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lunedì 31 dicembre 2012

OLTREWEB Buon 2013? No, buona battaglia...


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
sei all'epilogo di un anno e al varo di uno nuovo e già cominci a mandare buoni auspici a parenti e amici, sperando che il 2013 sia diverso dal 2012. Sarà certamente diverso sì, ma non è detto sarà migliore. Quel che è cominciato l'anno precedente, proseguirà implacabile per la creazione di un nuovo ordine mondiale e di una differenza tra signori e schiavi. I diritti, le libertà e le dignità acquisite dai tuoi avi con il tributo del sangue continueranno a svanire sotto i colpi di martello del dio denaro, il supremo meccanismo di rivoluzione totale dell'urbe, figlio del modo di pensare dominante la nuova era: il capitalismo. I capitalisti e le banche accresceranno maggiormente il proprio potere trasfigurandosi in una nuova nobiltà dominante, mentre gli umili lavoratori, gli ex e gli aspiranti tali vedranno sempre più stringersi addosso le catene di una nuova schiavitù. Il lavoro, cioè la possibilità di sopravvivere, diverrà sempre più un miraggio, le difficoltà si trasformeranno maggiormente in bolle di cristallo infrangibili. Il costo delle tasse, della benzina, degli alimenti, degli abiti, di qualsiasi cosa possa essere prezzata – ente, fatto o servizio –, insomma il costo della vita aumenterà vorticosamente giorno dopo giorno. Gli stipendi e le pensioni si ridurranno dannatamente, i costi per lavorare diventeranno insostenibili, l'avere una casa, un'automobile, un cellulare o un pc diverrà sempre più un lusso per pochissimi. Sempre di meno saranno coloro che riusciranno a costituire una famiglia tutta propria, ancora di meno saranno quelli che riusciranno a portare avanti quella che già hanno. Aumenteranno i senza-lavoro, i bisognosi, gli affamati, i senza-tetto, i disperati, i precari. Diminuiranno gli imprenditori, i posti statali, i curatori, le mense, i rifugi, i custodi spirituali, le sostituzioni e le aspettative. Nasceranno sempre meno figli, sempre di meno saranno coloro che avranno i capelli brizzolati. Le scuole e le università si trasformeranno sempre più in aziende militarizzate volte a sfornare fantocci da usare come numeri nella guerra del potere economico. Lo studio, l'informazione, la conoscenza non serviranno più il criticismo, la genialità e lo spirito civile ma saranno sostituiti dalla ripetizione, l'indottrinamento, la memorizzazione passiva e inconsapevole. Gli ospedali e le chiese diverranno luoghi di cura dai costi esorbitanti, le cariche pubbliche spazi privilegiati per pochi eletti – pazzi, criminali e militari – con le tasche piene e al servizio degli squali. Stesso dicasi per quelle leviataniche e per quelle a Nord, a Sud, ad Est e ad Ovest del Leviatano. Il Titanico Mostro Settentrionale, assieme ai fratelli gemelli d'altri continenti, muove silente le proprie pedine economiche, fiscali, bancarie, politiche, militari e catecumenali accentrando tutti i poteri nelle proprie ventose, cancellando i Nani del vecchio continente e preparando il terreno per la conquista del pianeta.
E tu, mio caro web, auguri a tutti un buon 2013? No, web, impegnati invece in una buona battaglia per la sopravvivenza. Svegliati dall'incanto, non ci sarà nessun miracolo, nemmeno stavolta, come nell'inizio degli anni precedenti in cui ti auguravi tutto il bene possibile. Il vero prodigio sarebbe soltanto se tu, mio caro web, aprissi gli occhi e cominciassi a capire che se il mondo e la tua stessa vita sono ridotti allo sbando, il merito, o meglio il demerito, è anche il tuo.
Nessuno regala nulla a nessuno, lo sai mio caro web, tutto ha un prezzo. E per i potenti non c'è miglior regalo che hai fatto finora se non quello di spegnere la testa e dimenticare il tuo coraggio, in cambio dell'illusione di una vita più facile perché condotta da pochissimi che scelgono per tutti. Il prezzo che hai pagato senza accorgetene, è l'attuale assenza di tutto quello che vorresti riavere con il 2013. Credi ti verrà restituito tutto? Credi che basti qualche augurio? O forse è ora che tu stesso ti riprenda tutto quello che è tuo, che è di tutti, cioè il diritto a un'esistenza dignitosa, alla libertà? Non è l'ora di difenderti dai capitalisti e dio batterti sul serio per la tua sopravvivenza?
Medita web, medita...

