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giovedì 28 luglio 2011

VALENTINA SOFIO presenta "OMBRA IN PENOMBRA"

- di Saso Bellantone
Domani 29 luglio, alle ore 21:30, presso LA SOSTA, sita in via Monsignor Bergamo 37, a Villa San Giovanni, Valentina Sofio presenterà il suo album “Ombra in Penombra”. Dopo varie esperienze musicali con i Discanto, i Ganja Garden, la Boku's Band e altre band, la giovane cantautrice bagnarese ha deciso di intraprendere un percorso da solista, cominciato da alcuni anni con un serie di concerti con brani inediti e cover, che domani si concretizzerà nella presentazione del suo primo album.
“Ombra in penombra” è una raccolta di dieci brani nei quali, raccontando se stessa, la gente, la vita, Valentina Sofio parla della nostra società e delle ombre in penombra che troppo spesso facciamo finta di non vedere e che incidono negativamente su ognuno di noi spegnendo completamente la nostra essenza e gettandoci nella solitudine, quando le si considera a partire dalla prospettiva schiavizzante dell'ignoranza, dei pregiudizi, dei luoghi comuni che la società stessa impone. È in queste stesse ombre in penombra, invece, secondo Valentina, che è possibile trovare quella nuova linfa capace di rianimare alla vita e al desiderio dell'altro, quando si ha il coraggio di osservarle a partire da un punto di vista che non è quello della società bensì il proprio, quello nascosto dentro di noi e che è possibile scoprire con l'incontro dell'altro e dell'arte.
Domani Valentina Sofio offre gratuitamente al grande pubblico la possibilità di incontrare un'ombra in penombra che difficilmente si trova nella società tecnicizzata e spettacolarizzata nella quale viviamo. Un'ombra in penombra che, raccontandone altre e altre ancora con la voce di chi ne ha fatto esperienza reale e non virtuale, catodica o onirica, si presenta nel contempo in tutta la sua chiarezza. Ossia la musica d'autore, la musica vera: quella di Valentina.
L'album "Ombra in penombra" è acquistabile presso tutte le attività commerciali di Bagnara Calabra oppure può essere prenotato direttamente nel sito di Valentina (in costruzione), dove in seguito potrà essere scaricato tramite download o richiesto e inviato tramite servizio postale.

