IN QUESTO BLOG NON SI PUBBLICANO COMMENTI ANONIMI.

martedì 29 maggio 2012

OLTREWEB La Terra del Flamenco trema


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
dopo la Culla dell’Occidente, ora è la Terra del Flamenco a tremare. Sono 50 i miliardi di (ze)Leviatan che necessitano al suo sistema bancario per scansare il default. Ma il “RedellaGioia” decide di non chiederli al Leviatano, non vuole indebitarsi con Lui. Preferisce tentare di riparare internamente la voragine economica per consentire alla Terra del Flamenco di sopravvivere. Il “RedellaGioia” si limita a chiedere al Titanico Mostro Settentrionale delle garanzie sulla tenuta della zona-Leviatano. Garanzie… È come se tu, mio caro web, chiedessi al conte Dracula la rassicurazione di non dissanguarti. Ma sai benissimo che il Nosferatu, così come la letteratura lo caratterizza, è bugiardo, soprattutto con le vittime che più ama fare sue. Promette di non sfiorarti perché non ha fretta né vuole rischiare di soccombere sotto la luce del sole. Poi, agisce nel buio, si mostra attraente, bello, seducente in modo che sia la vittima stessa ad abbandonarsi a lui e azzannarla col suo pieno consenso, bevendo fino all’ultima goccia del suo sangue. Quanto è diverso il Titanico Mostro Settentrionale dal conte Dracula? Per niente. Ha il tempo dalla sua parte e non vuole che il suo oscuro disegno di potere sul Vecchio Continente sia smascherato. Promette, si mostra conveniente, necessario, salvifico con gli (ze)Leviatan che eroga, consapevole che prima o poi sarà ogni Nano a rivolgersi a Lui di propria iniziativa. Sarà proprio allora che affonderà le Sue fauci nella fresca carne Nanitica, prosciugandone tutta la linfa vitale. Sta già accadendo con la Culla dell’Occidente e, adesso, anche con la Terra del Flamenco. Ma il “RedellaGioia”, convinto di vedere mare calmo laddove non è altro che uno tzunami pronto a travolgere il suo Nano, Gli chiede garanzie e il Grande Leviatano del Nord, ridendo a squarcia gola, è pronto a rispondere “Te lo prometto, in cambio della tua anima (cioè del tuo Nano stesso)”.
A che serve tentare di curarsi da soli? Quale utilità nel chiedere delle garanzie a un essere la cui naturale inclinazione è quella parassitaria? A che pro temporeggiare con un parassita immortale e immune agli shock economici patiti invece dai Nani? Mentre questi ultimi, infatti, continuano a essere travolti dal Maelstrom di un debito che, anziché scemare, infuria con intensità sempre più dirompente, il Titanico Mostro Settentrionale osserva deliziato su di un’isola beata lo spettacolo che ne accresce il potere giorno per giorno, tramutandolo in una macchina distruttrice infernale, indomabile, fatale. Arricchendosi di Istituti, di Ordinamenti, di Schiavi, il Grande Leviatano del Nord sorride avidamente alla crisi economica di ogni Nano e attende l’ora di ingurgitarli in un sol boccone uno per uno, così come fa un Kraken con gli sventurati velieri sperduti negli uragani degli oceani. Ma un’unica tormenta travolge i Nani sull’oceano di terra del Vecchio Continente. Il suo nome è il medesimo che campeggia nella valuta e nel Nuovo Continente, ancora astratto, che si sta già concretizzando: è il Grande Leviatano del Nord.
Altro che chiedere garanzie, mio caro web! Il “Redellagioia” dovrebbe iniziare a tremare assieme alla Terra del Flamenco. Dopo la Culla dell’Occidente, il conto alla rovescia per la rovina del Vecchio Continente è scattato anche là, guarda caso, proprio nei due Nani rispettivamente a Oriente e a Occidente dello Stivale. Due sono adesso gli epicentri dell’immenso e sotterraneo movimento tellurico che sconvolge il Vecchio Continente. Lo Stivale comincerà ad avvertirne le scosse? E quando? Ormai, è soltanto questione di tempo.
Medita web, medita… 

