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venerdì 24 gennaio 2014

OLTREWEB: Armi chimiche all'orizzonte. Il "no" inascoltato


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
spesso ti chiedi quanto valore abbia il tuo parere, la tua voce, e il più delle volte, quando a decidere sono i vertici della terra della Lupa, ti accorgi che la risposta è “nessuno”. Si decide, là, nel cuore dello Stivale, indipendentemente dalla tua volontà, anzi, spesso contro di essa, e questo ti spinge a chiederti che senso abbia continuare a sentirsi parte di un popolo, di una società nella quale l'unico ruolo richiesto è soltanto quello di esprimere ufficialmente un voto, per poi subire passivamente le scelte di chi hai mandato tu stesso a governare. Scelte contrastanti la democrazia, la comunità di cui si fa parte, il buon senso. Specie in materia economica, etica e di sopravvivenza. Come nel caso delle armi siriane in arrivo al porto di Gioia Tauro.
Gas Sarin. Si tratta di un'arma di distruzione di massa creata nel 1938 da scienziati tedeschi, che colpisce il sistema nervoso, per inalazione o per contatto, che provoca crisi respiratoria, contrazione delle pupille, progressiva perdita delle funzione nervose, vomito, perdita di urina e di feci, stato comatoso con conseguente soffocamento per spasmi convulsivi.
Inutile chiedersi come sia possibile l'esistenza di una tale arma biocida, creata da esseri umani per impiegarla contro altri esseri umani. È già aberrante un tale pensiero. Quel che conta attualmente è tale arma, contenuta in decine di container per un peso pari a quasi 560 tonnellate, è diretta, a bordo della nave danese Ark Futura, al porto di Gioia Tauro, per essere trasferita su un'altra nave, l'americana Cape Ray, la quale si occuperà della distruzione delle armi chimiche mediante idrolisi, in acque internazionali. Poi, altri Paesi si occuperanno delle scorie provocate dal processo di smaltimento delle armi in esame.
Gioia Tauro. Il suo porto è stato scelto per tali operazioni perché è considerato all'altezza dello smaltimento di siffatte armi. Strano, tuttavia, che si preveda l'arrivo di 600 militari, per assicurarsi il proseguire delle operazioni.
E tu, mio caro web, saputa tale notizia, hai iniziato a protestare, a ribellarti, affinché tale smaltimento, rifiutato già da altri porti, avvenga altrove e non qui. Hai coinvolto sindaci, sindacalisti, politici provinciali e regionali, sacerdoti, movimenti, associazioni. Hai prodotto documenti che chiariscono il tuo “no” a tali operazioni, hai incontrato ministri e primi ministri e, tuttavia, con la rassicurazione di ricevere un opuscolo informativo che possa tranquillizzarti al riguardo, hai dovuto accettare lo svolgimento di tale smaltimento, con o senza il tuo consenso.
Sei deluso, mio caro web? Arrabbiato? Sei soltanto una pedina nelle mani di grandi scacchieri che giocano al governo globale. Qualsiasi forma di protesta tu farai, il protocollo scelto per lo smaltimento delle armi siriane andrà avanti, perché così è deciso. I rappresentanti della terra della Lupa hanno già sentenziato. Da un lato, per restare all'interno delle grandi istituzioni internazionali, nate per la mutua collaborazione tra i Paesi su diverse frontiere, dall'altro lato per portare avanti incomprensibili disegni di riconfigurazione dell'economia e dell'urbe terrestre, a scapito dei Paesi più piccoli e ininfluenti, come lo Stivale, e a favore dei più grandi e potenti.
Ti chiedi, lo so, mio caro web, se le armi siriane saranno smaltite nel giro di 24-48 ore, come è stato assicurato, oppure se ci vorrà maggior tempo, data la pericolosità dei composti in esame. E nel frattempo, ti chiedi perché si parla di evacuare la popolazione locale nel raggio di un chilometro dal porto di Gioia Tauro, perché l'arrivo di questi 600 militari, perché la distruzione di tali armi debba essere effettuata nel Mediterraneo, per idrolisi, sciogliendo cioè in mare quei composti biocidi.
Temi forse che tutto questo sia una farsa e che la zona del porto di Gioia Tauro, comprensiva dei comuni di Gioia, San Ferdinando, Rosarno possa diventare, da porto commerciale, un porto militare, determinando un aggravamento delle difficoltà economiche attraversate da tali comuni, da quelli limitrofi e dal resto della punta dello Stivale? Temi forse che la distruzione di tali armi nel Mediterraneo per idrolisi, finisca per inquinare e distruggere l'intera flora e fauna marina, provocando la fine di un intero ecosistema e il conseguente crollo delle speranze dei pescatori stivalici di poter tornare a sopravvivere del mestiere praticato dai propri antenati, cosa che invece già fanno i pescatori delle altre marinerie del globo e di altri Paesi, al servizio delle multinazionali della pesca? Temi forse che il trasbordo di qualche container possa avere qualche incidente e che il gas sarin si propaghi nell'area del Mediterraneo, decimando la popolazione limitrofa, considerata più e più volte una popolazione stivalica di serie B?
Non temere, mio caro web. Le operazioni di smaltimento andranno a buon fine. Come promesso dai rappresentanti della terra della Lupa. I container saranno trasferiti, le armi saranno distrutte, i militari torneranno alla propria base d'origine. E se invece accadesse che...

