incontra lungo la sua strada (persone, automobili, fabbricati vedi Giampilieri).
Nel territorio della Costa Viola i terrazzamenti assumono la funzione di opera di sostegno del terreno sabbioso-limoso, aumentando la capacità di infiltrazione e quindi di riduzione di ruscellamento superficiale, che rappresenta la principale causa di innesco dei debris-flow.
La combinazione tra caratteristiche degli eventi pluviometrici e l’assetto geomorfologico della Costa Viola definisce una condizione di elevata pericolosità (probabilità che si verifichi un processo franoso) che, a causa dell’urbanizzazione e di interventi idraulici come riduzione delle sezioni dei torrenti e la loro copertura (anche quelli piccoli), si traduce per i centri abitati e lungo le vie di comunicazione in una condizione di Elevato Rischio (perdita di vite umane e danni strutturali).
Ad oggi nonostante i numerosi eventi franosi ed alluvionali degli ultimi 10 anni, che hanno portato più volte alla chiusura della SS18 ed all’isolamento dei centri abitati, non abbiamo mai registrato la perdita di vite umane grazie agli interventi immediati dei Vigili del Fuoco degli enti pubblici, ma in molti casi si è trattato di semplice fortuna.
L’ammodernamento dell’Autostrada, che rappresenta in tutti i sensi la realizzazione di una nuova arteria, costituisce sicuramente un ulteriore elemento di fragilità idrogeologica in un territorio complesso e difficile come la Costa Viola. La realizzazione di un’opera come la nostra autostrada è necessaria ma non può allo stesso tempo diventare causa di ulteriori rischi idrogeologici. Tanto più quando sono presenti in Autostrada le più importanti ditte e tecnici specializzati in lavori di messa in sicurezza, che permetterebbero la messa in opera di opere e di tecniche di monitoraggio per la riduzione del rischio.

Quali contromisure occorre adottare (a breve, a medio e a lungo termine)?
A breve termine l’intervento più importante è sicuramente l’adozione del Piano di Protezione Civile Comunale, tanto più per Bagnara Calabra che rappresenta la sede COM che coordina 8 comuni: COSOLETO, DELIANUOVA, MELICUCCA', SAN PROCOPIO, SANTA CRISTINA D'ASPROMONTE, SANT'EUFEMIA D'ASPROMONTE, SCIDO, SINOPOLI.
Lo svolgimento regolare di esercitazioni di protezione civile con ricorrenza quadrimestrale nelle diverse stagioni ed in funzione dei diversi rischi che sussistono sul nostro territorio, oltre a essere uno strumento di prevenzione e gestione dell’emergenza che riduce enormemente il numero di potenziali vittime, è uno strumento di educazione civica, di coinvolgimento e contatto tra istituzioni Comune, Vigili del Fuoco, Carabinieri, Prefettura e Popolazione.
E’ stata una occasione persa non partecipare all’esercitazione regionale del 27-29 novembre.
Altro elemento fondamentale è l’istituzione della Struttura di Coordinamento a supporto del Sindaco con funzione tecnica di valutazione e pianificazione sin dalle prime fasi dell’allerta (così come definito dal manuale operativo del Piano di protezione civile) ed a seguire del Presidio Operativo Comunale.
La funzione del Comune di Bagnara Calabra come sede di Centro Operativo Misto per il coordinamento di un’area territoriale articolata e difficile, impone di creare e garantire collegamenti e mezzi di comunicazione sicuri.
Lo sviluppo plano-altimetrico del territorio rende necessaria la messa in opera di strumenti di monitoraggio come ad esempio l’impianto di pluviometri ad integrazione del sistema di monitoraggio RFI, che fornisce in tempo reale le quantità di pioggia cadute all’interno dei singoli bacini idrografici che alimentano le nostre fiumare e torrenti e l’evoluzione degli eventi pluviometrici connessi agli allerta meteo.
L’attuazione di queste misure, integrata ad esempio con l’utilizzo degli ufficiali idraulici regionali, permetterebbe l’aggiornamento continuo del Piano di Protezione Civile mediante l’utilizzo di tecnici specialisti in mappatura delle criticità idrogeologiche.
Queste misure non rappresentano semplicemente delle azioni a breve scadenza ma sono interventi urgenti e possibili in pochi giorni o settimane e fornirebbero quei dati su cui sviluppare i progetti di mitigazione di rischio per la richiesta di finanziamenti.
A lunga media-lunga scadenza è necessario produrre progetti di mitigazione di rischio e soprattutto politiche di gestione ed utilizzo del territorio geo-eco-sostenibili.
Come ricercatore ho partecipato a Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN) “Integrazione di tecniche innovative di esplorazione geologica e geofisica a terra e a mare per lo studio dei processi di instabilità gravitativa costiera” ed alla redazione della nuova Carta Geologica dello Stretto di Messina (progetto CARG), che hanno prodotto importanti nuove conoscenze sul territorio emerso e sommerso della Costa Viola.
Come geologo ho prodotto per il Comune di Bagnara Calabra un progetto di fattibilità per interventi di mitigazione di rischio per i bacini idrografici del Canalello e Vardaro ed una richiesta di finanziamento per un totale di circa 10 milioni di euro. Il primo finanziamento di circa 1milione di euro sarà utilizzato per il Vallone Canalello (progetto esecutivo approvato) ma è necessario attivarsi nelle varie sedi per ottenere altri finanziamenti.
