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mercoledì 25 dicembre 2013

Buon Natale...


Disoblio ti augura un buon Natale...

lunedì 23 dicembre 2013

OLTREWEB: Homo consumante e consumato


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
il Natale è alle porte e come ogni anno ti prepari a passare questa ricorrenza come di consueto, vale a dire dando fuoco alle polveri rimaste dei tuoi risparmi e del tuo essere. I lunghi dodici mesi nei quali hai dovuto disperatamente sopravvivere sono ormai trascorsi e adesso puoi distenderti, puoi perderti nel labirinto di negozi e supermercati per trovare doni costosi e inutili per ogni parente e amico e per imbandire lussuosamente la tavola di tutti quegli alimenti e pietanze che, com'è consuetudine, finiranno nella pattumiera.
Non è una questione di apparenza. So che non vuoi darti a vedere. È una tradizione. Un rito. Nel corso di ogni festa o ricorrenza occorre abbondare, eccedere, dilapidare tutto ciò che si ha affinché il Sole, passando per la porta degli dei, compia un nuovo giro e consenta alla natura di rinascere e di offrire in maniera gratuita e oltre misura tutti i beni e i prodotti necessari alla vita... e all'essere umano.
Gli antichi sapevano questo. Infatti ogni anno sciupavano tutti i beni posseduti, per assicurarsi il favore della Dea Madre e ottenere in cambio un numero di beni maggiore di quelli distrutti, consumati, sprecati.
Ma tu, mio caro web, che sai benissimo che è la Terra a girare intorno al Sole e che è grazie a questo moto di rivoluzione che accadono le stagioni, dal cui mutamento sono causati i beni e i prodotti naturali, per quale motivo ogni anno, puntualmente, così come facevano i tuoi antenati, continui a distruggere, a consumare, a sprecare tutto quello che hai, anzi, tutto quello che ti è rimasto?
Perché è un'usanza? No. Perché trovi godimento o giovamento nel farlo? No. E allora perché? Perché ti è rimasto soltanto questo? Vale a dire distruggere, consumare, sprecare? Sì.
L'essere umano si è ormai arroccato nell'homo consumans e non ha più intenzione di procedere oltre nella propria scala evolutiva. Anzi, non ci riesce. La crisi dell'economia stivalica, continuamente mascherata dai mass-media nel paese delle meraviglie ma vissuta realmente e dolorosamente dalla gente, ha cancellato ogni speranza, ogni possibilità di uscire dal circolo vizioso del consumo. Manca il lavoro, le aziende chiudono, gli enti non assumono, i giovani sono sfruttati senza contratto né stipendio alcuno e abbandonati con un semplice “grazie, ti faremo sapere”, gli anziani rubano gli alimenti abbandonati nei mercati di periferia, le tasse aumentano e si moltiplicano, e nessuno tra politici e potenti trova il coraggio di dire basta a questo sistema di bancarotta perfetta, di continuo indebitamento eurunitario, di interminabile spopolamento dello Stivale, per morte ed espatrio.
Già. L'essere umano è fermo, statico nel suo volto consumante e consumato, senza miracoli, né speranze né paradisi artificiali. Consumato dai prestiti, per pagare casa, bollette, figli, benzina, ossigeno e quant'altro rientri nella vita sociale. Consumato dalla consapevolezza che non riuscirà mai a fare pari in bilancio tantomeno ad essere un domani in attivo. Consumato dal demone collettivo che lo spinge imperterrito a consumare ogni fuggevole bene e servizio, obbligatorio ormai per il proprio sostentamento, per scansare l'estrema ratio di finire sotto un ponte, in gattabuia o tra le braccia della Dama Nera, come accaduto a tanti altri conterranei.
Ora capisco, mio caro web, perché continui a distruggere, a consumare, a sprecare durante ogni Natale, Santo Stefano e Capodanno. Perché sai fare soltanto questo. Perché ti è rimasto soltanto rovinare, dissipare, buttare via quello che non sarà mai tuo bensì del tentacolo del Grande Leviatano del Nord, o del Leviatano stesso, o del dio che lo comanda, o della casta sacerdotale che sovrintende a tale dio.
E allora consuma, mio caro web! Distruggi, spreca, dilapida, dissipa, sgretola, logora tutto ciò che non è tuo. Finché puoi farlo.
Domani, non potrai fare nemmeno questo.
Medita web, medita...

pubblicato su Cmnews.it
http://www.cmnews.it/rubriche/oltreweb/homo-consumante-e-consumato/

venerdì 20 dicembre 2013

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Serena Sinopoli, voce dei THE SICK DOGS


- di Saso Bellantone
Serena Sinopoli proviene dalla provincia di Reggio Calabria ma per continuare a soddisfare le sue esigenze artistiche e musicali ha scelto di vivere a Cosenza. Da circa due anni ha scoperto la musica e ha iniziato nel 2010 con un gruppo jazz\bossa fino a ritrovarsi tra le mani il progetto più interessante della sua esperienza musicale a cui dedica gran parte del proprio tempo, i THE SICK DOGS. “È un progetto nato nell’aprile 2011 quasi per caso, e proprio il caso ha deciso di unirci, in una visione della musica così ampia, che ha dato vita (come ho rilasciato nell’ultima intervista) ad un genere musicale indefinito ma al tempo stesso chiaro. La prima regola che ci siamo posti è di non prefissarci generi musicali, sperimentare ma senza troppi eccessi di libertà musicale o virtuosismi di genere che, non possono che uccidere la musica come essenza, senza rispettare chi ti ascolta”.

Come ti sei avvicinata alla musica?
Inizialmente ho assorbito (come gran parte di noi) la musica all’interno del nucleo familiare che mi ha sempre indirizzato verso un certo tipo di ascolti, jazz, fusion, Blues e quant’altro, che ha influito tantissimo nel modo di esprimermi. La mia indipendenza musicale mi ha spinto a ricercare sonorità più varie e tendenzialmente più Rock: Progressive, Rock&blues, PostRock e contaminazioni.


Che cos'è la musica?
È un’esigenza… forse una “filosofia” messa in pratica.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della musica, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Viviamo un’epoca in cui la musica non ha più uno scopo prettamente sociale… perché dovrebbe? Guardandoci intorno ognuno “cura il proprio giardino”. Gli stessi brani evidenziano tale sentimento intimistico risaltando gli aspetti più tormentati derivanti da domande irrisolte che facciamo a noi stessi e alla vita. Gli usi della musica non sono abbastanza caratterizzanti in quanto, inconsciamente “scimmiottiamo” un po’ tutti, ciò che è già esistito e che esiste… inevitabile in un’era di bombardamenti di rete, televisivi, e via dicendo.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio , la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire i brani dei Sick Dogs“poesie”, opere d'arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Li definisco descrizioni di stati d’animo ignoti, “domande su domande irrisolte”, viaggi di parole, anche insensate, che acquisiscono valore dentro la metrica, che pian piano si evolve in ritmo e comincia a prendere forma attraverso il suono!

Perché canti? Perché senti l'esigenza di comunicare mediante l'arte del canto?
Qualsiasi attività che concerne l’uso del corpo è una sorta di sfogo, un sollievo che esorcizza le nevrosi che l’essere umano accumula inconsciamente… Perciò il canto è una terapia, che, essendo uno dei fenomeni naturali più affascinanti, ho deciso di perfezionare, sia per me stessa sia per chi mi ascolta affinché sia chiaro il messaggio che voglio comunicare.