martedì 22 maggio 2012

Versieri: SONETTO ALLA SCIENZA di E. A. Poe


- di Saso Bellantone

Scienza, vera figlia ti mostri del tempo annoso,
tu che ogni cosa trasmuti col penetrante occhio!
Ma dimmi, perché al poeta così dilani il cuore,
avvoltoio dalle ali tarde e grevi?
Come potrebbe egli amarti? E giudicarti savia,
se mai volesti che libero se ne andasse errando
a cercar tesori per i cieli gemmati?
Pure, si librava con intrepide ali.
Non hai tu sbalzato Diana dal suo carro?
E scacciato l’Amadriade dal bosco,
che in più felice stella trovò riparo?
Non hai tu strappato la Naiade ai suoi flutti,
l’Elfo ai verdi prati e me stesso infine
al mio sogno estivo all’ombra del tamarindo?

La scienza è nel tempo e viene col tempo. La poesia ne è al di fuori e avviene all’improvviso. L’atteggiamento della scienza è freddo, disincantato, analitico, metodico, sperimentale, basato sulla riproducibilità. Tale modo di manifestarsi le consente di osservare i fenomeni con una tale chiarezza e precisione da offrirne, col passare del tempo, una spiegazione sempre più dettagliata, sicura, esatta, una visione definitiva. Con questo suo atteggiamento, simile a un avvoltoio dalle ali lente e pesanti, la scienza lacera il cuore del poeta. Come un avvoltoio dalle ali lente e pesanti la scienza ha scacciato dalla natura Diana, dea della caccia, l’Amadriade, ninfa dei boschi, la Naiade, ninfa delle acque dolci, l’Elfo, spirito genio della terra, e lo stesso poeta che, adagiato all’ombra di un tamarindo per proteggersi dal cocente sole d’estate, sognava di volare nella natura e di coglierne con sguardo lesto, passionale e magico, i tesori in essa celati. Il poeta non potrà mai amare la scienza e considerarla vera saggezza perché rimuovendo la poesia, in fin dei conti, essa sfratta dalla natura le emozioni, i sogni, l’essere umano stesso.
In Sonetto alla scienza, E. A. Poe critica l’atteggiamento calcolante dello scienziato che cancella quello poetante del poeta.  Ma la questione che l’autore sottopone al lettore, retroattivamente, non consiste nell’inconciliabile dissidio scienza/poesia bensì nella posizione umana rispetto alla natura in relazione al linguaggio scientifico da un lato, e a quello poetante dall’altro lato.
La poesia e la scienza costituiscono infatti le due colonne d’Ercole del linguaggio umano: del pensiero. Con entrambe, infatti, l’essere umano colloca nel caos le proprie interpretazioni/spiegazioni, allo scopo di organizzarlo, di dargli un senso e, quindi, poter vivere/sopravvivere in esso. Con questi due linguaggi, poetico e calcolante, l’essere umano imprime dei significati nelle cose in maniera diversa: con la poesia in modo repentino, aleatorio, emozionale, sognante; con la scienza in modo lento, scrupoloso, disilluso e basandosi sul metodo analitico-sperimentale, ossia incentrato sulla ripetibilità dei fenomeni. In altri termini, la differenza tra il linguaggio poetico e quello calcolante consiste nel fatto che mentre con il primo l’essere umano è consapevole che, assieme ai propri significati, sta installando nella natura anche il riferimento a se stesso, con il secondo, invece, impianta i propri significati nelle cose ma non il riferimento a sé. Detto ancora più brevemente, con il linguaggio poetico l’essere umano s’installa dentro la natura, con quello calcolante si rimuove da essa, se ne allontana.
Poe dichiara che gli è impossibile amare la scienza e che non può considerarla saggezza, proprio perché la scienza annienta la presenza umana nella natura.  mentre la poesia offre una visione antropomorfica della natura, la quale cioè manifesta una perfetta simbiosi tra l’essere umano e gli enti, la scienza fornisce una concezione della natura al di là di ogni antropomorfismo, vale a dire nella quale ogni elemento simbiotico tra essere umano e natura è infranto, sciolto, annullato.
Con il suo fare gelido e in braccio alla dimensione del tempo, nel cancellare ogni mitologia dalla natura, la scienza tronca ogni legame intimo che vi è tra questa e l’essere umano, stabilito da fare afoso della poesia, che è, diversamente da quello della scienza, al di fuori del tempo, perché considera la stretta relazione tra essere umano/natura come qualcosa di indissolubile, una realtà che deve resistere al tempo.
Certamente, con le sue scoperte, la scienza consente all’essere umano di sopravvivere ma lo svincola dal suo legame ancestrale con l’universo, evidenziato e mai messo in dubbio invece dalla poesia. Dal momento che la poesia ricalca con forza e senza tempo questo vincolo inscindibile tra essere umano/natura, può, proprio per questo motivo, sviluppare un’azione salvifica, dell’essere umano e della natura, in questi tempi in cui il delirio del progresso scientifico fa temere una fine di entrambi? La poesia di Poe, a suo modo, fa riflettere su questo interrogativo, dimostrando, appunto, che i significati trasmessi col linguaggio poetico sono davvero senza tempo e proprio per questo motivo, eternamente attuali.