Nell’ambito del Piano Straordinario di Difesa del Suolo ho contribuito con decine di sopralluoghi in diversi comuni della Provincia di Crotone, Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria (Bagaladi, Careri, Casignana) ed alla stesura del Piano Difesa delle Coste e del Master Plan per interventi di mitigazione di rischio idrogeologico nel tratto di versante compreso tra Bagnara Calabra e Scilla della Provincia di Reggio Calabria (resp. Ing. Domenico Cuzzola).
Questi documenti tecnici hanno prodotto diversi finanziamenti per interventi di mitigazione di rischio ma oggi vanno aggiornati per sviluppare nuovi ed ulteriori progetti di difesa del suolo alla luce degli Studi e delle Ricerche scientifiche.
Ma la sfida per il futuro, per superare lo stato d’emergenza, necessita l’adozione di sistemi di pianificazione territoriale geo-eco-sostenibili, integrati da politiche agrarie e turistiche che possono portare al ripristino e alla salvaguardia del paesaggio rurale della Costa Viola con la cultura dei boschi, delle erbe officinali, la salvaguardia della macchia mediterranea, la gestione dei Siti di Interesse Comunitari, la coltivazione della vite, il rifacimento e la manutenzione dei muri a secco.
La sfida sembra impossibile, ma oggi riscontriamo una maggiore sensibilità ai problemi del territorio, testimoniata dalle azioni pubbliche degli attuali amministratori come i sindaci di Bagnara e Scilla, della Regione e della Provincia e non per ultima dei cittadini pronti a svolgere il loro ruolo sociale e civico.

venerdì 2 dicembre 2011

Robot-Caproni: l'evoluzione col freno a mano

- di Saso Bellantone
Quando Darwin pubblicò L’origine della specie (1859), contenente la sua teoria evoluzionistica, stabilì una volta per tutte che l’essere umano, da un punto di vista biologico, psichico e comportamentale, non ha nulla di diverso dalle altre specie viventi. Come quest’ultime, anzi, è soggetto alla selezione naturale, vale a dire alla lotta per la sopravvivenza con i suoi simili. La storia dell’umanità, in questo senso, non è altro che una vicenda di contrasti tra tipologie umane, durante la quale sopravvive la specie umana che si adatta meglio all’habitat circostante. Quel che differenzia tuttavia l’essere umano dagli altri esseri viventi è la capacità di creare. Vi sono alcune produzioni esclusivamente umane, come le scienze, le arti, i saperi, le religioni, le tecnologie, sulla base delle quali, prima e dopo Darwin, l’essere umano si è sempre ritenuto superiore agli altri esseri viventi. La storia dell’umanità, dunque, non è soltanto una lotta per la sopravvivenza tra tipologie umane differenti, ma è anche caratterizzata dall’insieme delle produzioni che l’essere umano, popoli e civiltà hanno realizzato nel tempo sino ai nostri giorni. Naturalmente, tali umane invenzioni hanno condizionato l’essere umano nel corso dei secoli, modificando, radicalmente o soltanto in parte, le sue abitudini, le sue condotte, il suo giudizio, le sue necessità, le creazioni nasciture e la stessa lotta per la sopravvivenza. Ma anche lo allontanano sempre più dal regno animale, rendendolo un unicum nel suo genere. La storia dell’umanità può essere intesa, quindi, come la vicenda delle invenzioni che, nell’influenzare l’essere umano, determinano anche la sua evoluzione, cioè la lotta con i suoi simili per la sopravvivenza e lo rendono sempre più una specie vivente unica.
L’habitat umano nel XXI secolo non è altro ormai che un’immensa realtà scientifica, artistica, sapiente, religiosa (ahinoi!) e tecnologica, dominata da un istinto alla creatività che evoca già le invenzioni e le metamorfosi umane future. Per la prima volta, l’essere umano può influenzare egli stesso la sua evoluzione, può decidere dove dirigere. Per farla breve, si comincia a pensare alla colonizzazione di altri pianeti, alla creazione di mondi e al raggiungimento dell’immortalità, fenomeno quest’ultimo che renderebbe l’essere umano altamente lontano dalla sfera animale e quasi simile al vecchio dell’Antico Testamento. Eppure, guardandosi intorno, non sembra di scorgere umani consapevoli del grado evolutivo raggiunto e della prossime trasfigurazioni possibili e optabili. Malgrado si tenda ad accostare sempre più gli umani alle macchine, a causa della tipologia di vita condotta attualmente nel regno della tecnica e dell’economia, a ben vedere, la condizione umana è ridotta ancor peggio. Pare che il dispositivo dell’evoluzione abbia fermato il motore, tolto le chiavi e le abbia gettate in vulcano attivo per liberarsene una volta per tutte.