lunedì 18 luglio 2011

Pensieri visivi: L'ATTESA di Mimmo Fadani

- di Saso Bellantone
Una donna vicino a un lampione acceso. I capelli pettinati all’indietro, con cura. Una collana, una borsetta, il candido corpo semicoperto da un abito porpora, delle scarpe coi tacchi alti. È una lucciola: si trova in mezzo alla strada, solitaria, guarda verso l’orizzonte, là dove la via stessa comincia e finisce, pronta a donarsi al primo passante. Da un lato della strada, le finestre di edifici di nuova costruzione completamente al buio; dall’altro lato, invece, la luce delle candele e delle lampade a olio, fuoriesce dalle fenditure di edifici diroccati. Il cielo quasi nero, colmo di nuvole in tempesta ma anche pronto a liberarsene. Alle spalle della donna un bagliore di fari di un’automobile ignota, che si avvicina. L’attesa di Mimmo Fadani è un’opera che parla della nostra società, immortalandone il caratteristico modo di stare nel tempo, diverso da quello che il titolo stesso dell’opera chiama in causa: vale a dire, quello concepito da Paolo di Tarso.
Rivolgendosi alle prime comunità “cristiane” mediante le sue Lettere, Paolo qualifica l’attesa come un modo di stare nel tempo cronologico, una disposizione d’animo, un modo d’essere e di comportarsi rivolto verso uno scopo ultimo, massimo, supremo. I fedeli lo interrogano riguardo a varie questioni, specie quella riguardante il tipo di comportamento che occorre adottare in vista della seconda venuta del Messia, del Giudizio e dell’instaurazione del Regno. A tal proposito l’apostolo chiarisce che bisogna regolare la propria condotta vivendo secondo il come-non (per esempio, chi è sposato come non sposato, chi soffre come non soffra e via dicendo) e la triade fede-speranza-amore: fede nel Messia; speranza nel piano di salvezza divino; amore dell’altro. Il come-non e la triade paolini costituiscono l’etica che occorre praticare per ottenere il sommo bene (la vita eterna). Attuandoli, il fedele abita il tempo cronologico alla maniera dell’attesa, rivolgendosi cioè in direzione della seconda del venuta del Messia che, giungendo “come un ladro nella notte”, separerà i giusti dagli ingiusti e darà ai primi la nuova vita, quella eterna. L’attesa paolina dunque è uno stare nel tempo in maniera teologica (orientato alla fede, cioè verso Dio) ed escatologica (proiettato verso il fine ultimo, la vita eterna). In questo modo, però, come sottolinea Nietzsche, concentrandosi cioè sulla seconda venuta e sull’altra vita, il fedele si dimentica di “questa” vita: la rifiuta.
Ne L’attesa, Mimmo Fadani evidenzia come nella modernità si abiti il tempo cronologico secondo una forma diversa dall’attesa paolina, priva cioè dell’elemento teologico (Dio) ed escatologico (vita eterna). L’attesa di Fadani presenta un mondo secolarizzato, nichilistico, disincantato: quello moderno. È un mondo manchevole di scopi ultimi e di verità assolute, nel quale l’essere umano, cosmologicamente solitario, non può comprendere la propria identità autentica né darsi una direzione, una traiettoria, una meta con la quale orientare la propria condotta e la propria volontà. La sua volontà, per dirla con Nietzsche, è una volontà del nulla. In questo cielo del pensiero, tenebroso come in segno di lutto divino (le nuvole nere nell’opera fadaniana), la volontà umana può ancora dirigersi verso qualcosa: può darsi un senso, un tragitto, un traguardo. Nell’assenza di scopi sovraumani, quel che resta alla volontà è ciò che prima Dio velava: la vita, questa vita.
La vita è un resto nel cosmo s-divinizzato. Un segreto, prima della morte di Dio, che dopo questa dipartita affascina e attrae con tutta la sua bellezza, solitudine e gratuità. Proprio come una donna (la lucciola nell’opera di Fadani) che ci attende sul far della sera e ci seduce con la sua sensualità. Nella sera di Dio, la vita è quell’occasione unica e irripetibile, quell’unico resto che si può ancora volere e che ora si può vivere nel pieno della sua interezza, senza alcun ostacolo. Anziché gettarsi a capofitto nella vita, la società moderna, tuttavia, si rapporta a questa opportunità in modo paradossale: la rifiuta. Mentre prima, con Dio, si attendeva il Messia e si rifiutava la vita (pur desiderandola), adesso che si è senza Dio e ci si può dare alla vita, si continua a bramarla invece di “viverla” e, in questo modo, si persiste nel respingerla. Se in passato era l’essere umano ad attendere il Messia, oggigiorno è la vita, senza Messia, ad attendere l’essere umano. L’opera di Fadani immortala questo ribaltamento. L’essere umano si nega alla vita o perché è pago di tutto ciò che già possiede (gli edifici nuovi) o perché non possiede nulla e pensa di non poterlo fare (gli edifici diroccati). Dietro il buio delle finestre dei nuovi fabbricati e dietro la luce che esce dalle finestre di quelli semidistrutti, si consuma lo spreco della vita nel mondo moderno.
Così come in Paolo il Messia arriva per ognuno “come un ladro nella notte”, allo stesso modo, su un piano diametralmente opposto, nella modernità anche la vita può giungere senza preavviso. L’umano moderno vagabonda nel buio di Dio in cerca di un senso e di uno scopo (i fari dell’automobile ignota) ed errando nell’ente senza essere, può ancora incontrare la vita là dove è sempre stata nella sua chiarezza (la luce del lampione che illumina la donna) e liberare l’oscurità del pensiero con quella luminosità improvvisa. Nel dipinto di Fadani, però, l’automobile non si scorge perché l’umano moderno non conosce la sua autentica identità, della quale, invece, è in cerca, in un mondo privo di fondamenti. Eppure i fari testimoniano che l’automobile c’è, dunque questo incontro può sempre accadere, malgrado se stessi. Quando ciò avviene, non si fa altro che incrociare ciò che è più evidente e, per questo motivo, invisibile: se stessi, in quanto vita incarnata, vita che già avviene, che si dà gratuitamente e che ognuno ha sempre e inconsapevolmente vissuto, creato, plasmato alla maniera di un artista, proprio come Fadani fa con la sua opera. L’attesa di Fadani testimonia, come una pagina di diario scritta con il pennello, l’occasione colta dal pittore bagnarese nel mondo moderno: l’incontro che ha fatto con se stesso e con la vita. Una possibilità che L’attesa offre gratuitamente a ogni osservatore.