domenica 19 gennaio 2014

Autonomia esistenziale


- di Angelus Silesius
"Nulla è ciò che ti muove: tu stesso sei la ruota che corre da sé e non ha posa".

sabato 11 gennaio 2014

OLTREWEB: La festa dell'inoperosità


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
hai passato buone feste? Cenoni, pranzi sontuosi, parenti, amici, regali, botti, scambi di auguri reali e virtuali. Sì, hai passato le solite feste. “Buone” è un termine sovrabbondante, eccessivo. “Anche per quest'anno è andata!” pensi, finita ormai l'Epifania. Adesso lavoro, scuola, tasse, bilanci, programmazione per l'anno appena cominciato e soprattutto dieta. Per smaltire i chili di troppo che danneggiano la tua immagine, prima ancora della tua salute, e poi... Poi, tra un festivo e l'altro e qualche giorno di ferie che non guasta mai, non vedi già l'ora che arrivi la Pasqua per rimpinzarti come negli ultimi dieci giorni, concentrati in due soltanto. Poi dieta, festivi, ferie, finché, col sopraggiungere dell'estate, non arriva il tempo di prenderti una vacanza davvero, per saziarti di alimenti, naturalmente, e di inoperosità. Poi dieta, festivi, ferie... ed ecco che ritorni punto e a capo con le nuove festività natalizie, di fine anno e dell'Epifania.
Epifania... È tornata di nuovo, assieme al Natale e al Capodanno con la Pasqua che li precede ciclicamente. “Mi rendo manifesto” significa letteralmente. Una festività pagana, poi reinterpretata dal cristianesimo, nella ruota delle religioni dove la più recente assorbe e rimodula gli elementi chiave di quelle che la precedono. Da ricorrenza legata al risveglio della natura, l'Epifania è diventata prima il momento in cui i Magi portano i doni a Gesù Bambino, poi la festa della Befana, nella quale la vecchia strega sulla scopa volante riempie di giochi, caramelle e cioccolatini le calze e le scarpe dei bambini buoni, e di carbone quelle cattivi.
Ma che ne sai, mio caro web, di tali festività? Davvero fai ancora l'albero, il presepe, spari i fuochi d'artificio, fai il digiuno quaresimale, benedici palme e ulivi? Sono sempre di meno coloro che praticano tali ritualità, vivendole con devozione, e sempre di più coloro che invece le attraversano adeguandosi al mutamento dei tempi e dei costumi. Dettato, sia chiaro, da pochi, e messo in pratica dalle masse ibride e informi che, rincorrendo la perfezione di un vuoto estetismo, si abbruttiscono nell'intelletto e paradossalmente nel corpo, diventando sempre più cieche delle catene ai polsi e alle caviglie messe loro dalla società capitalistica, consumistica e liquida, nella quale si muovono come zombie.
Il valicare le festività a misura di valuta, indica, nell'inarrestabile processo di secolarizzazione, un raffreddamento dei popoli, del pensiero e dello spirito dovuto alla crisi economico-finanziaria e lavorativa, progettata e in continua realizzazione finale per testimoniare l'avanzare imperante di un nuovo assetto globale, con il Grande Leviatano del Nord pronto a giocarsi la sua partita assieme agli altri Titani dell'economia, della politica internazionale e della democrazia.