Dovremmo vivere in un mondo nel quale le scienze, le arti, i saperi, le religioni e le tecnologie siano al servizio di ogni essere umano e della Terra, dalla quale ognuno dipende; un mondo affrancato da problemi, necessità, incertezze, timori, tirannie, guerre, disgrazie e calamità naturali; un mondo nel quale ognuno è felice, soddisfatto, in salute, completo, libero; e invece ci si ritrova nel perfetto opposto. L’essere umano è servo delle scienze, delle arti, dei saperi, delle religioni; sfrutta la Terra, ne abusa e la distrugge per puro godimento misto a follia; è ingabbiato nelle maglie di infiniti problemi, gli occorre sempre qualcosa che non ha, è insicuro, ha paura, è vittima delle decisioni di pochi potenti, del destino e dei disastri naturali; è infelice, insoddisfatto, malato e morente, insufficiente, schiavo. Come spiegare tutto questo? O è un difetto congenito all’essere umano, una trasgressione evolutiva già destinata nei suoi geni, oppure è un progetto realizzato e voluto da pochissimi capitalisti e massoni. Comunque stiano le cose, il panorama che si ha innanzi è peggio che spettrale. Ormai i fantasmi non fanno più paura a nessuno, ma quel che si scorge intorno, è davvero orribile. Non c’è più evoluzione né umanità sulla crosta terrestre: l’orrore, è la civiltà dei Robot-Caproni.
Il mondo ex-umano è abitato da ibridi, metà robot metà capra, i quali passano la vita: a lavorare come macchine, dalla mattina alla sera, per garantirsi il sostentamento vitale; e nell’esiguo tempo restante a belare, a riprodursi, a cagare, a lasciarsi potare la lana, a prendere bastonate, ad obbedire al pastore di turno che li conduce al pascolo o al recinto, a belare più forte quando sono azzannati dai lupi e a dormire, per attendere il giorno successivo di fare le medesime cose assieme al gregge. Che brutta fine hai fatto essere umano! Meno belati, più evoluzione.

L'ESSENZA DELLA GLOBALIZZAZIONE: dentro e fuori Platone (3.2)

- di Saso Bellantone
Come si è visto (3.1), la definizione platonica del termine filosofia come “amore per il sapere” acquista senso unicamente mediante due punti di riferimento, Socrate e la dottrina dei due mondi, senza i quali crolla non soltanto quella definizione ma tutta l’impalcatura platonica. Quel che spinge Platone a concepire la sua determinazione della filosofia e a porsi il problema della conoscenza, non è però l’amore per il sapere, il suo desiderio cioè di ricercare instancabilmente la verità, ma un avvenimento concreto, politico: la condanna a morte del maestro. Se questo accadimento non si fosse verificato, Platone molto probabilmente non avrebbe scritto nulla e, oggi, non conosceremmo né la sua definizione della filosofia né la sua dottrina dei due mondi, e forse, quel che oggi denominiamo con il termine filosofia sarebbe tutt’altro. Può anche darsi che avrebbe scritto lo stesso, ma chissà se le questioni da lui affrontate sarebbero state le medesime oppure differenti da quelle pervenuteci. Comunque sia, quel che è certo è che Socrate fu condannato a morte e questo fatto influì a tal punto su Platone da spingerlo a scrivere i suoi dialoghi, il cui protagonista è appunto Socrate. La morte del maestro, dunque un avvenimento politico e non gnoseologico, è la scossa tellurica che spinge Platone a scrivere, a occuparsi cioè del problema della politica in seno al problema della conoscenza, e non viceversa. Perché però Platone comincia a scrivere dopo questo fatto politico e non lo fa prima? E soprattutto, perché affronta la questione della giustizia in seno alla questione della conoscenza?
Per sciogliere questi interrogativi, occorre considerare alcuni fatti rilevanti. Innanzitutto, Platone è un allievo di Socrate. Quando s’incontrano per la prima volta, Socrate influisce a tal punto su Platone da spingerlo a distruggere tutti i suoi componimenti poetici giovanili, per dedicarsi esclusivamente al sapere. Se Socrate riesce a causargli una reazione del genere, allora è evidente quale influenza possa aver avuto nei confronti del suo allievo, mediante i suoi insegnamenti. Dopo l’incontro, adottandolo come maestro, Platone molto probabilmente stabilisce con Socrate un legame così stretto e morboso, da considerarlo il punto di riferimento per il proprio pensiero e per la condotta da tenere nella pòlis. In questa cornice, la morte del maestro rappresenta per Platone uno shock, una sisma psico-fisico che lo condiziona per il resto dei suoi giorni: Platone è orfano della sua stella fissa, la cui luce, però, ha lasciato in lui un segno indelebile.
Altro fatto indicativo. Secondo Diogene Laerzio, dopo la morte del maestro, assieme ad altri allievi, Platone si reca prima a Megara, poi a Cirene, infine in Italia presso i pitagorici Filolao ed Eurito. Perché Platone lascia Atene, dal momento che la condanna a morte riguarda soltanto il maestro? Che cosa c’entra lui con Socrate? Perché fuggire? Forse prova paura? Forse si sente a disagio nell’essere additato come allievo di un empio e di un corruttore dei giovani? Non si sa che cosa gli sia passato per la mente in quel momento, ma è chiaro quanto Platone possa sentirsi sconvolto a causa della morte del maestro. La conoscenza di Filolao ed Eurito è molto probabilmente l’accesso al farmaco capace di curare quello sconvolgimento interiore. Per loro tramite, Platone conosce la concezione della trasmigrazione delle anime, cioè una delle credenze alla base del movimento esoterico e mistico-religioso di cui Filoalo ed Eurito fanno parte, che diventerà il fulcro del pensiero di Platone e della sua dottrina dei due mondi. Non a caso, dopo la conoscenza dei pitagorici, Platone comincia a scrivere i suoi dialoghi. Perché però il protagonista dei suoi scritti è quasi sempre Socrate? Che cosa c’entra il maestro con quel movimento esoterico e mistico-religioso? Il fatto che il personaggio principale dei suoi dialoghi sia Socrate, dimostra che a Platone non interessa la conoscenza, esoterica o meno, della verità. Platone non ha digerito la morte del maestro: l’apprendimento delle dottrine pitagoriche, è lo strumento col quale affrontare questo chiodo fisso. Ma Platone vuole svolgere un’apoteosi di Socrate oppure ha di mira un altro scopo?