martedì 25 dicembre 2012

A caccia di lucertole



- di Saso Bellantone
Sentiva la sua voce, sì, ma voleva restare ancora un istante. Amava correr dietro alle lucertole. Non per far loro del male, soltanto per giocarci. Si divertiva da matti quando, vedendola, fuggivano per rifugiarsi in un buco nel terreno o sotto un masso. E lei, correva loro dietro per spaventarle e capire quanto erano capaci di andare veloci. La battevano sempre, ma a lei non importava. Era il suo gioco preferito, un modo per sentirsi davvero libera per qualche istante, poi sarebbe tornata da lui... continua a leggere

Disoblio augura ai suoi lettori un buon Natale.

giovedì 20 dicembre 2012

giovedì 13 dicembre 2012

DRACULA di Bram Stoker



- di Saso Bellantone
Un viaggio verso luoghi sconosciuti, verso culture sconosciute. Un viaggio nell’ignoto, là dove si è sempre all’oscuro di ciò che sta per accadere e nel bel mezzo del quale non è più possibile tornare indietro. Un viaggio dove in ogni momento realtà e sogno sembrano combinarsi tra loro partorendo l’assurdo, l’impossibile, l’insensato, distruggendo passo dopo passo quello che finora era ‘la realtà’.
Un viaggio che scava dentro le più celate paure dell’uomo, che tira a galla le sue più nere emozioni; un viaggio in cui, ogni volta e gradualmente, si prende coscienza dell’imminenza della fine, e nel quale non si può fare a meno di pensare alla fine, alla propria fine. Un viaggio cui non ci si può sottrarre, che non dà il tempo di prender fiato e che si è costretti, malgrado sé, a percorrere nella sua interezza, perché in ogni attimo chiama in causa, coinvolge e minaccia in prima persona non solo se stessi e la propria sorte, ma anche quella di coloro con i quali si condivide quella strettissima porzione di spazio-tempo che viene identificata col proprio mondo, la propria casa, la propria realtà. Un viaggio che finisce per trascinare dentro la sorte dell’intero genere umano e che può trovare termine solo là dove tutto è cominciato.