Che cosa raccontano i brani dei The Sick Dogs?
La maggior parte dei brani sottolineano aspetti esistenziali (come nei brani: IL DILETTO DEI TAUMATURGHI, STASI, DREAM), attimi di vita (CORNICE E PRESENTE) e (come già scritto nella precedente risposta) stati d’animo che nel linguaggio di tutti i giorni, sarebbe difficile spiegare o quasi impossibile, perciò subentra, nel testo, un gioco di parole e aggettivi che possono avvicinarsi alla descrizione di tale impulso. Ovviamente non tutti i brani si concentrano su “tali stati d’animo”, capita che ci sia un personaggio (GREGOR: riferimento al personaggio kafkiano), una storia (LUPAE: storia di una prostituta dell’antica Roma che confessa i suoi sentimenti alla luna), un elogio ai grandi pensatori (PREGHIERA: elogio a Platone e al mondo classico).

Una musicista può sentirsi tale senza i pubblici?
Certo! Ma il pubblico è donatore di energia, necessaria ad un musicista per una maggiore rendita artistica.

Che cosa significa oggi vivere come un musicista e vivere esclusivamente della propria musica? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
La musica è un grande dono! Ma purtroppo sacrificio e missione sono le parole con cui devi fare i conti tutti i giorni:
PRIMO PUNTO da affrontare è il RUOLO SOCIALE (che fai nella vita? – suono! – sì... ma che fai?);
SECONDO PUNTO sono LE SPESE (sala prove, autoproduzione di cd, di gadget, cambio corde chitarra, manutenzione degli strumenti ecc…);
TERZO PUNTO è quello più comune (lavorare quà e là il più possibile accontentandoti di poco per mantenerti i bisogni primari: bollette, alimenti, affitto ecc…).

Cosa spinge te e i The Sick Dogs a restare nel sud?
Al momento siamo attivi a Cosenza ma vorremmo far girare il più possibile la nostra musica viaggiando… Spero sia possibile al più presto!

Puoi definirti una sognatrice? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Faccio già quello che avrei voluto fare da tempo! Dedicarmi alla musica. Per adesso va bene così…

Chi vuole saperne di più su di te e sui The Sick Dogs, dove può rivolgersi?
Come primo contatto consigliamo la nostra pagina facebook “THE SICK DOGS” dove potrete trovare tutte le news sulle prossime date ma soprattutto sull’uscita del nuovo videoclip, e del nuovo ep CORNICE, che sarà possibile reperire tramite i nostri contatti facebook. Per ascoltare il nostro primo ep “THE SICK DOGS” visitate le piattaforme musicali REVERBNATION, BANDCAMP, SOUNDCLOUD (digitando il nostro nome)! Anche sul nostro canale di YOUTUBE avrete la possibilità di ascoltare qualche nostro brano (live, registrazioni in studio, videoclip).
Alcune parole per i giovani.

Qualsiasi cosa è possibile! Chiedetevi cosa vorreste fare nella vita e non pensateci due volte per farlo!

mercoledì 18 dicembre 2013

Andirivieni contingente


- di Saso Bellantone
"Nella vita non esiste viaggio di sola andata, tutto ritorna: le buone azioni, quelle cattive, il suo viso, un'idea".

lunedì 9 dicembre 2013

OLTREWEB: C'è un Mandela dentro di noi?


- di Saso Bellantone

Buon meriggio web,
la scomparsa di Nelson Mandela avvolge una fascia in segno di cordoglio nel tuo braccio. Una fascia nera. Nera come il colore della pelle per la cui libertà Rolihlahla – il nome datogli alla nascita, che significa “colui che provoca guai” – si è sempre battuto, fondando associazioni, movimenti, uffici legali e finendo persino dietro le sbarre. Mandela sarà sempre ricordato per i guai causati ai promotori e sostenitori dell'apartheid, quella forma di governo cioè basata su alcune prerogative. Separazione tra bianchi e neri in zone differenti, territoriali e pubbliche; proibizione della sessualità promiscua, dell'accesso in precise zone urbane, se non per mezzo di passaporti speciali, o dell'uso di determinate strutture pubbliche; messa al bando di ogni opposizione comunista; obbligo della registrazione per razza; discriminazione lavorativa; confinamento nei ghetti. Mandela è stato un esempio di libertà per molti connazionali, con i quali, persino dietro le sbarre e nei campi di battaglia, è riuscito a far crollare tale regime e ad instaurare nel Sudafrica non soltanto la democrazia, ma anche l'uguaglianza tra gli esseri umani, indipendentemente dal colore della pelle, e la libertà. Anzi, le libertà. Oggi tutte le proibizioni, i divieti, le prescrizioni e gli obblighi sopra citati non ci sono più... in Sudafrica. Ma nella democrazia planetaria, oggi, può dirsi lo stesso?
Guardandolo con occhi altri, il globo sembra essere un Apartheid economico, suddiviso cioè tra chi ha i soldi (celebrità, autorità, potere) e chi non ce li ha. I primi sono liberi, specialmente dal lavoro, i secondi sono schiavi, soprattutto del lavoro. I ricchi sono proprietari: di case, terreni, aerei, treni, navi, aziende, banche, partiti, canali televisivi, radio, giornali e persone. I poveri non possiedono nemmeno se stessi. Infatuati subliminalmente dallo stile di vita dei primi, inoculato nella loro psiche e nel loro inconscio per mezzo degli strumenti di comunicazione di massa, i poveri sognano di diventare dei ricchi e di imitare questi ultimi in ogni livello della società.
Di abitare nei luoghi “dei” ricchi, in ville sfarzose o case talmente accessoriate, ecologiche e tecnologiche a un tempo, da evocare quelle lette nelle pagine o viste nelle pellicole dei maestri della fantascienza. Di sposarsi “tra” ricchi, con cerimonie lussuosissime e privatissime svolte in castelli medievali, antichi templi e monasteri o in isole felici sperdute nell'oceano, nel deserto o nelle più alte vette del globo. Di frequentare i locali “dei” ricchi, come i bilionaire, gli attici, i privè, le sfilate di moda, le serate di gala, i casinò, i camping, le spiagge, i ristoranti, i villaggi e i negozi creati dai ricchi per i ricchi. Di accedere alle prime classi di aerei e treni, di entrare negli stadi e nelle strutture pubbliche per mezzo di accessi riservati. Di guidare costosissime automobili e motociclette. Di possedere le tecnologie più recenti. Di vestire capi firmati. Di diventare, insomma, dei vip a tutti gli effetti, aventi cioè tanti soldi, che è uguale ad avere tanto successo, che è uguale ad avere tanta influenza nelle stanze dei bottoni di ogni dimensione della nostra società, che è uguale ad avere potere.
Imbambolandosi con queste fantasticherie, i poveri non si rendono conto di aspirare ad emanciparsi da se stessi, cioè da quell'unico elemento che li tiene ancorati a quell'idea di umanità e di buon senso che li contraddistingue e li fa essere, ognuno, unici: la povertà.
Che significato ha l'attuale scaldarsi per essere tutti (di nuovo) benestanti? Un'uguaglianza economica, e cioè l'avere tutti quanti un conto in banca illimitato e imperituro, può forse risolvere definitivamente i reali problemi nei quali si è coinvolti? I malanni, le deformità, le imperfezioni genetiche non dovrebbero essere curabili o correggibili gratuitamente? Le attività e le pratiche inquinanti, con le quali uccidiamo il pianeta, non dovrebbero essere sostituite da condotte ecologiche, a tutela di esso? Le calamità naturali non dovrebbero essere previste e prevenute? Internet, il cellulare, l'energia elettrica, l'acqua potabile, il carburante, l'igiene cittadino, la salute, l'istruzione, la formazione continua, la pensione, un tetto sotto il quale abitare, ristorarsi, recuperare le forze e condividere il tempo che resta con le persone che si ama e da cui si è amati, non dovrebbero essere fruibili gratuitamente da tutti per diritto? Senza tassazione alcuna? L'essere umano non dovrebbe avere per diritto naturale un lavoro col quale sentirsi parte della comunità nella quale vive? I mezzi pubblici non dovrebbero essere gratuiti per tutti? E se così non è possibile, l'azienda non dovrebbe decurtare dalla busta paga le spese che l'impiegato o l'operaio sostiene per andare a lavorare? Lo Stato non dovrebbe conteggiare le spese a cui il disoccupato fa fronte per trovarsi un lavoro o affrontare un concorso? L'Iva, l'Irpef, l'Inps, le spese di registrazione, di gestione, di invio e ricezione documenti, di assicurazione, di bollo, non dovrebbero essere aboliti? L'essere umano non dovrebbe nascere senza problema economico alcuno?
No, mio caro web, non è essendo tutti quanti dei vip che è possibile affrontare questi problemi, perché avendo le tasche piene si baderebbe soltanto alla fama, al successo, al potere e alla differenziazione in classi, conseguente, tra chi ha soldi e chi non ne ha. Perché per essere dei vip, è necessario che qualcuno non lo sia. E ciò vuol dire che occorre che qualcuno sia squattrinato, sventurato, povero e pazzo, affinché qualcun altro sia benestante, fortunato, ricco e potente.
È preferibile che siano tutti quanti in rosso, in bancarotta, nullatenenti, per accorgersi di quei problemi e per accorgersi che tante di quelle tassazioni non hanno diritto ad esistere. Sono soltanto delle invenzioni per creare distinzioni sociali, gruppi, divisioni tra ricchi e poveri, vip e sconosciuti, potenti e impotenti.
Possibile, mio caro web, che, malgrado non si sia ancora diventati tutti poveri, non ci sia un Mandela dentro di noi? Possibile che nessuno si sia accorto dell'Apartheid economico nel quale viviamo e nel quale siamo costretti? Possibile che non ci sia nessuno che affermi “Non importa quanto stretto sia il passaggio/quanta piena di castighi la vita/, io sono il padrone del mio destino;/io sono il capitano della mia anima”(Invictus, di W. E. Henley), e che si batta per la giustizia? Per il diritto ad abitare questo mondo, sgravati dal peso delle diaboliche invenzioni umane in vista del potere?
Riposa in pace, Nelson, per un po' di tempo. Riposa in pace, e rinasci. Urge un Rolihlahla per il pianeta. Noi, “neri” dell'Apartheid economico, abbiamo bisogno di “qualcuno che provochi guai”. Per il nostro bene.
Medita web, medita...