Democrazia... Che bella parola per indicare il nuovo modo di fare guerra tra i blocchi continentali. Una parola, la cui risposta è sotto il naso di chiunque, usando la fantasia, e invece nessuno la scorge. “Demo”. “Governo del demo”. Esattamente come nell'ambito musicale il termine “demo” indica un brano esemplare, un campione di quello che si ascolterà e del modo in cui lo si ascolterà, nell'ambito delle umane genti la parola “demo” ha lo stesso significato. Guai a chi la interpreta nel senso di “di tutti”. Demo-crazia vuol dire “governo del demo”, non “governo di tutti”. Quest'ultimo significato è stato impiegato prima nell'antica Grecia, poi a distanza di svariati secoli, da quegli Stati che nel corso dell'età moderna si sono ispirati a principi di libertà, uguaglianza e fratellanza trascendenti, e non totalmente immanenti come accade attualmente con il nuovo re del tempo, il dio denaro.
Siamo in un'altra epoca, mio caro web. So che lo sai e che fai finta nel contempo di non saperlo, per lavarti le mani di ciò che accade, come Pilato di fronte a Gesù sotto accusa. Siamo in un'epoca dove non esistono persone ma solo numeri, pezzi intercambiabili di un ingranaggio, sostituibile anch'esso, facente parte di un'immensa macchina continuamente perfettibile qual è il pianeta terra nel suo volto capitalistico. Senza lavoro, senza contratti, costretti allo straordinario continuo e a tirare a campare con le occasioni sbriciolate in strada ora da tale multinazionale ora da tal altra azienda trasferitasi dove la pressione fiscale e i contratti lavorativi sono più convenienti.
Non hai futuro, mio caro web, ma non hai nemmeno il presente né l'attimo. Tutto è fermo alla medesima “demo”, ascoltata da troppi giorni, mesi, anni oramai. Fa paura chiedersi per quanto tempo ancora la si debba ascoltare nuovamente. E così ingozzi in ogni occasione utile, in ogni Natale, Capodanno, Epifania, Pasqua, ti metti a dieta e torni a satollarti ancora ancora ancora, facendo di ogni istante la festività della dimenticanza di quel che accade davvero.
E se ti riempissi di cultura, conoscenze, diritto, giustizia, coraggio? Se ingurgitassi a più non posso, così come fai con gli alimenti, anche la curiositas, la forza di volontà, lo spirito di sacrificio, il senso del dovere, la comprensione, la semplicità? Il tuo destino, pensi, sarebbe lo stesso?
Non lo saprai mai, se ti accontenterai di attraversare monotonamente e senza voce le cicliche festività, recitando continuamente la solita parte mai accettata e che ti è stata imposta nella demo del dominio tecno-totalitaristico di questo pianeta.
Mettiti a dieta, mio caro web, ma a dieta da quell'identità fotocopiata senza sosta e incollata sul tuo volto, e su quello di tutti gli altri, facendoti credere che coincida con te stesso. Te stesso, è tutt'altro e conosce una sola festa, che possa essere detta buona: il giorno in cui Democrazia significa, non più un disco incantato, ma per la prima volta un “governo di tutti” gli abitanti la medesima casa, la Terra.