giovedì 17 maggio 2012

OLTREWEB Cosa sceglierà la Culla dell’Occidente?


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
c’è aria di fratture e fuoriuscite all’orizzonte. Come previsto, i fondi stanziati dal Grande Leviatano del Nord per trattenere la Culla dell’Occidente all’interno del proprio disegno di potere non sono serviti a nulla. La disoccupazione, i suicidi, i fallimenti, la fame sono aumentati e negli ultimi giorni 1,2 miliardi di (ze)Leviatan sono stati ritirati dai conti correnti Cullici. Nei giorni a venire altrettanti saranno tirati indietro. Il vecchio governo è crollato. Un nuovo governo è sorto. È provvisorio, però. Durerà fino al 17 giugno, giorno in cui la Culla dell’Occidente dovrà prendere la grande decisione: restare nell’area Leviatano o tornare alla dracma. Sarà un momento unico. Se la Culla dell’Occidente dovesse uscire dalla zona Leviatano, potrebbe provocarsi un effetto a catena capace di abbattere le mura di cinta issate da tutti i Nani attorno all’illusione di una moneta unica e in grado di portarsi dietro anche la Terra del Flamenco e lo Stivale. La grande macchinazione di potere del Titanico Mostro del Nord comincerebbe a traballare, a perdere pezzi, uno alla volta, fino a implodere su se stessa e a svanire, restando soltanto come un ricordo, un monito per i futuri tentativi di dominio economico del vecchio continente, a marchio unico, con vocazione planetaria. Se invece la Culla dell’Occidente dovesse sprecare la grande opportunità che ha innanzi e decidesse di restare all’interno della zona Leviatano, continuerà a corrodersi, a lacerarsi dall’interno finché non sarà costretta a vendere anima, autorità e libertà al Titanico Mostro Settentrionale, generando l’inizio dell’età della transizione e del mutamento del Vecchio Continente, preludio di un immenso totalitarismo economico e disumano.
Il Leviatano trema, mio caro web, non può permettersi il lusso di perdere la Culla dell’Occidente, perché sa che se ciò accadesse, Lei sarebbe seguita da altri Nani e sarebbe l’inizio della propria dissoluzione e della scomparsa del proprio progetto di potere globale. Per questo motivo in questi giorni il Grande Levitano del Nord attiva come un tornado tutte le proprie risorse umane, economiche, psicologiche e strategiche, per indurre i cittadini Cullici a decidere di restare nella zona Leviatano. Ma c’è un precedente mondiale di cui costoro dovranno tener conto. Dopo anni e anni di parità dollaro-peso, che l’aveva portata al collasso, nel 2002 la Terra del Tango decise uscire dalla zona Zio Sam e, affrontati enormi sacrifici, oggigiorno a distanza di dieci anni, il suo PIL cresce, continua a crescere e la gente è tornata a stare bene. Se la Culla dell’Occidente scegliesse di imitare la Terra del Tango e di tornare alla dracma, superate le difficoltà iniziali, potrebbe tornare un Nano forte e determinante per il destino degli altri Nani e del Leviatano. Ma il Titanico Mostro del Nord lo sa e scongiura tale scelta, anzi si adopera in tutti i modi per lavare il cervello dei Cullici e convincerli che conviene restare nella zona Leviatano. Ma i Cullici ormai non si lasceranno raggirare nuovamente: sanno che fame, morte, disoccupazione, fallimenti, disperazione non possono essere sinonimi di Leviatano e di convenienza. E il 17 giugno decideranno quel che è necessario loro, non quello che conviene al Titanico Mostro del Nord.
Un grande bivio si propaga nel Vecchio Continente. Ad avere le ore contate è da un lato ogni singolo individuo annichilito dall’avidità di potere del Leviatano, dall’altro il Leviatano stesso. La posta in gioco nel voto del 17 giugno sarà per i Cullici sempre la stessa: libertà e schiavitù. C’è da chiedersi, mio caro web: quando verrà un 17 giugno per lo Stivale? Quando, gli stivaliani cominceranno a valutare l’ipotesi di imitare anche loro la Terra del Tango, tornando alla lira? Quando si accorgeranno che anche per loro è in gioco la libertà o la schiavitù? Forse, quando ormai avranno le catene ai piedi e ai polsi?
Medita web, medita…