pubblicato su Cmnews.it

venerdì 6 dicembre 2013

Pensieri visivi: LA FIUMANA di Giuseppe Pellizza Da Volpedo


- di Saso Bellantone

Contadini, pastori, pescatori, fabbri, maniscalchi, muratori, calzolai, panettieri, vetrai, ceramisti, mercanti, sarti, camerieri, badanti, maestri, suonatori... È interminabile la fila di lavoratori che si tenta di elencare. Lunghissima. È più facile esporre “chi” c'è dietro tutte quelle professioni. Uomini e donne. Bambini e anziani. Indossano abiti semplici, sporchi e logori. Gli unici che possano permettersi. Trattati con cura, malgrado le macchie e gli strappi, perché non possono comperarne degli altri. Sono poveri. Senza avere alcuno. Vivono alla giornata, dormono dove capita. Svolgono qualsiasi attività consenta loro e ai propri cari di sopravvivere un giorno ancora. Non hanno sogni né aspettative. Resistono, fieri nella sofferenza, aiutandosi gratuitamente tra di loro. Specie innanzi alle crudeltà dei ricchi.
Odiano i ricchi. I ricchi hanno tutto. Non lavorano mai. Hanno gli abiti più costosi, usati una volta sola e poi gettati. Hanno soldi, case, terre, tecnologie, tutto. Vivono alle spalle dei poveri, serviti e riveriti sempre, dall'alba al tramonto. Non lavorano mai e insegnano ai propri figli di fare lo stesso. Sono i proprietari dei sogni e sperano, anzi, fanno di tutto per poter ampliare la propria fortuna con il minimo sforzo. Impartiscono ordini, voltafaccia e ipocriti, e non aiutano nessun altro. Nemmeno del proprio rango. A meno che non debbano ingrossare domani il proprio tornaconto, la propria ricchezza e autorità, contate sulle teste dei poveri che hanno, e avranno.
La fiumana di Giuseppe Pellizza De Volpedo fa pensare al passato, e spinge a chiedersi se quest'ultimo sia passato davvero oppure stia ritornando. C'è stato un momento in cui si credeva di cancellare definitivamente la povertà dalla faccia del pianeta, invece la povertà è ricomparsa e, con essa, è tornata la separazione nelle classi degli abbienti e dei nullatenenti. Tale diversificazione però, rispetto a quelle passate, nella cornice della globalizzazione di tutti i comportamenti e le dimensioni umane, sembra essere fatale. Decisiva. Ultima. Sembra proporsi come la base di un nuovo ordine mondiale, nel quale i primi, ora e sempre, comandano, e i secondi, ora e sempre, obbediscono.
Le multinazionali e le banche tengono sotto scacco gli Stati, decidendone le sorti con semplici click e costringendoli a peripezie economico-finanziarie per restare a galla. Tali manovre prevedono un aumento continuo delle tasse, che si ripercuote sull'economia statale, decretando un aumento del costo della produzione e del consumo dei beni e dei servizi, e una diminuzione della moneta in circolo. La gente evita di spendere, riduce le spese il più possibile. Per assicurarsi il pagamento di tasse, mutui, prestiti e finanziarie, compra l'essenziale, quei prodotti cioè necessari per il sostentamento. Il superfluo è scansato accuratamente e, malgrado le speranze di venir fuori un domani da tale circuito d'indebitamento, la gente continua a indebitarsi, a fare nuovi mutui, prestiti e finanziarie per pagare le tasse, e sopravvivere.
Le aziende chiudono: per il medesimo problema; per i crediti che non riscuoteranno mai; per il costo del lavoro; per l'IVA, l'INPS, il CCNL e quant'altro. Gli operai vengono licenziati. Gli enti pubblici subiscono drastiche riduzioni del personale, comportando un peggioramento dei servizi. I giovani, neolaureati e professionisti, espatriano, dopo l'illusione di contratti a progetto o a tempo determinato, reali e fittizi, dal quale non ne hanno ricavato nulla, fuorché l'aver fatto un favore alle aziende ed essere mandati a casa con un semplice grazie. Gli anziani non arrivano al giorno 10 di ogni mese. Gli immigrati fuggono dalla morte per trovarne una nuova. Si perde il lavoro, la casa, la famiglia, se stessi. Si impazzisce. Si diventa criminali, consapevolmente, perché il dio-denaro-multinazionale-banca non propone alternativa alcuna per restare onesti.
Innanzi a tale implosione generale interna, gli Stati chiedono fondi a banche centrali e ad enti internazionali per il credito, aumentando a loro volta, da un lato, il debito pubblico che mai riusciranno a estinguere, dall'altro lato l'implosione stessa. I politici, in ultima istanza, fingono di operare, di assumere delle posizioni e delle scelte a favore della gente, assicurandosi, alla fine, che tutto resti uguale a prima, vale a dire nella forma con la quale sono giunti al potere e all'aspettativa di radicarsi nel ceto degli abbienti, dei potenti della terra.
La povertà è tornata, e all'orizzonte non si vede modo alcuno per contrastarla, per combatterla. La gente è ormai disperata e rassegnata. Ha paura di ribellarsi perché sa che sarà presa a manganellate, incarcerata o trucidata senza battito di ciglia alcuno di altrettanta gente in uniforme, costretta a fare il proprio dovere, per non essere manganellata, incarcerata o trucidata anche lei. È la fine. La falsa democrazia ha condotto alla catastrofe: un orrendo totalitarismo del mercato, nelle mani di pochi ricchi.
Il futuro è già segnato e molti ancora non lo sanno. Non sanno che li spetta tornare nuovamente alla condizione rappresentata da La fiumana. Poveri contro ricchi. Poveri, ma stavolta senza speranza di riscatto alcuno dalla propria misera esistenza.