I suoi tre tentativi falliti di riformare Siracusa (388 a. C., 364 a. C., 361 a. C.) e alcuni specifici eventi – di ritorno dal primo, viene fatto schiavo e una volta liberato torna ad Atene dove fonda l’Accademia; nell’ultimo, è addirittura imprigionato dal tiranno Dionigi il Giovane – evidenziano come lo scopo principale di Platone non consista nell’apoteosi del maestro o, meglio, non soltanto in questo ma in qualcos’altro. Quale affinità avrebbe la morte di Socrate (un fatto politico ateniese) con il tentativo di riformare Siracusa (un fatto politico extra-ateniese)? E poi, perché Platone tenta di riformare Siracusa e non Atene? Ad Atene Platone non ha alcun appoggio politico, inoltre in quel periodo la città è insicura, perché è continuamente coinvolta nelle guerre con Sparta e Tebe prima e sotto l’influenza macedone poi. A Siracusa invece Platone ha l’appoggio di Dione, che condivide le sue proposte di riforma politica della città.
Dopo l’incontro col pitagorismo, Platone comincia a scrivere i suoi dialoghi, il cui protagonista è Socrate, ma il suo intento non è una divinizzazione del maestro. Se così fosse, come spiegare i suoi continui tentativi di riformare Siracusa, città che non ha nulla a che vedere con Socrate e con Atene? Il chiodo fisso di Platone è la morte di Socrate non come fenomeno della vita ma come evento politico, che riguarda cioè la giustizia, la legge che ha condannato a morte il maestro. Dopo la dipartita di quest’ultimo, Platone fugge da Atene perché ha paura di fare la stessa fine di Socrate, per mano della legge ateniese. Presso i pitagorici, trova lo strumento per liberarsi di questo suo chiodo fisso, ma dal momento che ad Atene non ha agganci politici tenta di usare tale strumento presso Siracusa, dove invece è sostenuto da Dione, ma invano.
Platone non fa differenza tra Atene e Siracusa in relazione al problema che lo assilla, il quale non è la giustizia (o la legge) di una singola città. La legge ateniese ha mandato a morte il maestro e lo ha costretto alla fuga, per evitare di fare la stessa fine, ma quella siracusana lo ha condotto una volta in schiavitù e un’altra volta in prigione. Il problema dei problemi di Platone è la legge delle pòleis greche – la giustizia degli uomini, la legge, verità sulla terra – all’interno delle quali gli amanti del sapere, come Socrate e lui stesso, non contano nulla e il cui sapere è inutile perché conduce alla morte, alla schiavitù, alla prigionia. Platone teme, odia la legge “umana”, quella cioè delle città greche, perché nei suoi confronti è impotente, e vuole esorcizzare una volta per tutte questa paura, vuole vendicarsi. Se Socrate, che sapeva di non sapere, è morto perché era impotente rispetto alla forza di legge (anche della tradizione) della città greca, Platone si rende conto che deve fare diversamente, cioè che deve mettersi in condizioni di essere “più forte della legge di qualsiasi città”, di essere il più potente di tutti e di scansare una volta per tutte la morte, la schiavitù, la prigionia. La figura di Socrate e il volto esoterico e mistico-religioso del pitagorismo sono il martello e l’incudine con i quali risolvere il suo enigma e realizzare la sua vendetta, che altro non è se non un progetto di potere universale: creare una nuova giustizia, una nuova legge alla quale assoggettare tutte le città greche, nessuna eccezione. Platone, però, non può far scoprire il suo reale intento. Per questa ragione, conferisce alla sua giustizia le sembianze di un sapere di origine sovrumana, sovrannaturale, divino, ma di fatto proveniente da lui stesso, usando: il volto mistico-religioso del pitagorismo, con il quale sdoppia la realtà in mondo vero (superiore ed eterno) e mondo apparente (inferiore e provvisorio); la figura del defunto Socrate, ignorante in vita, che accedendo nel mondo vero e dialogando con gli dèi diviene sapiente, cioè conoscitore della verità assoluta delle cose. Platone usa le figure degli dèi perché conta attraverso di loro di far presa sul timore divino dei popoli greci, che li venerano già prima dell’ellenismo e della formazione delle pòleis.
Come farà Paolo di Tarso più avanti, nelle sue Lettere, con la figura del Messia Gesù, Platone disegna a proprio piacimento, nei suoi Dialoghi, la figura di Socrate, puntando al suo progetto di potere universale, ossia alla creazione di una nuova giustizia, superiore a quella umana, ma in fin dei conti, come direbbe Nietzsche, “umana, troppo umana”, in quanto è soltanto la sua invenzione. Tutto il platonismo non è altro che una creazione continua ad opera di Platone, il quale non scopre verità ultime ma esprime le proprie opinioni conferendo loro le sembianze della verità, per realizzare i propri scopi. Il cuore pulsante, tuttavia, della sua invenzione è la sdoppiamento del mondo. Con questo gesto, Platone inaugura un modo di pensare che attraversa la storia dell’Occidente, denominato da Aristotele (lo vedremo più avanti) metafisica.
