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giovedì 31 gennaio 2013

Pensieri visivi: L’ENIGMA DELL’ORA di Giorgio De Chirico



- di Saso Bellantone
È possibile fermare il tempo? Quante volte ci si pone questo interrogativo o si desidera avere il potere di farlo. Il tempo… Questa eterea entità che, essendo ovunque e in nessun luogo, condiziona la vita di singoli individui, popoli, mondi. Il tempo scorre, spietato, fatale, inafferrabile e inarrestabile. Dalla culla alla bara, il moto delle sue lancette sembra sillabare, ora gravemente ora in modo lieve, le parole che costituiscono il libro della nostra vita. L’ora… Questa scheggia d’origine enigmatica è l’abc, l’essenza, il fondamento nel cui mistero il tempo e l’esistenza s’incontrano e si scontrano, manifestando e velando sincronicamente il linguaggio arcano con cui leggere il tomo della nostra vita. Pensando a questi attimi, tentiamo di rivedere e di interpretare nuovamente il senso del nostro abitare una dimensione che non può essere compresa, forse, finché non si soggiornerà altrove… Forse, appunto, perché non sappiamo se tale possibilità di stazionamento altro sia possibile. E questo, ci costringe a guardare ancora una volta, e ancora e ancora senza distrazione alcuna, in direzione degli attimi, del tempo, della vita finora oltrepassati, in cerca del senso del nostro dimorare in questa dimensione di origine ignota. A volte si prova nostalgia, altre volte rabbia, altre volte ancora si prende carta e penna oppure tela e pennello e si ancorano i ricordi alla nostra sbadata memoria, illusi di aver redento questi momenti dall'incontenibile fluire del tutto, e di vivere in essi eternamente.
Forse è questo che ha fatto Giorgio De Chirico. Rappresentando L'enigma dell'ora, si è illuso consapevolmente di aver sottratto al tempo un unico istante della propria esperienza realmente o psichicamente vissuta, per viverci in eterno o, semplicemente, per tramandarla ad altri. Vi è una piazza, degli archi, delle scale, un ballatoio, un orologio e una fontana immobili, e tre figure. La prima sembra fotografare l'orologio, la seconda è sotto un arco e osserva il comportamento della prima, la terza è al di sopra delle altre due ed è affacciata dal ballatoio in direzione opposta rispetto al primo piano del dipinto. Chi è De Chirico? La prima, la seconda o la terza figura? Forse tutt'e tre, forse nessuna delle tre. In ogni caso, ognuna è collegata alle altre e agli altri elementi del dipinto, ed è determinante per comprendere l'intento del pittore. De Chirico rappresenta il tempo, nel momento stesso in cui è fotografato, arrestato (l'ora), proprio perché la sua intenzione è di ritrarre ciò che, indirettamente, sta accadendo nell'atto stesso del rappresentare, fotografare, arrestare, osservare, vale a dire ciò che diviene, si evolve, fluisce pur trovandosi nella fissità e immobilità della rappresentazione. Che cosa può scorrere, muoversi, svilupparsi nella stabilità e immutabilità dell'attimo della rappresentazione, se non il pensiero? Ne L'enigma dell'ora, De Chirico propone, in maniera figurata, un'immagine del pensiero nell'atto stesso del pensare, manifesta, cioè, il pensiero che pensa, che si domanda ciò che è chiesto dalla/ciò che si chiede nella rappresentazione: può essere fermato il tempo? La risposta è nell'ora, nell'attimo.
Malgrado l'illusorietà della rappresentazione, il tempo non può essere fermato. È possibile però strappare ad esso un attimo, nel quale tutto, in quanto è immobile, statico, immutabile, è più chiaro, definito, comprensibile. In questo attimo di chiarezza si spalanca un tipo di tempo diverso da quello cronologico: il tempo cairologico. Quest'ultimo, svincolato dalla legge della continuità alla quale invece quello cronologico è legato, è un tempo dell'occasione, del momento propizio che occorre cogliere prima che passi in un battito di ciglia, per carpire ciò che si manifesta all'interno di esso. Cogliendo quest'attimo in cui si apre il tempo cairologico, si scopre che al suo interno si manifesta un enigma, cioè quello del tempo stesso: può essere fermato il tempo? Per rispondere a questo interrogativo, occorre sostare nel tempo cairologico stesso, nell'attimo (la piazza, l'agorà, il classico luogo del pensiero) e, risalendo all'essenza dell'enigma (le scale e gli archi, simboli di una ricerca metafisica degli enti), pensare a una soluzione. Il dimorare nell'attimo cairologico offre la possibilità di pensare. Il pensiero, tuttavia, in cerca di una spiegazione all'enigma, si imbatte in un nuovo rompicapo, fondamentale per rispondere a quello precedente: che cos'è il tempo? È questo il quesito che si pone la figura sul ballatoio e, nel porsi tale interrogativo, si sta chiedendo qual è l'origine, il fondamento, l'essenza del tempo. Soltanto rispondendo a questa domanda può risolvere l'enigma, vale a dire sapere se il tempo può essere fermato oppure no. Il dipinto di De Chirico, dunque, cerca una soluzione a una domanda metafisica per poter poi rispondere a un'esigenza antropologica: cioè, quella della vita eterna. Perché che altro è la domanda intorno alla possibilità di fermare il tempo in un instante, se non quella intorno alla possibilità di vivere eternamente? De Chirico pensa a questa possibilità, esprime questo desiderio ma sa che quest'ultimo resta soltanto un sogno finché non si conosce l'essenza del tempo.
Innanzi a questo imperscrutabile mistero, non resta altro, finché si è in vita, che immortalare nella propria memoria – o sulla carta o sulla tela per tramandarli ad altri, come ha fatto lo stesso Giorgio De Chirico – quegli attimi, ora tristi ora felici, già vissuti. Rivedendoli e reinterpretandoli, si ha la possibilità di svincolarsi dal tempo cronologico e di accedere in quell'altro tempo, cairologico appunto, dove, per mezzo di quegli istanti, si può pensare ai grandi dilemmi del mistero dell'esistenza, compreso quello sul senso della temporalità e della mortalità, e si possono esprimere i desideri più reconditi, come quello di vivere in eterno in attimo che è già stato. Forse non si troverà risposta alcuna o forse se ne troveranno talmente tante da ritrovarsi più confusi di prima. Ciononostante, custodendoli nella memoria, ci si può illudere di vivere già in eterno in quegli istanti, proprio perché, ricordandoli, li si ha già liberati dal tempo e assieme a loro, forse, si è liberato anche se stessi.