mercoledì 4 dicembre 2013

Nuovo realismo


- di Saso Bellantone
"C'è un solo modo per uscire dal labirinto delle idee... radicarsi con più forza nelle profondità della terra".

martedì 3 dicembre 2013

lunedì 2 dicembre 2013

OLTREWEB: Vittima sacrifi-sconi

- di Saso Bellantone

Buon meriggio web,
dopo una pausa durata anche troppo, la rubrica OLTREWEB torna, richiamata prepotentemente dalla strana aria che si respira in questi giorni. Ha il profumo di cambiamento, di metamorfosi, quest'aria. È provocata da una crisalide che improvvisamente ha deciso di trasformarsi in farfalla, per volare nel cielo di ogni singolo individuo e difenderne i diritti fondamentali. Per diventare tale, però, tale ninfa aveva bisogno di una vittima sacrificale e sembra l'abbia trovata. Decidendo la decadenza de l'uomo-che-chiede-il-consenso, la crisalide-Parlamento sta facendo la storia. Si sta purificando di tutti i mali della politica stivalica ereditati, per chiudere una pagina (lunga, ahinoi!) della storia politica dello Stivale e di aprirne una nuova. Ella va verso un nuovo inizio, con il quale tornare (o cominciare?) a occuparsi seriamente della cosa pubblica, del bene comune, dello Stato. Ciò perché lo Stato (cioè l'insieme dei cittadini e del patrimonio mobile e immobile stivalico) soffre. Sta morendo. E una tale mutazione, generata con il sacrificio umano, è divenuta necessaria. Doverosa. Inevitabile.
Difatti: gli imprenditori si suicidano. Gli operai vengono licenziati. Le aziende chiudono. Le attività commerciali dichiarano fallimento. I giovani espatriano. I pensionati lavorano in nero. I disoccupati non sanno dove sbattere la testa. Gli inoccupati invece sanno di doverla picchiare nel muro della disperazione e della morte certa, non fosse per le associazioni umanitarie e religiose, famiglie comprese (associazioni non riconosciute, i cui sacrifici non sono applauditi da nessuno), che danno loro un pasto caldo e un tetto in cui dormire. Chi fortunatamente lavora ancora, non sa come pagare le tasse, che aumentano di continuo, né come arrivare a fine mese. I figli (fortunato chi va ancora a scuola o all'università) diventano criminali. Si drogano, bevono, spacciano, si prostituiscono, sicuri di non avere futuro alcuno. Gli immigrati, senza alternativa nel loro paese d'origine, muiono, o vengono rispediti a calci al mittente, in spregio alla carta dei diritti fondamentali dell'uomo...
Sì. C'era proprio bisogno di questa mutazione e di questo sacrificio. È giunta l'ora di rimboccarsi le maniche e di lavorare per davvero, per ridare un po' di speranza a chi non ne ha più.
Ma sarà proprio così? Il Parlamento stivalico o, meglio, la politica stivalica ha realmente deciso di darsi da fare? Di operare PER la gente?
Il profumo di cambiamento che si respira nell'aria è forte, sì, ma tale intensità sembra celare un cattivo odore, sembra puzzare. Sembra si tema il malcontento generale che ormai è diventato una bomba ad orologeria che potrebbe minare dalle fondamenta la Repubblica stivalica. La gente (sopra sintetizzata, e anche malamente), potrebbe ribellarsi davvero. Potrebbe scagliarsi contro la politica stivalica, prenderne brutalmente il posto e fare quello che non è stato fatto finora.
È possibile, dunque, che la politica stivalica abbia sacrificato l'uomo-che-chiede-il-consenso per salvare il salvabile? Per salvare se stessa? È possibile che le scissioni di partito, la nascita di nuovi, il cambio di segreteria, le nuove alleanze siano da intendere in questo senso? È possibile che dopo Cesare, Robespierre, Bettino Craxi, il Parlamento abbia deciso di offrire una vittima sacrificale per mantenere il proprio potere? Per illudere la gente che adesso è l'ora della giustizia? Della legalità? Della trasparenza? E nel frattempo riassemblare gli equilibri e continuare a occuparsi degli interessi personali, assicurandosi ora il mantenimento dello Stivale nella zona-Leviatano per poi riscuotere pacchetti di potere all'interno del Grande Leviatano del Nord? E tutto questo, natauralmente, a scapito degli stivalici creduloni?
Si respira una strana aria in questi giorni. Ha il profumo di cambiamento, di metamorfosi, quest'aria. Ed è forte. Ma tale intensità sembra celare un cattivo odore, sembra puzzare. Possibile, mio caro web, che hai disimparato a riconoscere gli odori? A distinguere il profumo dal cattivo odore? E se invece non l'avessi mai dimenticato?
Medita web, medita...

pubblicato su Cmnews.it
http://www.cmnews.it/rubriche/oltreweb/oltreweb-vittima-sacrifi-sconi/

giovedì 28 novembre 2013

Versieri: NUBI (I) di Jorge Luis Borges


- di Saso Bellantone

Non vi sarà mai cosa che non sia
una nube. Lo son le cattedrali
di vasta pietra e bibliche vetrate
che il tempo spianerà. Lo è l'Odissea,
che cambia come il mare. Se la riapri
sempre cambia qualcosa. Anche il riflesso
del tuo viso è già un altro nello specchio
ed il giorno è un dubbioso labirinto.
Siamo chi se ne va. La numerosa
nuvola che si disfa all'occidente
è nostra effigie. Incessamente
la rosa si tramuta in altra rosa.
Sei nuvola, sei mare, sei l'oblio.
Sei anche tutto quello che hai smarrito.