La divisione della realtà tra mondo vero e mondo apparente, consente a Platone di ragionare per differenza. Dal momento che vuole abbattere la giustizia umana, cioè di “questo” mondo, per impiantarne una nuova – la sua – Platone s’inventa un “altro” mondo che impiega per ottenere i suoi scopi in “questo”. Platone colloca la propria giustizia, il proprio sapere, se stesso nell’Iperuranio e delimita la giustizia e il sapere umani e tutti gli altri uomini nell’esistenza. Situando il centro di gravità dell’esistenza nell’“altro” mondo – che, in fin dei conti, è lui stesso – Platone comincia a pensare in modo ambivalente, Nietzsche direbbe in termini di valore e disvalore, declassando l’esistenza e potenziando l’Iperuranio. In altre parole, scioglie le coppie bene/male, bello/brutto, vero/falso, anima/corpo, immateriale/materiale, immortalità/mortalità, dèi/umani, eterno/provvisorio, uno/molteplice e via dicendo, assegnando le seconde all’esistenza e le prime all’Iperuranio. In questo modo, l’Iperuranio diventa il punto di riferimento dell’esistenza, la dimora di ciò che vale (essere), mentre l’esistenza la patria di ciò che non ha valore (non essere). Tutti gli avvenimenti terrestri in confronto a quelli sovra-terreni perdono di senso, a meno che non sono proiettati verso gli “altri” o non ne divengono un riflesso. La genialità di Platone consiste nel conferire alla sua giustizia le sembianze di una sapienza. Dal momento che esiste una giustizia superiore a quella del mondo transeunte, per regolare la propria condotta (all’interno della/e città) ed essere giusti, gli esseri umani non devono limitarsi a quella del mondo inferiore ma devono orientarsi in direzione dell’altra. Per farlo, però, occorre sapere dell’esistenza di questa “altra” giustizia, bisogna conoscere la verità: il mondo “superiore”. Ma come è possibile conoscerlo? E qui c’è l’altra intuizione geniale di Platone: sfruttare l’idea della trasmigrazione delle anime per dare centralità alla figura del sapiente, cioè se stesso.
La conoscenza della verità, della giustizia superiore, è possibile soltanto alle anime staccate dai corpi. Dal momento che queste, però, incarnandosi nuovamente in un altro corpo, la dimenticano, tutti gli esseri umani (fatti di corpo e anima) vivono continuamente all’oscuro della verità, cioè ingiustamente. Per fortuna loro, tuttavia, vi è un essere umano la cui anima, pur incarnatasi, ricorda la verità e può farla ricordare ad altri, consentendo loro di vivere giustamente. Chi è costui? Il sapiente, il filosofo, Platone stesso.
Naturalmente, Platone non può additare se stesso come unico conoscitore della verità e della giustizia superiore, altrimenti metterebbe in pericolo il proprio progetto di potere universale. Per questo motivo, usa la figura del defunto Socrate che dialoga con gli dèi e che trasmette questa sapienza ai discepoli, dunque anche a lui. Definendo Socrate un filosofo – colui che in vita è andato perennemente in cerca del sapere, scoperto soltanto nella morte, questo è il messaggio principale che trapela dai dialoghi platonici – Platone qualifica alla stessa maniera anche se stesso. Chi è il filosofo? Chi possiede un vago ricordo della verità, cioè della giustizia superiore, e che, continuando a ricercarla instancabilmente, ha il compito di farla ricordare ad altri mediante il dare e ricevere discorso. Dal momento che, però, la parola non esprime la verità nella sua interezza – perché è un fatto umano, mentre la conoscenza della verità è un fatto sovrumano, una visione esclusiva all’anima staccata dal corpo – il dare e ricevere discorso può bastare: ecco un’altra genialità di Platone. Per comunicare la verità e farla vedere agli esseri umani così come l’anima la scorge quando è staccata dal corpo, sceglie di impiegare il mito. Quest’ultimo non narra avvenimenti storicamente esatti (si pensi a Omero per esempio), ma per i Greci ha la funzione di mantenere la memoria di alcuni eventi passati, malgrado nel tempo tali racconti subiscano delle trasformazioni e degli adattamenti. Platone ricorre al mito non soltanto per esprimere i momenti chiave del suo pensiero e della sua giustizia, ma per rendere tutti i suoi dialoghi un immenso mito. Le conversazioni socratiche con gli dèi e con i discepoli, nella loro funzione rappresentativa-simbolica, sono capaci di trasmettere nell’immediato i contenuti del racconto stesso, cioè il pensiero di Platone, la sua giustizia.