Medita web, medita...

Pubblicato su Cmnews.it
http://www.cmnews.it/rubriche/oltreweb/la-festa-dellinoperosita/

mercoledì 8 gennaio 2014

Apilus*


- di Saso Bellantone
1944. Bagnara. C'è uno strano suono nell'aria. Non è quello dell'esplosione delle bombe, eppure le pareti della Vecchia Galleria Ferroviaria e i cuori sembrano scuotersi lo stesso. Vibrano, si lasciano attraversare da quel suono dolce, melodico, continuo... È da tempo che non si sente un tale silenzio e anziché lasciarsi condurre fra le tenere braccia di Morfeo, la gente, incredula, si sveglia.
È al limite delle forze. Stanca, sporca, affamata di cibo, di aria fresca e pulita, e di pace. Uomini, donne, bambini, anziani, tutti gli abitanti del paese, riversatisi all'interno del vecchio tunnel, nella speranza di scampare ai bombardamenti, si ridestano come incantati da quella risonanza e cominciano a uscire fuori. Fuori da quella gabbia dove per tanto tempo ci si è auto-rinchiusi per sopravvivere alla follia delle grandi Nazioni. Fuori da un incubo apparentemente senza fine.
Là, dove il silenzio sembra insolitamente troneggiare e avere origine, la gente comincia a raccogliersi. Si guarda incredulamente attorno e poi, iniziando ad abbracciarsi, a stringersi le mani, si scambia un'occhiata meravigliata l'una con l'altra, per avere la conferma che il silenzio è vero e non un'illusione della coscienza. Spunta qualche lacrima, qualche sorriso. Ma nessuno, nemmeno i più piccoli, osano proferire parola, per non spezzare le maglie di quel silenzio incomprensibile. I ricordi di giorni e giorni passati all'addiaccio, sono ancora troppo vivi. Morti, feriti, ammalati, quante persone sono scomparse sotto i loro occhi dentro quel benedetto e maledetto tunnel. Dove nel gelo invernale, per riscaldarsi, è bastato il respiro di un altro, mentre nell'afa estiva, lo stesso respiro poteva anche ucciderti, specie mischiandosi con il puzzo della latrina nelle profondità della galleria, dove i meno coraggiosi andavano a orinare e defecare.
Quei ricordi sono ancora intensi ma più intensi, adesso, sembrano i raggi del sole che spuntano da dietro il monte Cucuzzo, illuminando il paese distrutto e fumante. Non un colpo di cannone né di mitragliatrice sembra riecheggiare nelle vie. Non una nave all'orizzonte né volo di aereo tedesco sembra solcare il cielo. È troppo bello per essere vero, però nessuno ha il coraggio di pronunciare le parole proibite. Si attende, immobili e all'ascolto, nella speranza di non sentire mai rumore alcuno che spezzi il silenzio, confermando che l'incubo non è ancora finito e la guerra ancora dilaga.
Ma alcuni non stanno nella pelle. Anziché restare a guardare, scendono in paese, o, meglio, in quel che ne resta, per fare un sopralluogo e capire come stanno davvero le cose. Vanno in squadre, adulti e bambini come sempre, questi ultimi più adatti per i lavori che richiedono maggiore agilità e più difficili da convincere a rimanere al sicuro nella galleria.
La gente davanti alla galleria li osserva taciturna perdersi lentamente nel curvone all'orizzonte, come antichi spettri svaniti alle prime luci di un sole che sembra diverso, quest'oggi. Sembra un sole nuovo, più caldo, più pacato. Un sole auspicante nuova chiarezza, nuovi giorni, nuovo tempo libero da incubi e presagi nefasti.