martedì 8 maggio 2012

OLTREWEB Chi tifa per lo Stivale?


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
e complimenti. Sì sì, complimenti. Ti ho visto, invasato dai fumi catodici, digitali e pay-per-view, aggirarti come uno svitato per le strade e le piazze del paese, sventolando bandiere, sciarpe, maglie, cappelli, ceroni e quant’altro, per festeggiare il 28° o il 30° trionfo dell’animale ying e yang a strisce taroccate. Ridevi, urlavi, brindavi, cantavi, ti abbracciavi o ti fotografavi assieme agli altri per immortalare la nuova conquista sferica e ricordartene per il resto della vita. Complimenti, mio caro web. Con la vittoria dello sferico torneo stivalico di prima serie, da parte delle zebre, ti sei moltiplicato all’infinito per far festa. Sicuramente avresti conseguito il medesimo risultato anche se a trionfare fossero stati i diavoli, i serpenti, le aquile, le lupe o qualsiasi altro club. Bisogna riconoscere che quando c’è di mezzo il pallone non ci pensi un attimo, mio caro web, per scendere in piazza e festeggiare la tua squadra del cuore. Ti chiedo tuttavia, mio caro web: perché non riesci ad avere il medesimo risultato quando c’è di mezzo lo Stivale? Non tifi più per lo Stivale? Non lo hai più a cuore? O quando c’è la sfinge sferica, non hai tempo per lo Stivale?
Malgrado l’accesso all’Eliseo da parte de “l’uomo dei Paesi Bassande” faccia sperare nell’inaugurazione di un’inversione di rotta da parte di tutti i Nani, il Grande Leviatano del Nord continua la sua lenta e silente marcia per realizzare il proprio progetto di potere continentale. I segni ci sono – aumento delle tasse, della disoccupazione, del prezzo dei beni, degli imprenditori suicidi, della criminalità, delle aziende fallite, della crisi insomma; pari in bilancio nella Costituzione, gendarmeria, possibile modifica dell’art. 18 e possibile vendita dell’autorità sovrana stivalica – ma tu, mio caro web, non fai nulla. Resti a guardare e, per moda, ti lamenti di essere con l’acqua alla gola senza manifestare, protestare, ribellarti, a patto che non ci sia di mezzo il pallone. Perché se c’è il pallone, non c’è tempo da dedicare alla crisi e al piagnisteo. O c’è l’uno o le altre; entrambe non possono abitare le stesse mura. Il pallone è una “carota” come tante altre, direbbe un vecchio totalitarista. È un piccolo contentino sul quale contare, per stordire e poi “bastonare” bene bene con le direttive del Titanico Mostro Settentrionale. Ma tu, mio caro web, giustifichi questo sport-business, affermando che con le bastonate che hai già preso, rosicchiare una carota ogni tanto, non guasta. Se è così, allora, mio caro web, buona sgranocchiata… ma preparati alle bastonate in arrivo.
Se Marx fosse nato in questi tempi, direbbe che il calcio appartiene a quella categoria indicata come “oppio dei popoli”. Nella devozione che manifesti nei confronti di questo sport-business, riecheggia oscenamente, mio caro web, il tuo spirito religioso, quella propensione a fare quel che altri dicono, palesemente o meno, e a essere dominato. Peccato, mio caro web, tu non abbia seriamente il medesimo spirito nei confronti del diritto alla vita e al lavoro. Se ce l’avessi, l’unico calcio di cui ti cureresti sarebbe quello da dare al Grande Leviatano del Nord, assieme a tutti i suoi servitori che dividono nuovamente il genere umano in classi, per riprenderti rapidamente quello che è tuo e di cui, inesorabilmente e consapevolmente e/o subliminalmente, ti si sta portando via: la libertà.
Medita web, medita…