pubblicato su CostaviolaInforma di Luglio 2011

sabato 9 luglio 2011

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Rosario Frosina, voce dei Ganja Garden

- di Saso Bellantone
I Ganja Garden – Rosario Frosina (voce, percussioni), Rocco Denaro (chitarra, cori), Domenico Cotroneo (basso, tastiere, chitarre, percussioni), Bruno Crucitti (batteria), Giuseppe Patané (basso), Lorenzo Macrì (chitarra), Valentina Sofio (tastiere) – nascono a Bagnara Calabra nel 2001, dall’amore comune per il reggae. Dopo numerosi concerti presso locali, festival ed eventi piazza in Calabria, Sicilia e Puglia, i Ganja decidono di avviare il progetto “Dub Garden”, un’officina musicale interamente dedicata alla musica Dub, una costola del reggae nata negli anni ’70 dalla “version” dei 45 giri, con la quale iniziano a curare la propria musica e quella dei musicisti emergenti. Dopo il successo del primo Ep, che prende il nome dal progetto, Dub Garden (2010), è uscito a luglio il nuovo Ep Laiuieu con il quale i Ganja Garden aprono il loro tour estivo 2011. Le date previste per il momento: sabato 9 luglio GIBRAN CAFE’ Rosarno (RC); sabato 23 luglio RED WHITE Rocca di Neto (KR); domenica 31 luglio KING LIZARD FEST Ripabottoni (CB); Venerdì 5 agosto MARSALA REGGAE FESTIVAL (TP); venerdì 12 agosto RED WHITE Rocca di Neto (KR); sabato 13 agosto CUBA LIBRE Roccella Jonica (RC).

Come nascono i Ganja Garden?
Nascono dall’amore comune per il reggae, per Bob Marley e per tutti quei grandi musicisti e artisti di questo genere musicale. I Ganja Garden sono un gruppo di amici che si sono uniti per mezzo di questa musica. Oggi alcuni amici sono andati altrove per lavoro o altre necessità e nuovi amici sono arrivati. È un progetto d’amicizia che si annuncia anche agli altri con il linguaggio della musica reggae.