La concezione platonica dello Stato è il fiore all’occhiello del pensiero di Platone, della sua giustizia. Per essere giusto, ossia partecipe della verità, il mondo terrestre dev’essere regolato, sulla base di quello ultraterreno e l’unico che può farlo è il sapiente, il filosofo, Platone stesso. Diversamente dai commercianti e dai guerrieri che badano agli interessi personali e ignorano l’Iperuranio, il filosofo, che invece conosce quest’ultimo, è l’unico capace di ordinare lo Stato e di legiferare in modo giusto, consonante cioè all’Iperuranio stesso. Socrate è una figura rimasta nella memoria dei Greci e nei dialoghi platonici si manifesta come l’unico conoscitore della verità, della giustizia superiore. Però è defunto. A chi è possibile rivolgersi, in “questo” mondo, per diventare sapiente e vivere giustamente? Soltanto a chi ne racconta le gesta ultramondane ed è stato suo discepolo: Platone. La concezione platonica dello Stato è la conferma del suo progetto di potere universale. Non a caso va per tre volte a Siracusa: Platone vuole realizzare la sua giustizia, sostituirla a quella terrena, vigente nelle pòleis. Platone vuole il potere dei poteri, vuole governare. Malgrado in teoria abbia costruito un sistema di pensiero e una giustizia efficace per realizzare la sua vendetta contro la legge terrestre, in pratica tuttavia non c’è riuscito.
Alla luce di queste considerazioni, la definizione platonica del termine filosofia acquista un nuovo senso. L’“amore per il sapere” è una determinazione funzionale al pensiero di Platone, alla sua giustizia, ai suoi scopi reconditi; non ha un senso gnoseologico in quanto tale né esistenziale. È l’atteggiamento di quell’essere umano che, nello scenario di una realtà spezzata tra mondo vero e apparente, è chiamato a organizzare il secondo sulla base del primo, il filosofo. Come si è visto, però, questo sdoppiamento del mondo è soltanto un’invenzione di Platone per ottenere il potere, per sostituire la sua giustizia a quella delle pòleis. L’“amore per il sapere”, in altri termini, è la maschera che Platone stesso indossa per conseguire il suo progetto. Una finzione che, nel quadro del mondo sdoppiato, deve indurre gli altri a eleggere il filosofo, cioè Platone stesso, al governo della città. Tutto il sapere di cui Platone parla non è altro che una sua trovata, geniale senz’altro, per il potere, ma in quanto tale, è soltanto un’illusione. La filosofia, dunque, è un’illusione.
Nel corso della storia dell’Occidente, tuttavia, la trovata platonica è considerata come vera, non come fittizia. Platone inaugura un modo di pensare attorno al quale si basa buona parte della storia dell’Occidente, denominato da Aristotele (lo vedremo più avanti) metafisica. Il platonismo, il cui epicentro è il concetto di mondo vero, non è altro che una teoria sulla giustizia, un pensiero politico dalle sembianze gnoseologiche. La filosofia non esiste. Quel che oggi denominiamo filosofia è soltanto platonismo, cioè l’esclusivo pensiero di Platone, la sua giustizia: un inganno. La filosofia è soggettivismo, una creazione di Platone e, malgrado ciò, resta una delle ombre che condizionano la storia dell’Occidente. Nonostante sia un artificio, il concetto platonico di “mondo vero” ha fortuna. L’Iperuranio, così come Platone lo immagina, è lo spazio che detiene tutte le qualità positive dell’esistenza, mentre quest’ultima è soggetta a qualità negative. È la patria della verità, della giustizia, della bellezza, dell’immortalità, dell’anima, di Dio, dell’eternità, dell’unità, mentre l’esistenza è la dimora della falsità, dell’ingiustizia, del brutto, della mortalità, degli uomini, del transitorio, della molteplicità. Il concetto di “mondo vero” è il solco sul quale s’installerà Aristotele per edificare l’altra ombra che pervade la storia dell’Occidente e che costituisce l’essenza della globalizzazione.

lunedì 14 novembre 2011

Pietro e Paolo a Gerusalemme: secondo incontro

- di Saso Bellantone
Dopo quattordici anni, Paolo decide di andare a Gerusalemme. Nel corso dei suoi viaggi, infatti, ha sentito dire che lui è un impostore e che il vero Vangelo è quello dei fratelli di Gerusalemme, Pietro, Giacomo e Giovanni, secondo i quali la fede nel Messia Gesù richiede la circoncisione, mentre Paolo predica l’inverso. Paolo ha bisogno di chiarezza e per questo motivo va a trovare gli apostoli. Giunto innanzi alla casa di Pietro, dice a Barnaba di aspettare fuori e bussa:
Pa: Permessu! Pozzu trasìri?
Pi: Cu’ è?
Pa: A’ bellezza ‘i cumpari Petru!
Pi: Uiii!!! ‘Mpari Paulu! (Pietro si alza dalla sedia e gli va incontro) Quant’avi chi no’ ndi virìmu! Trasìti trasìti! Mi penzava ca’ erunu i guardi romani chi volìvunu ancora sordi… Venìti avanti! Chi si rìci?!
Pa: Staju morendu! Avi ‘i l’Arabia chi camìnu! ‘I quantu mi lorunu i pedi, aund’è caru n’terra!
Pi: Pe’ l’amuri ‘i Diu! ‘Ssettativi cca’, così vi ripigghiati! Chi vi offru? ‘Nu pocu ‘i pani? ‘Mbiccheri ‘i vinu? ‘Rrrivastivu chi stava giustu mangiandu…
Pa: Ahiahi! (si siede) No’ no’ vogghiu nenti, grazi! ‘Mbiccheri d’acqua se l’avìti e ‘nu minutu pemmi mi ripìgghiu!