martedì 1 maggio 2012

OLTREWEB La festa del lavoro in cerca di lavoro


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
festeggia, goditi la tua festa finché ancora puoi farlo ma ricorda le manifestazioni, gli scioperi, le morti, i feriti per difendere il diritto di lavorare non più di otto ore al giorno, per evitare di trasformarsi in una macchina e per salvaguardare quel minimo di umanità che ancora custodisci nel profondo del tuo essere!
Verrà un tempo, in cui non ci sarà più un primo maggio né una festa del lavoro. Ogni giorno sarà uguale all’altro, ogni minuto, ogni istante della tua vita non sarà altro che il prodotto di quella inimmaginabile serie di macchinazioni che il Grande Leviatano del Nord sta escogitando per intrappolarti nella propria illusione. Verrà un tempo, in cui sarai costretto a lavorare otto, sedici, ventiquattr’ore su ventiquattro, per tutta la vita, allo scopo di appagare i progetti di potere, di dominio continentale, con vocazione planetaria, del Titanico Mostro Settentrionale. Sarai schiavo, prigioniero di un manipolo di capitalisti e potenti, giunti all’apice della piramide del comando, con il tuo tacito consenso e quando te ne accorgerai, sarà troppo tardi per rimediare, per riprendere la tua libertà di scelta, il tuo diritto all’esistenza, il tuo diritto a restare umano e a non trasformarti in un robot, in un silente servitore dell’Impero della realizzazione a tutti costi della volontà di pochi… se sopravvivrai, naturalmente.
Lavorare otto ore al giorno è stato il traguardo conquistato dalla vermiglia linfa che scorreva nelle vene dei tuoi predecessori. Oggi, quella stessa vitalità che circola nei tuoi vasi sanguigni ti chiede altro, urla e reclama qualcosa di più basilare delle otto ore. Pretende il lavoro, vale a dire quel minimo di speranza di poter soddisfare quei bisogni essenziali, come l’alimentazione, la salute o un’abitazione per esempio, per sopravvivere. E i Nani che attualmente ti governano, rispettando per filo e per segno tutte le direttive leviataniche utili per la realizzazione del proprio progetto di potere, anziché creare lavoro e garantirti di sopravvivere, tagliano lavoro giorno dopo giorno, ti dissanguano, ti lasciano morire o ti spingono a toglierti la vita, senza pensarci una sola volta. Sono freddi e spietati questi Nani. Cancellano il lavoro intransigenti, uccidono, affamano. In questa maniera si assicurano una fetta di potere all’interno del Leviatano e Gli giurano fedeltà, partecipando allo sterminio di chi non vuole essere reso Suo schiavo.
Festeggia, mio caro web, la tua festa del lavoro, ma chiediti se è forse giunta l’ora di seguire i passi dei tuoi avi e di protestare, scioperare, manifestare per chiedere che ti venga riconosciuto in pieno quell’unico diritto che anche la Costituzione prevede e che ti consente di realizzare e salvaguardare la tua umanità: il lavoro.
Medita web, medita…