Che cos’è la musica reggae?
La musica reggae è tante cose insieme. Innanzitutto è misticismo, è qualcosa che ha fare direttamente con Dio, con quell’essere che sta al di sopra di tutti e di tutto, o, ancora meglio, con quell’energia che si trova ovunque e a cui ogni cultura ha dato un nome differente: Yahweh, Dio, Allah, Jah-Rastafari. Noi ci sentiamo molto legati a questa dimensione del reggae e tutti i nostri testi parlano allo spirito, siano in dialetto, in italiano o in inglese. Per esempio “I’m not afraid (of ten thousend enemies)” è un brano ispirato al Salmo 3 dell’Antico testamento, un testo che dà molta forza, nel quale Davide si affida a Dio e chiede di proteggerlo, nella sicurezza che se Dio è con lui non basteranno diecimila nemici per sconfiggerlo. Il reggae è qualcosa di spirituale. Il Rastafarianesimo è la religione di chi fa reggae, una musica non soltanto jamaicana ma ormai mondiale. Come si legge nel Kebra Nagast, un testo che narra del leggendario trasferimento dell’Arca dell’Alleanza da Gerusalemme in Etiopia, l’imperatore di Etiopia Haile Selassie sarebbe un discendente della tribù di Giuda e dunque di Re Salomone e del figlio Menelik, destinato secondo Marcus Garvey a riportare tutti i figli di Etiopia sparsi nel mondo nella terra d’origine. I testi e la musica reggae attingono, anzi sono un tutt’uno con questa dimensione mistico-religiosa, tant’è che il reggae è usatissimo nelle cerimonie, nelle preghiere, nella meditazione rastafariane. Naturalmente, ci sono gruppi musicali che hanno una concezione del reggae potremmo dire “secolarizzata”, cioè separata da questo suo volto religioso, ma tanti sono i musicisti reggae legati al Rastafarianesimo.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della musica, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
La musica è come un seme di una pianta che offre alla vita i suoi frutti migliori. È qualcosa che può permettere all’essere umano di migliorarsi. Anche i Greci sostenevano che la musica fosse necessaria per trovare un equilibrio con il cosmo, con la natura, con gli altri. La musica è una medicina, una cura, un veicolo di cultura, di informazione, un modo per creare legame sociale. Naturalmente, la musica è anche divertimento e allo stesso tempo mi fa sentire libero, in pace con me stesso e con gli altri, che mi calma quando sono arrabbiato, che mi tira su quando sto giù e mi fa sentire tutt'uno con l'universo. Ci sono due concezioni della musica: quella costruita per scopi puramente commerciali, indipendentemente dalla qualità che offre, e quella d’autore. Oggigiorno si fa leva troppo spesso sulla prima perché la s’intende come un terreno sul quale edificare la propria fortuna economica. Nella stessa televisione vediamo programmi che offrono una visione distorta della musica, una musica diseducativa nei confronti dei giovani, i quali confondono la musica con il successo, il denaro, il culto dell’immagine, lo spettacolo. Credo che la vera musica sia al di fuori degli schermi: è fatta di sacrifici, di gavetta, di spirito, della gente che incontri, che la ascolta durante i concerti, che canta e balla assieme a te. La vera musica è una comunione tra te e la gente, una sintonia. Non bisogna badare a quello che si vede e si sente in televisione, il media più diffuso che spesso offre dei significati scorretti delle cose, musica compresa. Internet è ancora poco utilizzato ma già in esso si riesce a scorgere qual è il vero panorama musicale che ci sta attorno. I gruppi emergenti d’Italia e del mondo hanno la possibilità di farsi conoscere e ascoltare da migliaia, milioni di persone, di far conoscere le loro turnée, di auto pubblicizzarsi gli album, i singoli, il merchandising che producono da soli e in alcuni casi riescono anche a vivere della propria musica. Certo, se poi viene il successo è chiaro che non si rifiuta, però quando arriva da quest’altro lato dello schermo, è tutta un’altra cosa: non è il successo in sé e per sé ad arrivare, è l’altra musica che arriva al grande pubblico, quella vera.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire la musica dei Ganja Garden un'opera d'arte, una creazione nel senso pieno del termine?
Dal momento che la musica e i testi sono nostri, possiamo dire di sì, però il giudizio sulla qualità, sulla poesia della nostra musica e dei nostri testi spetta a chi ci ascolta. A noi interessa creare, indipendentemente dall’essere musicisti o operai. Ci può essere creazione e poesia in tutto, a prescindere da ciò che ognuno fa. Anche una passeggiata mentre all’orizzonte si vede un tramonto, può essere un’occasione creativa: crei dei pensieri, senti delle emozioni diverse dalle altre. Penso che un artista è anche chi riesce a cogliere dall’arte, pur non riuscendo a cimentarsi in essa. È chi riesce a comprendere a pieno il messaggio dell’arte, la sua bellezza e riesce a trasmetterlo ad altri con un’altra arte diversa dalla prima, ma sempre in modo semplice, diretto, immediato. La semplicità è importante. Essa riesce a esprimere concetti difficili e a renderli comprensibili anche a chi è meno ferrato in materia o ha studiato di meno.

Perché suoni? Perché senti l’esigenza di comunicare mediante l’arte della musica?
Per me è qualcosa di innato, di cui non posso fare a meno. È come respirare, pensare. È qualcosa di naturale al pari di ogni altra. Ho sempre il bisogno di conoscere musica, brani, artisti nuovi, da cui trarre ispirazione per la musica che faccio assieme ai Ganja Garden e per la mia vita personale. Quindi suono e canto perché io stesso sono quel suono e quel canto, ma sono anche il desiderio di comunicare . In un’epoca in cui il sistema tende a dividere, la musica è qualcosa che invece unisce le persone sia durante un concerto, quando sono fisicamente nello stesso luogo, sia quando ognuno è in casa propria, nella propria automobile o al posto di lavoro. La musica riduce le distanze spaziali ma anche quelle del pensiero. Suonare, ballare, cantare – sono dei fenomeni che abbattono qualsiasi differenza individuale. La musica fa conoscere altre persone, fa stabilire un dialogo tra sconosciuti. È come se, ogni volta che c’è la musica, si accendesse una medesima miccia su lati opposti: è la miccia della comunicazione. La musica fa comunicare le persone, in un momento storico in cui si tende a non parlare con nessuno se non per lavoro e interessi personali. In un certo senso, la musica è una rivoluzione ma interiore: non ha a che fare con la politica o altro, è un cambiamento interno senza il quale non può nascere nessun altro cambiamento. La musica è il cambiamento intimo della persona.