Pi: Quali acqua Paulu! No’ sapìti ca’ ‘rruggia?! ‘Mbivìtivi ‘nu bellu biccheri ‘i vinu e pigghiativi tutti i minuti chi volìti! (Pietro gli versa del vino)
Pa: Vi ringraziu Petru, veramenti! U’ sapìti ca’ sugnu astemiu… ‘nu pocu d’acqua mi basta e mi ricrìu!
Pi: Tenìti cca’ cumpari! ‘Mbivìti, sennò m’offendu! Cu’ no’ ‘ccetta no’ merita! (Pietro gli mette la coppa di vino in mano e lo obbliga a bere).
Pa: Sulu pe’ ‘sta vota e sulu unu, vabbonu?! Apoi basta, sennò mi ‘mbriacu! Saluti!
Pi: Saluti!
I due brindano. Poi Pietro riprende:
Pi: Allura cumpari… chi mi cuntati? Comu mai venìstivu pemmi mi trovati?
Pa: Petru… vogghiu sìri schiettu cu’ vui. Oramai, avi riciassettanni chi ndi canuscìmu e penzu ca’ è megghiu ‘mi vaju o’ quagghiu…
Pi: Dicìti dicìti senza pili nda lingua.
Pa: Allura… Vozi venìri pemmi vi trovu, pecchì mentri girava ‘i cca’ e di ja’, mi dìssuru ca’ parrauvu mali ‘i mìa…
Pi: Pe’ l’anima di morti Paulu! Chi mi ricìti? Ma stati zannijandu o ‘u ricìti averu?
Pa: Averu Petru! Averu! Giriai tutta ‘a Siria, ‘a Cilìcia, a Palestina nda ‘sti tridicianni e aundi ìja, mi rìssiru ‘i ‘sta manera: ca’ vui, Giacomu e Giuvanni ricìti ca’ jeu cuntu ‘mbrogghi, pecchi’ ‘u Signuri no’ vìtti mai e ca’ cu’ voli crirìri o’ Signuri s’avi ‘a fari ‘a circoncisioni, comu dicìti vui, no’ comu dìcu jeu ca’ no’ si l’avi a fari!
Pi: (Pietro si fa scuro in volto e si passa una mano sulla fronte) Vi giuru supra ‘i me’ mugghieri e di’ me’ figghi, ca’ ‘sti paroli no’ nescìru mai ‘i ‘sta vucca! Se volìti vaju e chiamu a Giacumu e a Giuvanni, così vu dìnnu puru ìji!
Pa: No’ vi ‘ncarricati cumpari Petru, no’ nc’è bisognu pemmi ‘i chiamati. Dassatimi finìri… Ora vi stava dicendu… ah sì… Quandu ntìsi ‘sti cosi, dìssi jeu: “Com’è possibili ca’ girunu sti vuci? A’ prima vota chi ‘u vìtti, Petru mi fìci ‘na bona ‘mpressioni. Parrava e guardava nda l’occhi, quandu mi dìssi i circoncisi pe’ ìju e ‘u restu pe’ mìa. Cca’ ‘a verità o esti chiju chi sentunu i me’ ricchi oppuru nc’è ncunu chi no’ mi poti virìri e parra mali e’ spaji. O mi stannu pigghiandu po’ culu oppuru sunnu i Romani chi ndi vonnu spartìri. Romani hannu ‘a essiri, sicuru! Ma pemmi staju nda paci, dassa ca’ vaju pemmi parru cu’ Petru ‘i prisenza, così virìmu chi mi dìci ìju. Pecchì se no’ sunnu Romani, allura o’ staju giriandu a muzzu e pe’ nenti oppure nc’è ncunu chi ndi voli mali a tutti”. E ‘i ‘sta manera fìci.
Pi: Facìstivu bonu allura Paulu ca’ venìstivu ndi mìa! Pecchì jeu sugnu Petru e no’ ndi cuntu ‘mbrogghi! (Pietro si ammutolisce e si irrigidisce per un attimo, pensando al gallo che canta tre volte quando, arrestato Gesù, lo accusano di essere un suo seguace e lui nega tutto)
Pa: Petru… appostu?! Chi vi pigghiau?
Pi: Ah sì… Nenti! Mi ricordai ca’ aju ‘a jìri pemmi fazzu ‘na riunioni cchiu’ tardu… stava dicendu… Jeu sugnu Petru! Petru! E ‘u me’ nomi parra sulu!
Nel frattempo, entrano Giacomo e Giovanni. Vedono Pietro che gesticola e si pavoneggia come un attore teatrale e scorgono Paolo che lo osserva incuriosito.
Gia: Chi succeri cca’? Chi esti ‘stu circu?! Cumpari Paulu?! Chi piacìri! Mi rìri ‘u cori pemmi vi vìju!
Gio: Paulu! Chi meravigghia! (i due corrono a salutarlo. Paolo ricambia un po’ imbarazzato)
Pi: Menu mali ca’ ‘rrivastuvu! Nci stava dicendu a Paulu ca’ sunnu tutti ‘nvenzioni chiji chi ntìsi!
Gia: Quali ‘nvenzioni?
Pi: Nci dìssiru ca’ nui jimu dicendu n’ giru ca’ ìju cunta ‘mbrogghi e ca’ cu’ voli crirìri ‘o Signuri s’avi a fari ‘a circoncisioni pe’ forza!