L’ESSENZA DELLA GLOBALIZZAZIONE: Aristotele e la scienza dei principi primi e delle cause prime (3.3)


- di Saso Bellantone
Al tempo di Aristotele (Stagira 384/3 a.C – Calcide 322 a.C.) la filosofia è già una disciplina insegnata nell’Accademia, la scuola fondata da Platone che Aristotele frequenta al partire dal 367. Mentre in età giovanile Platone scrive opere poetiche e si avvicina alla filosofia per mezzo di Socrate, Aristotele scrive sin da giovane delle opere filosofiche, giunte a noi in forma frammentaria. Dai pochi frammenti pervenutici, è possibile tuttavia trarre alcune informazioni sul pensiero aristotelico di questo periodo, nelle quali s’intravedono già i presupposti della riflessione matura del filosofo stagirita. Per esempio, nel Grillo, Aristotele critica la retorica considerandola un mezzo per agire sugli affetti e, durante un corso tenuto in Accademia su questo argomento, per via del successo dello scritto, Aristotele sostiene che la retorica deve essere fondata sulla dialettica. Nel trattato Sulle idee Aristotele dichiara la sua difficoltà a comprendere il rapporto tra idee e cose, criticando la teoria della mixis eudossiana e la teoria platonica della separazione. Del trattato Sul Bene è rimasto qualche frammento ed è impossibile comprendere in quale maniera Aristotele ha affrontato tale argomento. Alcuni pensano sia sviscerato in maniera simile a quella contenuta nella Metafisica, dove Aristotele critica Platone e i Pitagorici per non aver chiarito il significato di partecipazione e di imitazione delle idee, ragion per cui Platone ha introdotto due principi, l’essenza, l’Uno, identificato con il Bene (principio formale), e la Diade, cioè il grande il piccolo (principio materiale), ma sono soltanto supposizioni. Nell’Eudemo o Sull’anima, dedicato al compagno omonimo morto in guerra, Aristotele sostiene la tesi dell’immortalità dell’anima razionale. Alcuni riconoscono in ciò un’adesione al platonismo, altri invece la negano, giustificando la tesi dell’opera in relazione alla morte dell’amico. Nel Protreptico  o Esortazione alla filosofia (conosciuto per le diverse citazioni contenute nell’omonimo scritto di Giamblico), Aristotele sostiene la divisione dell’essere umano in anima e corpo e afferma che la filosofia è il bene più grande, in quanto, diversamente dalle altre scienze che hanno come scopo qualcosa di diverso da sé, essa tende a se stessa. Nel De philosophia, diviso in tre libri, Aristotele definisce la filosofia conoscenza dei principi della realtà (libro primo); critica la teoria platonica delle idee e delle idee numeri (libro secondo); espone la propria teologia, considerando Dio necessario e immutabile, puro pensiero (libro terzo). Insomma, sin dalle opere giovanili è possibile desumere due certezze: la filosofia è ormai una realtà – tant’è che nel Protreptico Aristotele afferma il celebre aforisma “chi pensa sia necessario filosofare, deve filosofare e chi pensa che non si debba filosofare, deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloquio” –; ad Aristotele non va a genio la teoria delle idee (dualismo) e, quindi, la definizione platonica della filosofia. Non a caso, la tradizione ha nominato Platone “il filosofo della trascendenza” e Aristotele “il filosofo dell’immanenza”. Con Aristotele, infatti, appare una differente interpretazione del termine filosofia.