“Chi sono?”. Quante volte ci si pone tale interrogativo... Quante volte se ne esce sconfitti, privi, di una risposta capace di dare senso e definizione al nostro essere e all'esistenza intera... Sempre. Come una campana di vetro precipitata improvvisamente dal cielo, questa domanda ci disorienta, ci isola, lasciandoci in balia di un rompicapo che sembra quasi una condanna. La domanda è crudele, spietata, soffocante, mortale. Vorremmo spezzare la parete trasparente che ci ingabbia con essa e fuggire via, sparire. Vorremmo correre lontano da essa, seminarla e tornare alla piatta quotidianità, coscienti di consumarci in maniera tragicamente dolce e dolcemente fatale. Ma anche se ci siamo riusciti, ecco la calotta di cristallo piombare nuovamente su di noi, infliggendoci la pena peggiore: la domanda sulla nostra identità.
Pur fuggendo in capo al mondo o, potendolo fare, in altre dimensioni, la domanda ci perseguita come predatore bracca la propria preda. Non c'è scampo: continuando la fuga, la si ritrova ancora al proprio fianco come un'ombra. La propria.
Quando però la follia è ormai di casa, quando ci si accorge che non c'è tempo e modo alcuno per scansare l'interrogativo che ci tormenta, ecco che si trova la forza di arrestarsi, il coraggio di isolarsi e la determinazione di affrontare faccia a faccia l'implacabile nemico che continua a pedinarci. E allora la semplicità della soluzione, della risposta, sfiora l'inimmaginabile: “Sono tempo”.
Nella poesia Nubi (I), Jorge Luis Borges sottolinea come l'essenza di ognuno, e dell'esistente intero, sia principalmente il tempo, la scadenza, il conto alla rovescia, la mortalità. Si è transitori, passeggeri, provvisori, instabili. Tutto è fragile, insicuro, effimero come una nube: le cattedrali, l'Odissea, il riflesso del viso della persona amata, il giorno, una rosa. Tutto cambia, muta e si tramuta. Siamo tempo, e siamo anche assenza, tempo cioè delle persone e degli enti spariti, trapassati, deceduti, o smarriti. Sia avendone memoria, sia obliandola. Siamo temporalità, divenire, fluire, diversificazione continua, andare e... non tornare più. Mai più. Come la nuvola che si disfa all'occidente, come l'onda del mare che s'infrange sulla battigia o sulla scogliera, come la dimenticanza stessa, siamo privi d'identità. Non somigliamo mai a quel che siamo stati un attimo prima né somiglieremo a quel che saremo nell'attimo a venire. Siamo la trasformazione stessa, la trasfigurazione continua fino alla morte.
Consapevoli dell'atroce indole che ci accomuna all'intero esistente, non rimane che decidere, finché ci è concesso, in che modo passare il tempo restante che si è, nella continua metamorfosi cui si è soggetti che conduce alla fine. Alcuni ripudiano tale destino, scagliandosi contro un ente supremo e creatore; altri lo accettano giustificandolo speranzosi all'interno di una cornice ultraterrena o di un circuito uguale o simile al samsara. Altri ancora, cominciano a pensare che se c'è bellezza in tutto ciò che muta e svanisce – in una cattedrale, nell'Odissea, nel viso della persona amata, nel giorno, in una rosa, in una nuvola, nel mare, nell'oblio, nell'assenza di una persona cara o in tutte le cose che abbiamo smarrito – dev'esserci una bellezza anche in loro. E allora tutto cambia.
Per quanto sia triste, c'è bellezza nella trasformazione continua, nella mortalità.

martedì 26 novembre 2013

Scintille di buio e di luce


- di Saso Bellantone
"Il nichilismo non si supera né si attraversa; il nichilismo si naviga, senza mattino né faro alcuno. Nel nichilismo, tu sei il nichilismo stesso ma sei anche la lanterna del mattino e il faro di ogni porto sicuro".

martedì 19 novembre 2013

mercoledì 6 novembre 2013

Numerica-mente in fallimento


- di Saso Bellantone
"Una società esclusivamente numerabile e calcolante, priva di una meta intellettuale o spirituale, è destinata al continuo fallimento".

giovedì 31 ottobre 2013

sabato 26 ottobre 2013

domenica 13 ottobre 2013

Enpasse d'individuazione


- di Saso Bellantone
"Componi il tuo numero, premi invio e attendi che squilli... Chi risponderà? Te stesso? E chi è... te stesso?"

sabato 5 ottobre 2013

sabato 28 settembre 2013

A spesa di idee


- di Saso Bellantone
"Entra nel tuo pensiero e fa la spesa di idee; quando il sistema sarà fallito definitivamente, saprai da dove cominciare da capo il tuo destino".

lunedì 23 settembre 2013

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Luca Andrieri


- di Saso Bellantone
Luca Andrieri nasce nel 1975 a Castrovillari (CS) e a pochi mesi dalla nascita si trasferisce a Bagnara Calabra a causa dell'improvvisa perdita degli affetti familiari. Nella sua crescita ha sempre cercato delle risposte a quelle domande che la vita gli ha portato inevitabilmente innanzi. Così, evitando di chiudersi a riccio nel suo mondo, cerca queste risposte nella musica che, più di ogni altra forma artistica, lo ha invogliato, stupito, affascinato. Il primo regalo avuto, non a caso, è stata proprio una chitarra, la quale è diventata per Luca uno strumento di vita. Non avendo altre attività, sport o passioni come i suoi coetanei, dopo i libri di scuola Luca passa il tempo, per dare sfogo alle sue sensazioni. Cominciando dunque per gioco questo suo rapporto con la musica, nel tempo Luca scrive delle canzoni, dei testi, lasciati sempre nel cassetto e senza avere una loro fuga nel mondo esterno. Finché, crescendo sempre più voglia di comunicare agli altri i suoi sentimenti e le sue paure, decide di iniziare a comunicare agli altri quello ha dentro, prima facendo piano bar e poi raccogliendo questi suoi pensieri e sensazioni in un cd, “Io e Luca”. Sposato, attualmente vive a Roma.

Come ti sei avvicinato alla musica?
Ascolto musica da sempre. Chi non lo fa. Ascoltavo sempre i cantautori italiani, perché raccontavano pezzi di storia, di vita, con parole semplici, incastonandole bene nella musica per poi cantarle e trasmetterle agli altri. Ed io traevo delle belle sensazioni. C'erano delle frasi, dei versi che ti toccavano perché rispecchiavano qualche aspetto della tua vita, raccontavano qualcosa che magari avevi vissuto. Da lì ho preso spunto, pensando che così come facevano loro potevo provare a fare lo stesso anch'io. Così, ho cercato di raccontare qualche episodio che ho vissuto, i miei primi amori oppure anche il fatto di andare a giocare, di farsi una partita al pallone, raccontandoli sotto forma di poesia e di canzoni. A un mio compleanno, quando mia sorella mi chiese quale regalo desideravo, risposi “Una chitarra”, proprio perché mi affascinava lo strumento. Avrei preferito un pianoforte, ma viste le dimensioni scelsi una chitarra. Non me ne sono pentito, perché ad oggi è lo strumento con cui compongo e che sta sempre assieme a me. Anche durante le gite scolastiche, al posto dei trolley, io avevo sempre questa chitarra, la cui funzione era quella di catturare alcuni momenti della mia vita per poi scriverli, suonarli, raccontarli. È stata, ed è, una bella compagna di viaggio.
Oggi mi trovo a Roma non in maniera casuale. L'ho scelta perché durante la vita ho scritto delle cose più o meno belle. A qualcuno, qualcosa che ho scritto è piaciuta, l'ha fatta sua e ne ha fatto una canzone che secondo me è tra le più belle della musica italiana. Per ovvi motivi non posso dire qual è la canzone né qual è l'artista, però sia l'una sia l’altro, che è romano, sono diventati famosi. Per questo motivo, ho voluto trasferirmi a Roma per trovare una collaborazione con questo artista, che c’è stata ma soltanto nella forma dello studio ed io non venivo mai fuori; cosa che io volevo, non per visibilità e immagine, ma per trasmettere personalmente quello che avevo dentro, piuttosto che scriverlo su di un foglio di carta e farlo esprimere da altri. L’una e l’altra cosa sono diverse. Avendo un vissuto, una storia, avendo tanto da dire, vorrei farlo io, ma questo spazio non mi è stato mai dato. Però sono rimasto a Roma lo stesso, anche perché è una città bellissima ed è un'ottima ispiratrice di canzoni, di musica, di parole.