Giunte all'altezza del macello, passando attraverso la montagna perché il ponte non esiste più, le brigate partite in ispezione dal tunnel dei rifugiati si dividono: una va a monte, direzione Porelli. Un'altra a valle. Per cautela, si procede di viuzza in viuzza e di casa in casa, nascondendosi dietro ogni rudere e rottame. Giunta al rione Milano, la squadra si divide e si comincia a esplorare le vecchie case. Tra le macerie, Peppino, un ragazzino di 16 anni, scorge casa sua e non trattiene la tentazione di addentrarvisi.
È tutto come l'aveva lasciato. Il tavolo con il cassetto dove la mamma stipava quel che restava, se si era fortunati, del pranzo o della cena, le sedie, il baule contenente pochi abiti e alcune lenzuola, la credenza, continuamente vuota, il lettone nel quale dormiva assieme alle sorelle maggiori, prima che si scatenasse la guerra. Stupendi ricordi gli tornano alla mente, vissuti felicemente assieme alla sua famiglia malgrado la povertà e la fame, scacciati subitaneamente via dal ricordo del sopraggiungere della guerra.
Stava tornando a casa quando erano esplose le prime bombe, facendo crollare su stessi interi palazzi, come fatti di burro. La gente urlava, piangeva, scappava in ogni direzione, mentre pezzi di calcinacci volavano in lungo e in largo. Aveva avuto paura e si era riparato in preda al panico dietro un'automobile. Poi però gli erano venute alla mente la mamma e le sue sorelle, sole, terrorizzate in casa propria, in balia delle esplosioni. “Ora sei tu l'uomo di casa” – gli aveva detto il padre, prima di partire per combattere – “Pensa tu a loro”. “Te lo prometto papà!” – aveva risposto fieramente il ragazzino. “Io tornerò presto.” – aveva proseguito il padre, carezzandogli il mento. Invece non era più tornato. Così Peppino si era fatto coraggio, aveva raggiunto casa e mantenuto la promessa, scortando la sua famiglia, da bravo ometto, là dove tutti si rifugiavano: nella galleria ferroviaria.
I ricordi sono interrotti da uno strano rumore lontano, continuo, metallico che si avvicina sempre più assordante, chiassoso, tonante, fino a far tremare le vecchie mura di casa. Istintivamente Peppino si getta sotto il tavolo tappandosi le orecchie, sperando che non si tratti degli invasori. Teme di essere scoperto e di essere deportato, come gli adulti raccontavano, nelle regioni dell'alta Europa. Poi, quando le mura cominciano a scricchiolare, lasciando cadere calcinacci sul pavimento, ecco che l'insopportabile frastuono finisce e torna il silenzio. Lo stesso silenzio dentro il quale si erano svegliati stamane.
Ma non è proprio il silenzio. Strane voci si diffondono nell'aria. Voci sorridenti, sì, ma incomprensibili, a parte quella di Ciccio il pescatore, il capo squadra. Sembra rivolgersi a quelle voci indecifrabili.
Incuriosito, Peppino esce fuori dall'abitazione e giunto in piena piazza Milano scorge l'impensabile. L'amico parla con due uomini in divisa ed elmetto che fuoriescono dalla parte superiore di uno strano mezzo corazzato, su cui è impressa una bandiera a stelle e strisce. I due continuano a lanciare con delicatezza degli oggetti a Ciccio, dicendo parole mai sentite e gesticolando, ma i tre non si capiscono. I soldati ridono, masticano, scherzano tra di loro, continuando a rivolgersi all'amico con parole e gesti, l'amico li guarda inebetito senza rispondere, provocando nuovamente il riso dei due.
Scorgendo il ragazzino avvicinarsi indeciso verso di loro, i due cominciano a chiamarlo, facendo segno di avvicinarsi senza paura: “Hi boy! Come on! Come here! Lest go...”. Mentre il ragazzino si avvicina, uno dei due sparisce all'interno del mezzo corazzato per poi tornare alla vista con una manciata di oggetti tra la braccia, che inizia a lanciare verso di lui.