Che cosa raccontano i Ganja Garden con la loro musica?
Storie di vita, esperienze, rivoluzioni personali, problematiche sociali e il rapporto con il Divino. Per esempio “Me cumpari” descrive questa nostra usanza del bar, del caffè. Per l’uomo del Sud il caffè al bar è il punto di contatto tra le persone. Si conosce la gente e spesso ci si incontra con realtà totalmente diverse, che hanno secondi fini, con persone di tutti i tipi, belle e brutte. Il caffè al bar è il simbolo della società calabrese e dei suoi paradossi: al bar trovi il prete che prende il caffè con il politico, l’operaio, il malavitoso. Il bar è un luogo dove si riducono tutte le differenze sociali ed è il simbolo della società buona e di quella cattiva. Poi abbiamo testi in italiano come “Oh God”, un testo che si rivolge direttamente a Dio e chiede a Dio di liberarci dal crimine e dal male. Poi cantiamo anche in inglese con pezzi mitici come “Zion” o altri. I Ganja parlano della loro terra e di chi la abita. Ne cantano i mali, lanciando messaggi di speranza.

I Ganja possono sentirsi tali senza i pubblici?
Senza la gente, i Ganja Garden non avrebbero ragion d’esistere. La gente è fondamentale non soltanto per portare avanti il progetto ma per trasmettere ad altri il messaggio della nostra musica. Il supporto della gente che ci segue, specie degli amici che ci seguono nei paesi vicini e lontani, è importante: ti dà forza, coraggio, ti fa capire che non è vano quello facciamo. Ci fermano anche al di fuori dei concerti e ci chiedono come va il progetto, quando suoniamo la prossima volta, se abbiamo scritto altre canzoni. Spesso sentiamo la gente passare con la nostra musica nello stereo della loro automobile. Insomma, tutto questo è un’energia, uno stimolo vitale per il gruppo. Poi quando suoniamo i rapporti tra di noi e tra noi e la gente si rafforzano. Con la musica si cresce insieme, ci si unisce anche con gli sconosciuti. Le persone che non conosci ti sembra di conoscerle da una vita. Canti una canzone con una persona che non conosci e noti quell’alchimia che c’è già, pur non avendola mai data per scontata. I Ganja sono la gente.

Che cosa significa oggi vivere come artisti e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Essere musicisti comporta diversi sacrifici, specialmente perché si fa una vita precaria sul piano del lavoro e dei guadagni. In breve, non ci si arricchisce né si sopravvive. Non si riesce a vivere esclusivamente di musica e si ha bisogno del supporto dei propri familiari. La famiglia è la più grande azienda d’Italia e sta salvando l’economia italiana. La famiglia ti aiuta ad andare avanti soprattutto economicamente. Si spera però con il lavoro costante di arrivare a guadagnare qualcosa con la musica e di non pesare più ai propri familiari. Personalmente, amo la musica da quando ero ragazzo: suono, mi esercito, canto continuamente. Ho studiato musica anche all’università e sapevo fin dall’inizio che si trattava di una scelta molto difficile per sopravvivere rispetto ad altri settori lavorativi che ti danno maggiore sicurezza. Spesso ti scontri con una mentalità, non soltanto qui al Sud ma in tutta l’Italia, secondo la quale la musica è soltanto un divertimento o un passatempo. Molti giudicano i musicisti dei poco di buono, come persone che non vogliono lavorare e alle volte tanti musicisti abbandonano la musica perché sono troppo sensibili e troppo esposti a questi giudizi così superficiali. Per fortuna, ognuno di noi va avanti grazie al sostegno della propria famiglia e della gente che ci segue nei nostri concerti. Si è sempre sottopagati, spesso non copri nemmeno le spese per un concerto o devi aspettare troppo tempo per essere pagato e per coprire a tua volta le spese di un disco, per la riparazione di uno strumento o per altro. Grazie a Dio ognuno di noi trova qualche altro “lavoretto” da fare e si va avanti con la nostra passione, con la nostra voglia di sentirci uniti con la gente e di parlare un’unica lingua.