Aristotele vuole individuare un principio eterno e immutabile per spiegare il divenire. Diversamente da Platone, che scorge tale principio nel mondo delle idee, Aristotele pensa che gli enti mutino secondo schemi e regole fisse connaturati. La filosofia deve innanzitutto declinarsi nel senso di una scienza delle cause prime, allo scopo di indagare e scoprire le cause secondo le quali un ente perviene a determinate forme e non ad altre. Le cause mediante le quali un ente passa da una forma a un’altra, secondo Aristotele, sono quattro: formale (qualità dell’ente); materiale (materia di cui l’ente è costituito); efficiente (l’agente che attiva il mutamento); finale (scopo per cui un ente esiste). Configurandosi alla maniera di una scienza delle cause, la filosofia consente non soltanto di indagare le cause del mutamento degli enti ma anche di affrontare in maniera organica e razionale il problema posto da Parmenide: quello dell’Essere e delle sue possibili determinazioni. Dicendo che l’Essere è e non può non essere, secondo Aristotele, Parmenide non ha chiarito che cosa appunto è l’Essere. Lasciandolo senza determinazioni, si corre il pericolo di confonderlo con il non-essere. Per questo motivo, Aristotele si pone il compito di determinare l’Essere parmenideo e, a tal fine, concepisce la filosofia non soltanto come una scienza delle cause prime ma anche come una scienza dei principi primi, scienza dell’Essere in quanto tale (ontologia).
Nel definire la propria filosofia prima, l’ontologia, Aristotele introduce due concetti-chiave: quello di sostanza e di ente. Lo scopo dell’ontologia è di indagare sia l’una sia l’altro. La sostanza può essere sia prima sia seconda: la prima, consiste in ciò che è in sé e per sé, in ciò che per essere non ha bisogno di esistere; la seconda, consta di una serie di sostantivi generici che specificano meglio la sostanza prima, consentendo di rispondere alla domanda “che cos’è”. Prescindendo tuttavia dall’aspetto materiale, ogni ente esprime secondo Aristotele l’essenza, vale a dire la sostanza prima, l’essere. Mentre con il termine Essere Aristotele intende ciò che è in sé e per sé, uno e immutabile, con il termine ente giudica tutto ciò che è, che esiste ed è soggetto alla molteplicità e al divenire. Con il concetto di ente, Aristotele tenta di conciliare l’Essere parmenideo con il divenire eracliteo. L’ente è, secondo Aristotele, un sinolo indivisibile di materia e forma. Ogni ente è governato da una entelechia, da una ragione interna che ne regola il mutamento secondo leggi e schemi fissi, le quali consentono di attuare le possibilità che ogni ente ha in seno. Oltre a quello di sostanza, Aristotele introduce altri nove concetti o categorie, mediante i quali è possibile classificare gli enti – quantità, qualità, dove, quando, relazione, agire, subire, avere, giacere – e che tuttavia hanno senso soltanto se riferiti al concetto di sostanza. Secondo Aristotele si può avere una conoscenza valida e universale soltanto dell’Essere, di ciò che è stabile e immutabile mentre gli enti, che divengono e sono soggetti al mutamenti, non sono conoscibili. Per farlo, occorre sempre riferirsi all’Essere.
Pur essendo generato dalle quattro cause, se si risale a ritroso il movimento si giunge a un punto che lo alimenta: Dio (l’ontologia si risolve nella teologia). Dio è il motore immobile e la meta ultima del movimento del tutto, perché è causa incausata, atto puro. Mentre negli enti l’essenza è qualcosa di potenziale, nel motore immobile è esclusivamente tradotta in atto. Tutti gli enti, secondo Aristotele, sono attratti dalla forza d’attrazione di questo motore immobile, da questa sostanza pura, pura necessità senza possibilità, nella quale tutto è assolutamente compiuto, senza divenire alcuno né difetti materiali. La conoscenza, secondo Aristotele, mira in un’ultima istanza a questo motore primo.
Aristotele pensa vi siano diversi gradi della conoscenza ma, ai suoi occhi, tutto parte dall’esperienza sensibile. L’essere umano non possiede idee innate ma soltanto alcune capacità: quella di cogliere l’essenza in atto negli enti, andando oltre il loro apparire specifico; quella di organizzare le conoscenze. Come avviene dunque la conoscenza secondo Aristotele?