martedì 29 gennaio 2013

DISsud: le foto 13


- di Saso Bellantone
"Pisci all'ogghjiu (preparativi)" (SUD).

sabato 26 gennaio 2013

Vagabondaggio cairologico


- di Saso Bellantone
"A volte si parte con un biglietto di sola andata verso l'ignoto, alla ricerca del proprio tempo; altre volte si parte con l'idea di tornare e di recuperare il tempo noto perduto; altre volte ancora si resta, convinti che il qui ed ora sia l'unico viaggio che valga la pena sperimentare".

giovedì 24 gennaio 2013

Versieri: PUÒ DARSI di Nazim Hikmet



- di Saso Bellantone
Può darsi che io
                          non arrivi
                                          a un certo giorno,
può darsi
che penzolando a un capo del ponte
lascerò cadere la mia ombra sull’asfalto…

E può darsi
                  che, anche dopo
                                            quel certo giorno,
io sia ancora in vita
                               irsuto di bianco pelo…

Se sarò vivo
                    dopo quel certo giorno,
appoggiandomi ai muri
                                      per la periferia della città
suonerò il violino e canterò una canzone
ai vecchi, intorno a me,
che, come me, saranno
                                     sopravvissuti all’ultima battaglia.
E dovunque volgerò l’occhio,
                                               tutto sarà allegro, splendido,
                                               e la sera stupenda,
e ascolterò il passo di gente nuova
che intona nuove canzoni.