Che cos'è la musica?
La musica è la più bella e massima espressione che una persona ha dentro di sé, perché gli consente di trasmettere agli altri le sensazioni che ha dentro. È come fa un pittore con un quadro: quando ha una sensazione, un'emozione dentro, la esprime su una tela con un dipinto. Ognuno di noi trova la sua dimensione in qualcosa e per me la musica è tutto, perché la faccio, la vivo, la considero la massima espressione del propri sentimenti. Con la musica, con la melodia riesci a trasmettere il dolore, la tranquillità, la rabbia, qualsiasi emozione ti capiti. Sono stato attratto fin da piccolo dalla musica e la mia vita è stata circondata da lei. Ho sempre ascoltato musica. Ricordo perfino i Bee Hive con Licia. C'è stato un momento in cui dovevo fare il telefilm con Cristina D'avena, per la Fininvest, e dovevo salire a Milano per cantare delle cose. Avevo superato le selezioni e poi non ci sono andato per la costrizione dei familiari, per la scuola, e ho dovuto rifiutare per forza. Anche se non dovessi diventare famoso, per me va già bene così, perché sono riuscito a mettere su un disco, con sette tracce che non sono fini a se stesse ma sono sempre storie diverse, che raccontano degli scorci di vita vissuti.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della musica, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Proprio perché è bella, perché è un mezzo di comunicazione molto importante per chi la fa, chi la canta, chi la esegue, chi la ascolta, la musica può fare molto e dare molto per il sociale. Con la musica puoi raccontare qualsiasi cosa e le emozioni che puoi suscitare con essa possono anche fare una rivoluzione. Puoi sedare gli animi più accessi e, viceversa, svegliare quelli più spenti. La musica può cambiare diverse scene e visuali, a seconda delle angolazioni con cui racconta un fatto o un’emozione. Con la musica puoi dire e fare tutto, dalle grandi rivoluzioni al parlare di sentimenti più concreti, come l'amore.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola si è trasformata nel tempo, di linguaggio in linguaggio, diventando per esempio in italiano “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire la tua musica “poesia”, opera d'arte, creazione nel senso pieno del termine?
Sì. Le tracce contenute nell'album “Io e Luca”, come ho sempre fatto anche con tutte le canzoni che sono ancora rimaste chiuse nel cassetto, sono uscite fuori non per il piacere della scrittura e della composizione, ma perché è un'esigenza che nasce da dentro. Molte volte mi ritrovo a guardare un bel film, un tramonto, un quadro e provo delle emozioni che mi spingono a scrivere. Ho provato a rifiutarmi, ma inevitabilmente c'è una tempesta dentro di me che mi costringe anche alle tre o alle quattro di notte a svegliarmi e a mettermi a scrivere, perché quelle cose che mi hanno ispirato mi erano entrate dentro e in qualche modo le volevo dire a qualcuno. Il miglior modo per farlo, è metterle in musica. Quindi, sono sempre delle sensazioni nuove, che scrivo non tanto per il piacere di fare qualcosa, ma perché è una necessità. All'inizio avevo paura e anche adesso che è nato questo disco ho sempre paura di sbagliare, di lanciare un messaggio sbagliato oppure che non si capisca quello che scrivo. C'è sempre quest'ansia, questa mia paura che non si recepisca con lo stesso sentimento, con la stessa passione quello che ho voluto dire. Spero di dare a chi ascolta la stesse emozioni che ho provato per scrivere parole e musica. È bello scrivere un testo, metterlo in rima, usare la metrica giusta però poi associarci della musica, rendere la parola una melodia non è semplice. Ma a me viene riesce naturale. Non devo forzare le cose. Non cerco la giusta rima, scrivo di getto con la chitarra sia parole sia musica.

Perché canti? Perché senti l'esigenza di comunicare con la tua musica e le tue canzoni?
Parlo sempre con tante persone. Ho conosciuto la persona che soffre, quella che vive nel lusso, ho conosciuto diversi aspetti di vita e ho visto che c'è gente che ha bisogno di esprimere qualcosa e altri che hanno bisogno di raccontare qualcosa della propria vita. C'è gente che ha bisogno di sfogarsi, di aprirsi, di ascoltare delle cose belle, di ascoltare la propria storia o che venga in qualche modo sentita dall'interlocutore ed io, per molti versi, ho catturato la storia di molte persone proprio perché c'erano delle cose che mi accomunavano in molti aspetti a loro. E quindi ho voluto raccontare delle mie cose, proprio perché ho capito che ci sono delle persone che si possono rispecchiare in quello che dico, che ne hanno bisogno. Voglio essere io il tramite, voglio portare un messaggio, voglio trasmettere dei messaggi positivi a chi come me ha sofferto e soffre ancora, e dare un po’ di speranza.

Che cosa racconti nelle tue canzoni?
Messaggi di speranza, di amore. Le mie sono delle canzoni innanzitutto d'amore, ma non solo per la persona che ti sta a fianco, che vorresti o che hai perso, sono dei messaggi d'amore per la vita, per una donna, per una mamma, quella per cui è iniziato tutto questo percorso musicale, amore per chi è capace ancora di emozionarsi, cosa che spesso manca oggigiorno. Infatti io mi trovo spesso spiazzato e fuori tempo per molti aspetti, perché adesso ha molta più risonanza la musica che fa rumore, la musica aggressiva. Quella che faccio io, che è la musica melodica dalla quale non riesco a discostarmi, è un po' allontanata. Ho pure questa difficoltà di inserirmi nel mercato musicale proprio per questo, perché la mia è un tipo di musica che magari andava bene fino a qualche anno fa, mentre adesso ne va bene un altro tipo. Non riuscirei a fare un altro genere di musica. Luca Andrieri è proprio questo, il ragazzo melodico, romantico, a cui piace raccontare l'amore, l'amore in senso lato, universale.

Un cantante, un musicista può sentirsi tale senza i pubblici?
No. Fino a qualche anno fa io non riuscivo a stare nemmeno senza piano bar. Ho sempre suonato, nella mia stanza, ma era una preparazione alle serate. È bello suonare da solo ma nel contempo è avvilente perché non riesci a trasmettere ad altri. Proprio perché ho questa cosa di comunicare, di dare agli altri qualcosa, suonare da solo sarebbe come ripetere a me stesso delle sensazioni già provate e quindi non c'è questo sfogo, questo scambio con l'altro. Facendo piano bar, ho sempre scelto delle canzoni che potessero comunicare agli altri un qualcosa di positivo, dei messaggi di amore e di speranza. Quando invece l’ho accantonato per concentrarmi su questo progetto, che è durato un anno, io faticavo perché non avevo la possibilità di cantare agli altri. Adesso che questo lavoro è finito, finalmente assieme al pensiero e ai messaggi di un De Gregori, di un Baglioni, di un Venditti posso comunicare agli altri anche i miei pensieri e i miei messaggi. E questo, quando vedo la gente emozionarsi con le mie canzoni, mi rende molto felice.