La conoscenza aristotelica è di tipo induttivo, cioè astrae l’universale dal particolare. Il punto di partenza, dunque, è la sensazione delle cose particolari. L’intelletto è potenzialmente capace di astrarre l’essenza in atto, l’universale dall’ente particolare ma per farlo necessita di una qualche realtà, di un lato di sé già in atto nello scorgere l’essenza (forma). Questo versante attivo dell’intelletto è l’intuizione intellettuale (nous), la capacità da parte della mente umana di pensare se stessa (consapevolezza) e di decidere autonomamente (libertà). Questa forma di conoscenza, di tipo contemplativo, conduce a una corrispondenza tra realtà e intelletto.
Aristotele non si ferma alla conoscenza noetica riguardante cioè la verità degli enti, ma si occupa di altre questioni come la biologia, l’astronomia, la logica, la dialettica, il linguaggio (che per il momento non ci interessano), l’etica. Coerentemente con la sua ontologia, Aristotele pensa che la condotta migliore per poter vivere un’esistenza felice è quella di realizzare la propria essenza. L’essere umano può realizzare se stesso mediante tre forme di vita: edonistica (cura del corpo), politica (rapporto sociale con gli altri) e teoretica (conoscenza contemplativa della verità), quest’ultima, naturalmente, è al di sopra delle altre. Questi stili di vita devono integrarsi tra loro, perché l’anima umana è contraddistinta da tre volti che devono essere appagati: anima vegetativa, comune alle piante e agli animali (attiene ai processi nutritivi e riproduttivi); anima animale, comune agli animali (riguarda le passioni e i desideri); anima razionale, esclusiva dell’essere umano (esercizio dell’intelletto). Mentre lo scopo dell’anima vegetativa è nella ricerca del piacere e della salute, quello dell’anima animale di dominare le passioni mediante l’esercizio della ragione e la ricerca del giusto mezzo, dalla quale scaturiscono le virtù etiche (coraggio, temperanza, liberalità, magnificenza, magnanimità, mansuetudine). Ma dal momento che l’essere umano è un animale sociale, deve guidare in modo equilibrato i rapporti con gli altri, sulla base del riconoscimento degli onori e del prestigio scaturenti dall’esercizio delle cariche pubbliche, e mediante l’uso della virtù della giustizia che riassume tutte le altre virtù. All’anima razionale toccano secondo Aristotele le virtù dianoetiche, suddivise in calcolative e scientifiche. Lo scopo dell’anima razionale è la creazione di strumenti in vista di qualcos’altro (tèchne); l’uso della saggezza per guidare le virtù etiche e l’azione politica (phrònesis) e far sì che qualsiasi forma di Stato, la monarchia, l’aristocrazia o la democrazia, non degeneri in tirannia, oligarchia, oclocrazia; la conoscenza disinteressata della verità (sophìa). Al raggiungimento di quest’ultima collaborano la scienza (epistème), la capacità di compiere dimostrazioni, e l’intelligenza (nous) che fornisce i principi primi da cui scaturiscono quelle dimostrazioni.
La conoscenza, secondo Aristotele, è uno “stile di vita” slegato da ogni finalità pratica cui tutti gli uomini tendono ma realizzata soltanto i filosofi (come Platone) perché non ha nessuna finalità pratica. I filosofi dunque generano un sapere inutile ma proprio per questo motivo tale sapere è secondo Aristotele assolutamente libero. La felicità (eudamonìa) consiste secondo Aristotele nella contemplazione della verità, elemento cardine che distingue l’essere umano dagli animali e lo rende simile a Dio, atto puro, pensiero di pensiero, pura riflessione autosufficiente che ricerca esclusivamente se stesso.