Pubblicato nel 1897 – alle soglie del XX secolo, il secolo delle rivoluzioni, del poliedrico mutamento dell’uomo, delle società, delle nazioni, del globo terrestre – Dracula di Bram Stoker, in un misto tra storia, leggenda, epistole, fantasia e allegoria, è la lente d’ingrandimento su alcuni principali cambiamenti della civiltà umana, determinandone in qualche modo il buio destino nel tempo a venire e nella nuova era cui soltanto ci stiamo ancora affacciando: il lavoro, i rapporti internazionali, la figura della donna, la conoscenza.
Il lavoro è quell’attività che accompagna l’uomo per buona parte della sua esistenza, riempie e colora il suo tempo ‘dandogli da fare’, e consentendogli di ‘guadagnarsi da vivere’, di badare al proprio sostentamento. Il lavoro è una delle modalità principali attraverso la quale ogni persona canalizza la totalità delle proprie forze e manifesta nella sua quasi interezza il proprio essere. Pur attraversando Dracula sullo sfondo dall’inizio alla fine, il lavoro gioca un ruolo fondamentale. Tutto comincia per lavoro: è metaforicamente in questa sfera che la vicenda ha origine e che le forze del bene e quelle del male entrano in conflitto tra di loro. È per tale motivo che comincia il viaggio di Jonathan Harker, è proprio dietro le mentite spoglie di un mero cliente che si dà a vedere – anche se solo in seguito se ne diviene consapevoli – la figura del ‘vampiro’ e che si viene fortuitamente a conoscenza dei suoi cupi progetti e della sua vera identità ed ambizione; è nella dimensione del lavoro che la brama di sangue del nosferatu trova terreno fertile per diffondersi dalla Transilvania all’Inghilterra e di qui in tutto il globo, mentre gli altri svolgono i propri compiti, doveri, mansioni all’oscuro dei disegni e dei profitti del vampiro; è per lavoro che il dottor Seward scopre il legame dei buchi al collo di Lucy Westenra col vampiro o il legame di Renfield con quegli; è per lavoro che il dottor Seward chiama in causa Van Helsing e che questi scopre il pericolo in cui ci si è imbattuti.
Solo una cosa non avviene più per lavoro: la lotta da parte di quasi tutti i protagonisti della storia contro il vampiro e contro il pericoloso morbo di cui è portatore – che rischia di diffondersi ovunque – per difendere gli innocenti e le persone care. Mentre Van Helsing si ritrova già in ballo ed è già pronto a lottare contro il Non-morto e il suo maleficio, mettendo subito a rischio la propria incolumità al servizio degli innocenti e delle persone care, forse più gradualmente avviene la presa di coscienza di dover lottare sia per il dottor Seward che per Lord Godalming, Quincey Morris e Jonathan Harker.
Il giovane ed inesperto Jonathan aveva avuto l’occasione di sbarazzarsi del nosferatu direttamente in Transilvania, nel momento in cui quegli era più indifeso, ma qualcosa gli aveva trattenuto la mano: l’insicurezza, l’incertezza di trovarsi o meno dalla parte giusta. Solo quando la sua amata Mina si troverà in pericolo, Jonathan deciderà di prendere posizione e, in una lotta contro il tempo, di fare quello che non era riuscito a fare qualche mese avanti. Se prima era ancora alle prime armi e all’oscuro di quanto di pericoloso poteva celarsi dietro il semplice svolgimento di ciò per cui era pagato, ora e solo ora – che è diventato tragicamente consapevole di quanto andava fatto prima, prima che il male colpisse Mina – comprende quanto sia pesata la sua inesperienza, incertezza ed esitazione, e decide di mettere a rischio la propria vita per salvare quella dell’amata, e con lui gli altri, dopo aver fallito nei confronti della povera Lucy Westenra, contagiata e trasformata anche lei in Non-morta.
Il vampiro e la brama di sangue sono la metafora di quanto di più pauroso, malefico e pericoloso possa esserci ovvero, gli uomini stessi e la segreta ambizione al potere che ognuno cela in sé. Da questa prospettiva, il romanzo si colora di un’altra luce sottolineando come proprio il lavoro – quale attività in qualche modo costitutiva e organizzativa dell’uomo, e non solo – sia lo spazio nel quale si gioca e si dispiega la segreta ambizione al potere da parte degli uomini, trasformandoli spesso nella paura, nel male e nel pericolo in persona agli occhi degli altri uomini. Il lavoro si mostra quindi come elemento principale nel quale viene a giocarsi – agli occhi di Bram Stoker nella nuova era – l’eterna partita tra il bene e il male ma, un po’ per inesperienza, un po’ per insicurezza, un po’ per innocenza, ognuno di noi non comprende sulle prime che sta giocando ogni volta un ruolo determinante, solo dopo aver effettuato la scelta sbagliata capiremo il male che abbiamo fatto. Il guaio è che spesso dietro ogni cliente, allievo e quant’altro può celarsi ogni volta un ‘vampiro’ e, sebbene noi svolgiamo il nostro compito con tutta l’obiettività, professionalità e disinteresse possibili, potremmo scoprire solo quando è troppo tardi – se non lo facciamo volutamente – di aver reso un servizio a quanti per il potere vogliono mettere in pericolo la vita degli innocenti e delle persone che ci stanno più care – quegli uomini ambiziosi che finiscono per dimenticare, col tempo, di aver intrapreso la folle corsa al dominio e al potere per tentare di salvaguardare e potenziare la vita delle persone che girano attorno a loro all’inizio, e mettendole in pericolo alla fine, chiudendosi dietro la propria brama ed avidità.