Che cosa significa oggi vivere come un artista? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Vivere da cantante significa dapprima spendere un sacco di soldi, proprio perché c'è un lavoraccio dietro. Io ho fatto tutto da me. Mi sono auto-prodotto, ho comprato i cd vergini per portarli in sala incisione, sono andato dal grafico, ho fatto la grafica, non c'è stato nessuno che ha aperto il portafogli se non io stesso. Perché oggi non c'è più questa figura del produttore di una volta che crede in te e ti dice “Sì tu vali, tu mi piaci, ti sovvenziono io”. Questo, economicamente parlando. Dall'altra parte, vivere da cantante è bello perché non hai limiti, puoi dire ciò che vuoi, come lo vuoi e quando lo vuoi, proprio perché la musica è universale. I sacrifici sono tanti però, ed io li ho affrontati, nella speranza che a qualcuno piacerà ascoltare le mie canzoni.

Cosa ti spinge a tornare nel Sud?
L'amore per il Sud. Ho sempre scritto per il Sud o per il mio paese e per la gente del mio paese. C'è stata una canzone che avevo intitolato “Città del Sud”, mentre adesso nell'album “Io e Luca” c'è “La mia piccola città”. Quello che mi spinge a tornare è la gente, l'armonia che si respira, la serenità di quando incontri una persona e la puoi guardare negli occhi, comprendendo la sua limpidezza e purezza. È una cosa bella, che però salendo un pochino nello stivale non avviene quasi mai. Anzi, spesso trovi dei cuori che sono chiusi, sbarrati. Quando vengo al Sud, io mi ossigeno a pieni polmoni, per poi portare con me tutto questo ossigeno che deve durare fino al prossimo anno. Non mi spinge nessuno a venire qua. È come la musica. È una necessità, ed è una cosa fondamentale nella mia crescita come persona, non come artista. Qui basta uscire sul corso, ti salutano tutti, sei l'amico di tutti. Mi piace parlare con tutti, mi piace ascoltare tutti, dal momento che oggi difficilmente trovi qualcuno che ti ascolta. Io di solito ascolto tutti quanti e, forse, è proprio questa la forza che mi fa andare avanti nelle mie cose: parlare con tutti ed essere l'amico di tutti. Io questo voglio essere: l'amico di tutti, indistintamente. Roma è bella solo artisticamente. C'è il bel monumento, c'è il Colosseo, ci sono dei bei appartamenti, ma è tutto cemento e a me il cemento non dà niente. Preferisco toccare una persona, parlare con lei e guardarla nel cuore, negli occhi che sono la porta del cuore. Guardare una persona negli occhi è una cosa straordinaria. È questo che mi riporta ogni anno nel Sud.

Il tuo primo album s'intitola “Io e Luca”: di cosa parla?
Parla di Luca artista. “Io e Luca” è proprio un guardarsi allo specchio. È Luca che si guarda allo specchio e si rende conto che dentro di lui c'è proprio questa voglia di esprimersi, di emozionare e far emozionare, e di emozionarsi lui stesso. Perché è proprio questo confrontarsi, questo scontro di emozioni, che poi mi fa scrivere, mi fa avere voglia di scrivere e di cantare ancora. Quindi questo scambio di emozioni, questo confrontarsi, questo guardarsi allo specchio indica proprio il fatto che è arrivato il momento di dire qualcosa, di confrontarsi e di parlare d'amore, perché c'è bisogno che qualcuno parli finalmente di amore, in senso lato, positivo, vero.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
È di fare sentire il mio pensiero a tutti quanti, anche per pochi secondi, di fare conoscere questo piccolo artista dappertutto, a tutti quanti. Anche per una sola frazione di secondo, vorrei uno spazio tutto mio per far ascoltare quello che ho da dire a tutti quanti. Proprio perché sono stato tanti anni in silenzio, adesso voglio fare conoscere Luca Andrieri. Quello che fino a ieri stava a casa, adesso voglio farlo uscire, voglio far parlare di lui, nel bene e nel male, il quale quest'ultimo ci sarà sempre. Però vorrei farmi conoscere un po'. Non è essere esibizionista, però vorrei che tutti comprendessero il mio stato d'animo, anche perché come me ce ne stanno una marea. Ci sono tante persone che hanno questa voglia di comunicare qualcosa che hanno dentro di sé. Ho scelto questo cammino proprio perché voglio far parlare di me e far parlare tutte quelle persone che stanno in silenzio e che non hanno avuto, come me, la possibilità di fare questo cd. Voglio parlare per loro.

Chi desidera seguirti e saperne un po' di più sulla tua musica, dove può rivolgersi?

Alcune parole per i giovani.
Tanti sogni non sono fini a se stessi. Il mio album dimostra che i sogni, se vuoi, si possono realizzare ed io il mio l'ho realizzato con questo cd. La musica, per chi la vive come me, è veramente un mezzo fantastico per comunicare con gli altri, è universale, ti fa comunicare con tutti. Sono dei sentimenti che tu metti in musica e puoi comunicare anche a chi non parla la tua stessa lingua. Basta metterci il cuore e puoi arrivare dove vuoi. Nel mio percorso forse sono stato avvantaggiato perché ho trovato sempre gente fantastica, sempre gente per bene, e sono orgoglioso perché sono sempre stato circondato da persone meravigliose. Vorrei che tutti prendessero una chitarra, cominciassero a strimpellare e tirassero fuori i propri sentimenti. Tutti hanno i sentimenti, la difficoltà sta nel farli uscire fuori, però una volta che escono fuori poi vedi che non li fermi più.