È davvero infausto il tempo presente, “critico” in modo onnicomprensivo: nell’economia, nel lavoro, nello Stato, nella famiglia, nella casa, nei templi, nei valori, nella coscienza. Ovunque ci si trovi o si getti lo sguardo, non si scorge altro che insicurezza, instabilità, fragilità. La vita è talmente liquida che, alle volte, ci si chiede se è tutto vero o se si è soltanto in un sogno. La generale friabilità dell’esistenza rende incerti sull’attimo che viene. Si giudica buio il proprio destino e tuttavia si tenta di gettare una scintilla di luce per vedere cosa c’è oltre l’ignoto, se il proprio abisso oppure altro, magari un giorno in cui l’oscurità e la precarietà sono soltanto meri ricordi. All’inizio, il frammento di luce mostra la stessa incertezza che costituisce la nostra quotidianità: si teme, disperati, di non vedere mai quel giorno o di farla finita prima, lasciandosi penzolare da un cappio stretto attorno al collo. Poi, però, ecco che dalla scheggia di luce balena un po’ di speranza e s’intravede la propria vecchiaia. Giunto quel tanto agognato giorno, dopo aver lottato e resistito per così tanto tempo, si concederà alle proprie stanche membra il meritato riposo. Nelle zone suburbane di ogni città e paese, si festeggerà assieme agli altri vecchi sopravvissuti la possibilità di costruire una società diversa, felice, bella, dove è incantevole anche il venir della sera, perché sarà una società nuova, fatta da persone altrettanto diverse, stupende, belle.
Può darsi, di Nazim Hikmet, è un’attualissima poesia nei cui versi è possibile scorgere l’insicurezza che l’essere umano prova vivendo la brutalità e assurdità del tempo presente, dominato da una “crisi” che pervade in maniera onnicomprensiva la nostra società. Innanzi a questo orribile panorama, l’essere umano non riesce a capire come andrà a finire, non sa se un giorno sarà tutto finito né se mai vi arriverà. È certo di morire prima, sì, per mano del fato, altrui o propria, ma è anche sicuro che non può fare a meno di resistere, di lottare, di sperare di arrivare a quel giorno dove, come un messianismo secolarizzato e realizzato, potrà cominciare un mondo diverso, con persone aventi un modo di pensare, e di vivere, diverso. La posta in gioco, dunque, non è la vita ma l’idea che una società nuova e differente da quella attuale è ancora realizzabile. La festa futura, la visione di questa società priva di ogni differenziazione sociale e ritmata dal rispetto, dalla tolleranza, dalla comprensione, dall’amore per altro, è la chiave di violino che, con coraggio, deve orientare i nostri passi sul confuso pentagramma della sofferente e amara vita attuale. 