Che cosa spinge te e i Ganja a restare nel Sud?
È la terra che ti chiama, che ti attira a sé come una calamita. C’è un legame con la bellezza di questa terra che è difficile da recidere. È, però, una terra maledetta: presenta nello stesso tempo la bellezza e il ribrezzo assoluti. “È un paradiso abitato da diavoli”. Molti ragazzi sono in eterna lotta tra il restare e l’andarsene. Noi non abbiamo deciso di rimanere ma di partire dalla nostra terra, non soltanto con la musica ma anche con la cultura. Abbiamo fondato l’associazione “Cultural Roots” per partire con tutti gli strumenti disponibili e tentare di fare qualcosa, anche senza l’aiuto delle istituzioni. Ci basta il supporto della gente, dei locali, delle altre associazioni culturali. C’è da aggiungere che già alcuni componenti del gruppo vivono a Bologna e forse anche un terzo si trasferirà al nord. Quindi noi viviamo questa lontananza da anni, lavoriamo ai pezzi nella lontananza per poi riunificarci durante il tour estivo e passare ai concerti. Sicuramente è difficile restare assieme con questa distanza ma faremo di tutto per passare più tempo possibile insieme, per lavorare al progetto. L’obiettivo della nostra musica è di raggiungere più gente possibile. La musica stessa è instabile per natura: noi dobbiamo seguire le onde della nostra musica e spingerci là fin dove ci portano, però, sempre con la nostra terra e il nostro dialetto nel cuore. Se un giorno saremo in Germania, in Spagna o in Brasile, noi continueremo a cantare con il nostro dialetto. L’anno scorso sono stato a un festival reggae in Spagna e ho notato un fatto al quanto curioso. Sia sulla nave sia in piazza durante il festival, ho preso la chitarra e mi sono messo a cantare le nostre canzoni e gli spagnoli hanno cominciato subito a cantare pure loro. Alcuni catalani mi dicevano che sembrava stessi cantando in catalano. Se pensiamo che la Calabria è stata anche sotto il dominio spagnolo, si spiega allora questo filo conduttore che ti unisce anche al di là delle barriere nazionali. Il dialetto, con i suoi termini duri e arcaici, è il linguaggio più semplice per trasmettere dei messaggi, per raccontare anche le storie più dure e i problemi più difficili. Per capire che cosa voglio dire, faccio un esempio: quando noi ascoltiamo la musica in inglese, non capiamo che cosa dice ma ne cogliamo intimamente il senso. Insomma, si può comunicare con qualsiasi lingua ma quella dei Ganja Garden resterà sempre il dialetto calabrese, la lingua della nostra terra.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Io sogno sempre e sempre con un piede per terra. Il sogno ha un valore importante sia sul piano scientifico che metabolico. In psicanalisi i sogni sono fondamentali per l’equilibrio della mente; nella vita il sogno è indispensabile perché chi smette di sognare vive soltanto di inerzia o, addirittura, non vive proprio. Tutti sognano e tutti devono continuare a farlo. Molti non sognano più per le disgrazie della vita, altri non ce la fanno perché c’è molta bruttezza nel mondo che li porta a non sognare più. Capita un po’ a tutti un periodo in cui non si sogna: se però riesci a guardare quei momenti nel modo giusto, è proprio lì che trovi la forza per cominciare di nuovo a sognare. Quando un recipiente è pieno non puoi riempirlo più, ma quando sei vuoto ti senti spaesato, non hai più voglia di vivere. Invece è proprio quello il momento in cui proprio perché sei vuoto ti puoi riempire della bellezza che c’è. Riesci a trovare quel puntino di luce, quella stella fissa che c’è sempre stata e che continua ad indicarti la strada che devi seguire. Alla fine luce e buio non possono vivere l’una senza l’altro: la vita non può esserci senza i sogni.

Il titolo del vostro EP è Laiuieu. Che cosa significa?
Il brano “Laiuieu” è nato dal pensiero rivolto a un amico che lavora a Malpensa, che carica e scarica gli aerei. Cercavo di immaginare cosa poteva pensare sul lavoro, la sua fatica nel ripetere ogni giorno sempre gli stessi movimenti. Ma ho anche immaginato che a un certo punto mollava tutto, prendeva la sua canna da pesca e andava in riva al mare a pescare, allontanandosi da questa società incentrata su una concezione del lavoro opprimente. Laiuieu denuncia il lavoro stressante di questa società che non lascia all’uomo il proprio tempo di vivere.

Oltre ad acquistare i vostri Ep, chi desidera seguire i Ganja Garden e saperne un po’ di più sulla vostra musica, dove può rivolgersi?
per info e concerti: EMAIL: rosariof79@libero.it - TEL:3315897493

Alcune parole per i giovani.
Non fatevi abbindolare, siate voi stessi, coltivate le vostre passioni e seguite i valori trasmessi dalla famiglia innanzitutto, che sono importanti nella nostra società. Abbiate un buon rapporto con la musica perché fa crescere, fa meditare e rende persone migliori. La musica è come un magnete che attira a sé le parti negative di noi, le nostre scorie e ci consente di vivere con la nostra vera essenza.