Peppino comincia ad afferrarli istintivamente ma non riuscendo a prenderli tutti perde l'equilibrio e cade per terra, mentre i due soldati continuano a lanciargli gli oggetti addosso. Peppino li osserva. Scatolette, gomme da masticare, caramelle, dollari e quant'altro. È interamente sommerso da alimenti e leccornie. Sorride. Apre un pacchetto giallo e, scartatone il contenuto, lo annusa. Sembra cannella. Infila in bocca due o tre lingue del prodotto e comincia a sgranocchiare. Sono gomme. Gomme da masticare. Le più buone che abbia mai assaggiato.
“Do you like?! Ah ah ah ah ah!” – ridono i due, con quegli occhioni più luccicanti del sole appena nato.
Peppino fa cenno di sì con la testa, ricambiando il sorriso e mettendo in bocca altre gomme da masticare.
“Now, give us an apilus! Understand?! Apilus! Apilus! ” – dicono i due, guardando ora Peppino ora Ciccio, che continua a osservare incredulo gli uomini in uniforme. “Oh my god! Apilus boy, apilus! Understand?! Apilus! Apilus!”
“Ma chi lingua parranu chìsti, Cicciu! Chi dinnu?!” – Peppino chiede all'amico.
“Ma chi ssacciu, Peppinu! Sunnu 'Mericani! Avi na ura chi dinnu apilus apilus e fannu i sta manera ch'i mani ma jeu propriu non capisciu chi stannu ricendu!” – gli risponde Ciccio, unendo le mani allo stesso modo dei soldati, e mostrandole al ragazzino.
Apilus!” – ripete Peppino, osservando gli uomini in uniforme che, continuando a ripetere la stessa parola, fanno finta di portare una mano in bocca e di azzannare – “Vo' virìri ca chìsti vonnu i puma?!” – si rialza di scatto il ragazzino, imitando il gesto dei soldati, i quali, vedendolo iniziano a urlare festosi “Yes boy! Apilus!”.
Infilatisi nelle tasche altri pacchetti di gomme da masticare, Peppino fa segno ai soldati di restare dove sono e si precipita in fretta e furia dentro casa sua, dalla quale esce rapidamente con uno dei lenzuoli contenuti nel vecchio baule. Poi corre in direzione montagna e va nei terrazzamenti dell'amico Mimmo, perdendosi tra i vigneti e gli alberi da frutto, finché non giunge dinanzi ad alcuni meli. Arrampicatosi sull'albero, Peppino inizia a strappare le mele e a gettarle sul lenzuolo aperto proprio sotto di lui, riempiendolo in un batti baleno. Sceso poi dall'albero e richiuso alla bene in meglio il lenzuolo, Peppino torna nuovamente dai soldati, mostrando loro il contenuto del telo ed gridando loro gioiosamente: “Apilus! Apple! Mela!”.
“Yes boy! Apple! Apple! Great boy!” – rispondono gli uomini in uniforme, ricoprendolo nuovamente di scatolette, alimenti e qualsiasi altra cosa in loro possesso.


Riempito il telo di tutto quel ben di Dio, Peppino corre il più velocemente possibile assieme a Ciccio e agli altri compagni di spedizione in direzione della galleria ferroviaria, dove li attendono la mamma, le sue sorelle e gli altri rifugiati. Non vede l'ora di dare loro tutti quegli alimenti ma soprattutto di pronunciare quelle parole che, dalla mattina, nessuno osava recitare per paura che il messaggio annunciato dal silenzio svanisse. Adesso può farlo, può pronunciarle davanti agli altri e poi assieme agli altri. Sì, il silenzio mattutino era veritiero. Quel silenzio spezzato da una parola sconosciuta, indicante qualcosa di così semplice come può essere una mela, era portatore della notizia che tutti sentivano già nei loro cuori. “La guerra è finita”. Non è un sogno, ma la verità. L'incubo nelle cui nere maglie tutti erano rimasti ingabbiati, ha iniziato a diventare soltanto un brutto ricordo.

* Dedicato a Nonno Peppe.