lunedì 21 gennaio 2013

sabato 19 gennaio 2013

LO STRANO CASO DEL DOTTOR JEKYLL E DEL SIGNOR HYDE di R. L. Stevenson



- di Saso Bellantone
Quando si esce di casa, si conosce già cosa c’è al di fuori: stesse strade, stesse case, stesse persone. Si ha la sensazione di muoversi quotidianamente dentro la pellicola di un film che, concluso il giorno prima, è appena ricominciato da capo. Questa interminabile ripetizione, che non conosce mai il nuovo, dovrebbe annoiare a tal punto da indurre alla decisione di non uscire più. E invece, ci si abitua ad essa in maniera talmente rapida che nel percorrere le medesime strade, osservando le medesime case, incontrando le medesime persone si inizia quasi a provare piacere. Le persone… Il piacere che si prova ogni volta che s’incontra qualcun altro, scaturisce dalla credenza di sapere tutto su di lui: dove abita, che lavoro fa, qual è il suo carattere, la sua visione del mondo, i suoi gusti estetici, morali, politici, religiosi, sessuali, sportivi, letterari, cinematografici e così via. Giudicando tutti dei libri aperti, si affronta piacevolmente la solita routine nella sicurezza di avere tutto, e tutti, sotto controllo. Ma quando ci si accorge di un dettaglio, di un particolare, di una minuzia mai notata prima, ecco che crolla ogni sicurezza: il piacere della ripetitività si trasforma nella paura dell'ignoto e la solita pellicola trasfigura in una sceneggiatura mai scritta.
La sfumatura annebbia ogni cosa: le strade, le case, le persone, quelle stesse persone che, poco prima, sembravano dei libri aperti, adesso costituiscono l'enigma. Mentre prima le si giudicava equilibrate, buone, giuste, mansuete, ragionevoli, adesso appaiono sregolate, cattive, ingiuste, violente, prive di ragione. Come spiegare questa metamorfosi, questo lato oscuro delle persone? È reale o è un'illusione? C'è sempre stato e non si è stati capaci d'intravederlo, oppure è appena affiorato e lo si è scorto perché sono cambiati i nostri occhi? Qual è l'effettiva identità delle persone? Quella che si conosceva prima, quella appena scoperta, o entrambe? E la nostra? E se avessimo anche noi un lato oscuro? Chi siamo veramente ? Siamo buoni, cattivi, o tutti e due? E se fossimo cattivi? Se provassimo piacere nell'essere tali e dimenticassimo di essere anche buoni?
Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886), di Robert Louis Stevenson, è un'attualissima indagine nelle viscere dell'animo umano, alla ricerca di quegli elementi minuti che costituiscono le fondamenta della personalità. Quest'ultima, secondo Stevenson, è “un sistema di entità multiformi, incongrue e indipendenti”, è costituita da due istinti, due forze, due esseri che, rappresentando rispettivamente i domini del bene e del male, si danno quotidianamente battaglia nella coscienza, per imporre il proprio dominio sull'altro. La natura umana, dunque, è duplice: buona e cattiva a un tempo, conscia e inconscia, Jekyll e Hyde. In questo senso, il destino di un individuo è condizionato dal prevalere o no di una forza sull'altra e quello degli altri dipende dall'esito dello scontro tra le forze antitetiche si combattono nella coscienza del singolo. In un caso, si opera per il bene proprio e della collettività, nell'altro si opera per il male, per l'appagamento sfrenato dei propri istinti e piaceri, a scapito degli altri. Consapevoli di ciò, è possibile proporsi di controllare queste pulsioni contrastanti, queste forze antagoniste? Si può tentare, ma non è così facile. Basta un attimo, infatti, basta una semplice pozione – o una droga, un alcolico, un profumo, un evento, un incontro, un'idea – ed ecco che il signor Hyde salta fuori a combinare guai seri, mandando in stand by il dottor Jekyll. Ogni volta che si verifica questo scambio di personalità, cresce la consapevolezza che rispedire Hyde da dove è emerso diventa sempre più difficile. Ma bisogna combattere, restare dalla parte di Jekyll ed evitare la pozione – o le pozioni – che evoca Hyde, prima che sia troppo tardi: prima, cioè, che lo scambio sia conclusivo e ci si rispecchi totalmente in lui, dimenticandosi per sempre di essere anche Jekyll.

mercoledì 16 gennaio 2013

Dualismo apparente


- di Saso Bellantone
"Spesso si sosta innanzi alla porta dell'essere e a quella del divenire, chiedendosi quale aprire. Soltanto dopo aver compreso che entrambe conducono al medesimo percorso, ci si rende conto di aver sempre avuto tra le mani una sola chiave".

lunedì 14 gennaio 2013

DISsud: le foto 12


- di Saso Bellantone
"Unimi dunimi trinimi Mitch,
canta cavallu a cuccurucù,
cuntili giusti cà dudici su'." (SUD).

mercoledì 9 gennaio 2013

Mortalità e immortalità


- di Saso Bellantone
"Sparammo agli orologi, convinti di uccidere il tempo una volta per tutte. Che stupidi... Crono continuava a ticchettare altrove, restringendo progressivamente la distanza tra il suo insaziabile appetito e le nostre fragili carni. Allora capimmo. Rendemmo il nostro corpo incorruttibile a tal punto da spezzare ogni dente cronologico. Da quell'attimo, non udimmo più alcun ticchettare e vivemmo nella gioia dell'immortalità. Ma quando capimmo che immortalità e dannazione erano due facce della stessa medaglia, cercammo Crono per l'intero cosmo, nella speranza di poter esalare l'ultimo respiro. Quando lo trovammo, quel vecchio senza denti ci disse: "Finalmente, vi prego, mangiatemi!". Allora, cominciammo noi a ticchettare, mentre altri iniziarono a spararci addosso".

martedì 1 gennaio 2013

Omega e alfa un tempo


- di Saso Bellantone
"Ovunque vi è una fine, nel contempo vi è un inizio. Cosa vorresti finisse con il 2012? Cosa vorresti cominciasse con il 2013? Sii tu stesso l'omega e l'alfa di un mondo meno orrendo e più sublime per tutti, sii il cammino che ancora nessun altro ha fatto".