Perciò nel romanzo vi è anche la figura di Van Helsing, le cui generalità conoscitive vengono citate una volta sola (p. 147): egli rappresenta la tradizione, la conoscenza, la storia, incarna la figura ormai rara del maestro nelle arti, nelle scienze e nello spirito senza l’aiuto del quale i protagonisti della vicenda poco avrebbero potuto contro il potere del Non-morto; Van Helsing rinvia alla necessità di una tale figura nella nuova era e alla necessità del sapere e della conoscenza del passato e della tradizione, necessario anche per il semplice operaio, visto che sarà il lavoro lo spazio nel quale decidere ogni volta la propria sorte e quella di coloro che ci stanno a fianco.
Altro elemento decisivo è la figura di Mina Harker, nella quale Bram Stoker vede e riconosce l’importanza della figura della donna all’interno delle più disparate questioni politiche, economiche e lavorative, in generale, che verranno nella nuova era. Mentre all’inizio l’autore sottolinea come il ruolo della donna e dell’uomo siano ancora diversi sul finire del XIX secolo – casa e galateo e figli per le donne, lavoro per gli uomini – in seguito, con l’implicito riferimento al passaggio verso la nuova era, la figura di Mina Harker finisce per assumere un ruolo decisivo tanto quanto quello di Van Helsing per la lotta contro il conte: senza di lei – che via via segue il proprio percorso di scoperta e conoscenza del male prima e dopo il contagio – tutto sarebbe stato vano, nonostante la ragione fondamentale per l’innesco a tutto tondo della lotta contro il nosferatu e contro il tempo irreversibile della metamorfosi di Mina, è proprio il suo contagio – cioè il rischio che anche lei diventi avida di potere come il vampiro.
Il lavoro, la conoscenza e l’importanza della donna saranno dunque, agli occhi di Bram Stoker, il luogo e i protagonisti delle vicende umane, legate come sempre alle scelte dei singoli individui, l’unico vero sito nel quale si giocherà assiduamente l’eterno scontro tra le forze del bene e quelle del male; ma vi sono ancora altri due elementi silenziosi e che appaiono sullo sfondo, che determineranno le sorti della civiltà a venire e del globo: l’amore e l’amicizia, l’amore intramontabile e intaccabile di Jonathan e Mina, il forte sentimento di amicizia e di unione, di fiducia che ha legato insieme le speranze di tutti i personaggi del romanzo in vista della vittoria contro il vampiro, contro il male.
Infine, non resta che il monito dell’autore nei confronti dell’avidità, dell’ambizione, del desiderio di potere incarnato dalla figura di Dracula, per il quale la brama di sangue non ha fatto altro che trasformare la sua vita in un incubo, nel quale rendere un inferno anche la vita degli altri e, alla fine, solo per scoprire di aver ottenuto così una vita maledetta: il Non-morto infatti è colui che ha dimenticato l’innocenza insita in sé dalla nascita e che il desiderio di potere finisce per farci dimenticare di avere in ognuno di noi; questo è il morbo che Dracula vuole diffondere su ogni angolo della terra, questo è il vero nemico che i protagonisti combattono, per salvaguardare l’innocenza di tutti. Bisogna guardarsi perciò dal diventare Non-morti: si diventa tali quando si perde la purezza e la semplicità che è in ognuno di noi, quando si smarrisce il desiderio di vivere insieme agli altri per il semplice stare gioiosamente con essi, quando ci si lascia andare al potere e all’ambizione, unico germe col quale, se si diffondesse a macchia d’olio, rischieremmo di vivere, attimo dopo attimo, un’intera esistenza dannata e maledetta, dove la morte non apparirebbe più come un dono, ma come l’impossibilità di cambiare il proprio passato, la propria vita vissuta e il brutto ricordo di noi resterebbe immutato nelle menti degli altri.
È questo il messaggio che Bram Stoker, precorrendo i tempi, vuole comunicarci, quando si pronuncia per mezzo di Van Helsing in merito ai Non-morti, spiegando che
«quando essi diventano tali, col mutamento viene la maledizione dell’immortalità: loro non possono morire, ma devono secolo dopo secolo aggiungere nuove vittime e moltiplicare i mali del mondo; perché tutti che muoiono preda di un Non-morto diventano anche loro non-morti e predano poi gli altri. E così il cerchio sempre più si allarga, come le increspature che fa un sasso gettato in acqua» (p. 278)*.