Gi: Paulu Paulu! L’urtima vota chi ndi vìttimu, mi pari quattordicianni arretu, ‘u sentìsti chi to’ ricchi quali esti ‘u nostru penzeru supra ‘i tìa, giustu? Poì jìri aundi voi ca’ nostra benerizioni! Comu fai pemmi crìri a ‘sti palli?
Pa: Giacomu, jeu no’ nci crirìa prima e no’ nci crìru mai a ‘sti vuci chi mentunu ‘n giru! Pe’ chistu vìnni pemmi vi trovu! Pecchi’ sacciu comu a penzati supra i mìa! Nci dìssi a Petru ca’ sicundu mìa hannu a essiri i Romani chi mentunu ‘sti vuci ‘n giru pemmi ndi spartunu. Forzi, sunnu puru ‘mbiscati chi frati e mancu sapìmu cu sunnu! Stativi attenti!
Gi: Mi ‘rrobbasti ‘i paroli da vucca, Paulu! Puru sicundu mìa nc’av’essiri ncunu chi joca cu’ l’acqua santa e cu’ focu! Sicuru comu ‘a morti! Ncunu si zziccau ammenzu e’ frati e menti ‘n giru sti vuci pemmi jarma guerra! Ma no’ ti ‘ncarricari Paulu! Quant’è veru ‘u Signuri, ti giuru ca’ a chisti ‘i pigghiamu e nci facimu virìri ‘u Patreternu prima du tempu! ‘U sapìsti ìi Ananìa, no?! Cca’!
Giacomo allunga la mano a Paolo in segno di promessa. Paolo si alza e la stringe, poi Pietro e Giovanni mettono le loro mani su quelle degli altri due e tutti e quattro si sorridono vicendevolmente.
Pa: Allura pozzu stari nda paci?
Gio: Paulu sentìsti chi to’ ricchi n’autra vota! Vai aundi voi e no’ ti dari penzeru!
Pa: Comu restamu, allura? Comu a l’autra vota? Vui prericati e’ circoncisi e jeu a tutti l’autri?
Pe: Comu a l’autra vota, Paulu! Nui e’ circoncisi e tu o’ restu da’ genti! Vabbonu?
Pietro prende delle coppe e vi versa del vino, porgendolo agli altri.
Pi: Ora, vistu ca’ nci sunnu puru Giacomu e Giuvanni, struzzamu a’ nostra saluti, tutti i quattru!
Pa: Petru t’avìva diciutu ca’ unu mi basta senno’ mi mbriacu!
Pi: E jamu Paulu, ‘nu biccheri e basta! A’ saluti!
Pietro Giacomo e Giovanni alzano le coppe in aria e attendono che Paolo faccia lo stesso. Paolo si ferma un attimo per pensare, poi riprende:
Pa: Vabbonu! Però no’ pecchi’ no’ vi crìru, ma pecchi’ mi ricordai ca’ avi ‘na ura chi spetta fora e forzi si voli rifriscari puru ìju… Barnaba! Barnaba trasi e ‘mbiviti ‘nu biccheri ‘i vinu! Moviti!
Entra Barnaba. Pietro Giacomo e Giovanni si guardano tra loro, immobili come statue, cercando l’aiuto dell’altro.
Pa: Allura Petru! No’ jinchi ‘nu biccheri ‘i vinu pe’ l’amicu?
Pi: Comu no’!
Come svegliandosi da un torpore, Pietro dà la sua coppa a Barnaba e versa del vino per lui in un’altra coppa, mentre gli altri lo guardano ammutoliti. Raggiunti gli altri, alzano le coppe in aria e brindano.
Tutti: A’ saluti!
Paolo e Barnaba bevono, mentre gli altri si portano la coppa alle labbra e fanno finta di bere. Paolo se ne accorge e pensa che è il momento di andarsene, perché ha trovato la risposta che cercava.
Pa: Vabbonu amici! Allura, mi pari ca’ esti tuttu appostu e mi ndi pozzu jiri! U’ Signuri pemmi vi benerici! Barnaba! Imunindi ca’ aund’è chi scura!
Pi: Veni quandu voi Paulu! ‘Sta porta esti sempri aperta pe’ l’amici!
Gia: Grazi pa’ visita!
Gio: Ndi virìmu!
Mentre i tre lo salutano sorridenti, Paolo se ne va assieme a Barnaba. Poco dopo, quando ormai sono già per la strada, Paolo sente chiamare il suo nome e si volta. È Pietro che corre come un forsennato per raggiungerlo.
Pa: Chi è?! Chi ti sperdìsti Petru?!
Pi: Paulu! Spetta ca’ mi ripigghiu… chi fujuta! Ahiahi! N’autru mostru mi sperdìva! Menu mali ca’ m’u ricordaru Giacomu e Giuvanni! Quandu giriji ‘i cca’ e di ja’ e i novi frati ti regalunu ncuna cosa, nommu ti sperdi pemmi mandi e’ frati ‘i Gerusalemmi?! Vabbonu Paulu?!
Paolo osserva Pietro attentamente, immobilizzato dal disgusto che prova ma non lascia trasparire nulla. Si volta per un attimo verso Barnaba, poi torna a guardare Pietro che attende la sua risposta:
Pa: Vabbonu Petru! No’ mi sperdu di frati ‘i Gerusalemmi!
Pi: U’ Signuri pemmi ti benerici!*

*ispirato alla Lettera ai Galati di Paolo