sabato 21 settembre 2013

Mutuli


- di Saso Bellantone
“Mutuli! Mutuli-eh!” – così urlavano le donne tanti anni fa, così sono tornate a urlare oggigiorno. Madri, mogli, fidanzate vestite alla buona, con il classico faddali, girano instancabilmente per tutte le strade e le viuzze del paese, tirandosi dietro il caratteristico carretto auto-prodotto, costituito di una struttura in ferro con manico regolabile, delle ruote di bicicletta riciclate e delle lastre di compensato su cui posare le cassette di mutuli, la bilancia e tutto l'occorrente per la vendita. Le loro voci, come provenienti dal passato, si scontrano con i fantasmi della globalizzazione, del consumismo e della post-modernità, riempiendo l'atmosfera di un colorito paesano, antico, umanizzato. I bambini piccoli sorridono, rallegrati dalle voci di donna che spezzano la monotonia quotidiana, le massaie si affacciano dai balconi e dalle finestre e corrono incontro alle pescivendole, smaniose di preparare anche quest'anno una di quei prodotti tradizionali che rendono fieri di essere meridionali e che danno al Sud quel volto che nessuna unità nazionale o confederazione di Stati può dare: 'u pisci all'ogghjiu.
Si tratta di una conserva, il cui scopo, al pari di quella della salsa, è di assicurarsi una scorta di pesce fresco e genuino per tutto l'anno. La preparazione è lunga e comincia con la raccolta dei recipienti, o buccacci, per tutto l'anno. Giunto il periodo della pesca dei mutuli, i recipienti vengono lavati e poi fatti asciugare bene su di un panno. Dopodiché, una volta acquistati i pesci, si passa alla preparazione vera e propria.
Mentre grandi calderoni sul fuoco o sui fornelli riscaldano l'acqua fino a portarla in ebollizione, si provvede alla pulitura dei pesci dalle interiora. Lavati i pesci sotto l'acqua corrente, si attende che l'acqua nel calderoni raggiunga la temperatura di ebollizione, si aggiunge del sale, in quantità proporzionale al peso dei pesci che si sta per immergere e, una volta fatto ciò, si lascia bollire per tre ore.
Passato il tempo di cottura, si scola l'acqua e si passa alla seconda pulitura, che consiste nella privazione della pelle, della spina e nella separazione della polpa bianca da quella nera, quest'ultima contenente il sangue del pesce. Alcuni usano anche questa parte del pesce, altri invece preferiscono disfarsene, usando per la conserva soltanto la polpa bianca. Dividendoli a metà, o in quattro parti se si preferisce, si lascia asciugare i pesci stendendoli su di un panno e, quando sono perfettamente asciutti, si passa infine alla conserva. Stringendoli bene l'uno con l'altro, i pesci vengono calati nei recipienti e ricoperti interamente di olio, di semi o di oliva, a seconda dei gusti, e il gioco è fatto.
In genere si lascia riposare il pesce nei buccacci per un po' di tempo, ma di fatto si può già consumare. Per chiudere il rito della preparazione del pisci all'ogghjiu, molti sono soliti cucinare la pasta con il sugo del pesce nero oppure aprono uno dei buccacci per testare la salatura.
Come nel caso della salsa, la preparazione del pisci all'ogghjiu è un'attività solidale, che crea comunità e familiarità. Ci riunisce in una sola casa, donne, uomini, bambini e adulti, parenti e vicini, e si provvede alla preparazione dei buccacci per tutti quanti. In questo modo, non soltanto si ha la possibilità di socializzare, di rinforzare il legame familiare o rionale, confrontandosi e consigliandosi l'un l'altra, non soltanto si ha disposizione per tutto l'anno del pesce fresco e genuino, ma si ha anche l'occasione di conservare, affidandola ai posteri, una di quelle tradizioni che i nostri antenati ci hanno tramandato da tempi ormai lontani... eppure vicini, se non vicinissimi.
L'attuale ritorno delle voci delle pescivendole, e la preparazione del pisci all'ogghjiu, è una metafora del nostro tempo che preannuncia il tempo che viene.
Se da un lato per favorire il business della grandi multinazionali del pesce, ai nostri pescatori non è consentito praticare uno dei mestieri più antichi, utile per la loro sussistenza, dall'altro lato il pesce acquistato nei supermercati è di provenienza incerta e, a volte, pur essendo di qualità scadente o costituito soltanto dagli scarti di altri confezionamenti, costa anche troppo, allo stesso modo, o quasi, del pesce di migliore qualità, sempre importato dall'estero, malgrado provenga paradossalmente dal mar Mediterraneo.
Il ritorno delle pescivendole in strada sintetizza quello che sta accadendo nel mercato del pesce, e in altri mercati, coinvolgendo altri mercati ancora in futuro. Conseguentemente agli accordi politici internazionali volti alla tenuta economico-finanziaria degli Stati e di confederazione di Stati contro altri nella guerra della valuta, si costringe gli imprenditori, i produttori, gli artigiani e via dicendo a configurare le proprie aziende e attività in maniera sempre più rispondente al mercato globale, oppure gli si impedisce loro di lavorare, avvantaggiando le multinazionali. In altre parole, si elimina la concorrenza, costringendo quanti di generazione in generazione hanno sempre fatto il medesimo lavoro a chiudere la baracca e a occuparsi di tutt'altro.
Questo naturalmente produce non soltanto la perdita irreversibile degli antichi mestieri e, quindi, dell'identità locale dei popoli, ma anche povertà, disoccupazione, disperazione e, in ultima istanza, schiavitù. Il pescatore infatti, per restare nel tema dei mutuli, che si vede impossibilitato a “pescare” appunto, a causa di leggi, condizioni economico-fiscali e abitudini dei consumatori controproducenti, per far sopravvivere se stesso e la propria famiglia, si vede costretto a svolgere, o a imparare, un mestiere che non ha mai fatto, e spesso non riesce o, come accade oggigiorno, non lo trova. Per questo motivo, come avviene anche in altre dimensioni lavorative, è obbligato a protestare, finché ne ha le forze, economiche e vitali, oppure a cercare lavoro all'estero.
Il risultato non è altro che lo spopolamento dei paesi d'origine, che causa un danno economico locale, cioè agli abitanti che restano in paese, e nazionale, statale, ossia all'insieme dei lavoratori e delle aziende rimaste, le cui buste paga, tasse e consumi concorrono alla formazione dei PIL e, dunque, alla crescita o decrescita economica dello Stato.
È evidente che proseguendo in questa maniera, nel mercato del pesce e in altri mercati, ci si getta ancora più a fondo del baratro economico in cui ci si trova – dal momento che il debito supera i duemila miliardi di euro. Ma forse c'è a chi piace che le cose vadano così e le incentiva, allo scopo di ottenere maggiore potere all'interno del nuovo ordine mondiale che si sta costruendo.
La gente tuttavia non è folle al cento per cento, malgrado questo stato di cose l'abbia voluto proprio lei con il proprio voto, condizionato dalla rilassamento causato dal benessere vissuto nei decenni passati e dai messaggi subliminali dei strumenti di comunicazione di massa. Anzi, sempre più povera e disperata, quando sente la voce delle pescivendole che passano con i mutuli per le strade, va nuovamente loro incontro per preparare 'u pisci all'ogghjiu. E se adesso sono pochi coloro che lo fanno, molti torneranno presto a farlo, fiutando l'aria del default che c'è intorno.
L'acquisto dei mutuli, e la preparazione del pisci all'ogghjiu, offre l'occasione di prepararsi al fallimento e di recuperare quelle tradizioni, quegli usi e quei costumi antichi, portatori di quei valori comunitari e sapienziali che hanno fatto sopravvivere i nostri avi e che presto, a scapito della globalizzazione e del consumismo, garantiranno la nostra sopravvivenza all'interno delle popolazioni locali.
Si crede ormai che i grandi cambiamenti abbiano origine nella punta della piramide di questa società e si dimentica ogni giorno che, al contrario, tali cambiamenti, attualmente tanto auspicati, possono provenire soltanto dal terreno sottostante la base della medesima piramide, dall'ultimo livello cioè di questa società, dove noi sopravviviamo.
Non resta che chiedersi: tonno in scatola o mutuli?
In questa domanda, così come in altre, si gioca il nostro destino e, anche, ripercuotendosi sull'Occidente, sull'Europa o sull'Italia, quello del Sud.

martedì 17 settembre 2013

Dono inverso


- di Charles Dickens
"- Allora - disse lo spettro - è cosa fatta? -
- Sì. -
- Sì. E tu, uomo al quale io rinuncio in questo momento, porta questo con te! Il dono che ti ho fatto, puoi farlo a tua volta dovunque andrai. Senza ricuperare la facoltà a cui hai rinunciato, tu d'ora in avanti la distruggerai in tutte le persone che avvicinerai. La tua saggezza ha scoperto che la memoria dei dolori, delle ingiustizie, dei guai è destino di tutta l'umanità e che, se non fosse per questo, l'umanità sarebbe più felice negli altri suoi ricordi. Avanti, sii il benefattore dell'umanità! Tu, che sei liberato da questi ricordi, d'ora innanzi porta involontariamente con te la benedizione di questa libertà. Non puoi rinunciare al potere di diffonderla né alienarlo. Va'! Sii felice per il bene che hai conquistato e per quello che puoi fare! -" (Il patto col fantasma).