* Recensione del marzo 2007.

sabato 8 dicembre 2012

Fragranza mnemonica


- di Saso Bellantone
"Ricordare, è come regalare un fiore a chi non c'è più. Malgrado sia invisibile e impalpabile, a volte se ne sente il profumo e ci si chiede se chi l'ha ricevuto ci abbia soffiato sopra per ricambiare".

martedì 4 dicembre 2012

Inversione di rotta


- di Saso Bellantone
"Quando si è follemente in corsa, senza meta alcuna né misura, è assurdo bramare del tempo per se stessi. Non esiste il tempo né il mondo: occorre decidere in ogni istante di essere la lancetta del quadrante della propria esistenza".

lunedì 3 dicembre 2012

Pulizia introspettiva


- di Saso Bellantone
"Non è l'inverno né il maltempo, è soltanto l'urgenza introspettiva di fare un pò di pulizia".

lunedì 26 novembre 2012

Attualità di ieri


- di Saso Bellantone
"La voce del tempo andato lievemente riecheggia dagli abissi della memoria, per tutti. Pochi la ascoltano e pochissimi capiscono che le sue parole non sono meri ricordi. Sono, invece, gli elementi fondanti il tempo presente e la superficie della coscienza".

giovedì 22 novembre 2012

SCILLA di Oreste Kessel Pace



- di Saso Bellantone
Che senso ha la bellezza o il lavoro o finanche l'immortalità, se non si ha l'amore? È come un continuo susseguirsi di attimi senza tempo, monocromatici, insipidi, perennemente uguali a se medesimi. La vita perde il suo fascino, la sua ebbrezza, scadendo in una grigia ripetizione il cui fine è la reiterazione stessa, senza sosta né possibilità del nuovo. Si diviene schiavi di un'assidua nullafacenza o anche di una perenne operatività, nei quali ogni gesto, percezione o parola perde il gusto dell'accadere e la ragione sprofonda nelle inaccessibili dimore dell'oblio.
L'eterno susseguirsi dell'insensato ha però le gambe corte, perché il fato, o la divinità, adora giocare con la vita umana, evocando i più semplici sortilegi e muovendo il demone più potente di tutti: l'amore. Ecco che, allora, la vita torna a mostrare il suo volto più seducente ed euforico, e il tempo fa la sua comparsa per misurare l'esordio di ogni istante, nel quale ogni avvenimento, sensazione o discorso, tessuti dai fili invisibili della causalità, acquista una sola traiettoria verso un'unica meta: l'amata/o.
Nel disperato tentativo di far breccia nel cuore di quest'ultima/o, la ragione s'inabissa doppiamente nella dimenticanza e diviene folle, compiendo numerosi prodigi e superando qualsiasi ostacolo. Ma il destino, o il dio, come assaporando il frutto più prelibato della pianta dell'esistenza, ha già stabilito l'epilogo. Deviando gli ultimi passi che portano alla felicità, condanna gli esseri umani a un dolore, a un terrore e a un'angoscia tali che nemmeno la morte è in grado di curare, perché l'amore resta soltanto un sogno e la propria mostruosità diviene la solitaria realtà con la quale si è condannati a vivere in eterno.
In Scilla (Città del sole Edizioni), Oreste Kessel Pace rispolvera una delle storie d'amore più avvincenti e più tragiche della letteratura mondiale, quella di Scilla e Glauco, proponendo al lettore di riflettere sull'insensatezza del procedere umano, continuamente orientato alla ricerca dell'estetismo perfetto, della ricchezza e della realizzazione del proprio desiderio della potenza (l'odierna immortalità). Senza l'amore, l'essere umano vive continuamente in una triste ciclicità fine a se stessa. Con l'amore, invece, sperimenta degli attimi eterni che danno significato a un'intera esistenza. Non è detto, tuttavia, che tali istanti conducano a felicità certa. A volte, il vortice della società ci strappa quel pizzico di umanità restante e ci trasforma in creature talmente bestiali e orrende da allontanare da noi l'amata/o. È inutile affannarsi nella speranza di conquistarla/o. Da un lato, perché con la nostra irreversibile metamorfosi, l'abbiamo già perduta/o per sempre; dall'altro lato, perché con la nostra ostinazione, rischieremmo di trasformare in un mostro persino chi ha infranto il nostro cuore.
L'amore, in definitiva, resta la perla più preziosa di un'intera esistenza. Anche se dovesse finire male e dovesse restare soltanto un ricordo, questo è quanto trasmette Oreste Kessel Pace con il suo Scilla, varrebbe la pena di essere vissuto.

mercoledì 21 novembre 2012

lunedì 19 novembre 2012

Polvere d'oro


- di Nadia Caruso
Brancola.
L’uomo brancola, incerto, striscia per le strade, rifiuto del mondo.
Non si erge, non vive... Strattonandosi sulle esuli braccia, rincorre una vita che il più delle volte non è altro che conservazione, scarnificazione della realtà.
Teme il mondo, fugge la luce quanto il buio, terrorizzato dall’idea di divenire preda di uno e dell’altro, esaltandosi o serbandosi rancore, riservando agli altri quel briciolo di umanità che dovrebbe smettere di negare a se stesso, vittima incauta della propria disumana crudeltà.
L’uomo brancola e, così facendo, si chiude gli occhi, condannandosi alla pura e semplice sopravvivenza.
Intrappola la visione di sé, degli altri, smarrisce pian piano i confini di quel mondo che, fumo in dissoluzione, gli sfugge tra le dita, come i granelli di una sabbia troppo sottile da trattenere volontariamente.
Ma la sabbia è fastidiosa, si sente in bocca, sulla pelle, negli occhi arrossati di pianto, tra i denti digrignati da falsi sorrisi, sulle mani sporche del sangue di ogni ideale massacrato dolcemente ed ha il retrogusto agrodolce della contaminazione.
La sabbia sinuosa subdolamente s’infila tra le crepe dello specchio, che riflette nient’altro che una vanità incrinata. Ogni granello è uno sguardo malato, osserva la direzione del divenire dell’uomo, il fiorire di ogni sua idea, di ogni esperienza che lo rende uno ed unico e, attratto da quella unicità, lo spinge a deviare il proprio percorso, in favore di quella direzione che è anche il vettore guida dell’esistenza umana, la necessità di essere uno al pari dell’altro, sempre più simili, sempre più uguali.
I confini svaniscono, svanisce ogni linea di demarcazione e omologandosi alla morale comune l’uomo non percepisce più le differenze né il dolore né la gioia, semplicemente continua ad andare avanti, sbattendo contro quella figura che imperterrita gli va incontro e che ormai stenta a riconoscere come propria, nonostante sia confinata nella cornice lucida di uno specchio.
Continua a camminare, quasi per inerzia, confondendo perfino il rumore dei propri passi, ovattati dalle schegge di quel vetro nel quale si è ormai perso ogni riflesso, confuso in mille altri simili e speculari.
La percezione muta, senza che se ne abbia il minimo sentore, e lo sdegno per ciò che una volta era anormale si smussa. La volontà levigata e corrosa non si oppone più, preda e schiava dell’abitudine.
Scivola, viscida e appiccicosa, l’accettazione, rifugiandosi tra le pagine buie dell’animo umano.
Titaniche lotte vengono intraprese da chi, ingenuo superstite, tenta di opporsi a quel mare di sabbia per non restarne affascinato e poi sommerso, mentre già le orecchie risuonano di melodiose carezze, trappole ipnotiche delle sirene del nostro tempo.
Oasi del pianto, colme di lacrime mai versate, le macerie dei corpi si riversano su spiagge di morbida sabbia, briciole di convenzione sociale che assorbono personalità e precisione, fagocitando tutto ciò che la mente rappresentava in tempi passati, nella sola attesa di tramutare in aridità quei relitti di carne ormai a un passo dall’oblio.
E allora si aprono gli occhi, nonostante la sabbia, ci si lava la bocca, lasciando scivolare via insieme alla sabbia le parole non sentite e i gesti di convenienza. Si scrolla di dosso quella sabbia che è dannatamente appiccicata ad ogni angolo, con le mani, le braccia e poi le labbra le unghie e i denti, tentando di fuggire quell’imposizione di unità che brilla ancora sulla superficie deturpata dello specchio rotto.
Ma ogni sguardo è ormai spezzato, ogni gemito soffocato, e risulta enormemente difficile anche solo tentare di proferire parola dal momento che tutto, respiro compreso, è inesorabilmente soffocato dalla sabbia.
E tu, sconsiderato spettatore, sei cambiato.
Scrollandoti di dosso tutta la sabbia inizi ad assottigliarti, apprendendo così la realtà dalla quale vorresti fuggire. Trovi il punto fermo all’incompletezza di quella frase di cui ti riscopri ombra.
Il tuo corpo, il tuo volto, il tuo cuore si sbriciolano in pezzi sempre più piccoli, svelandoti orrore e disperazione in una pioggia dorata, frutto delle contaminazione delle quali ti stai liberando, ma anche dei frammenti di te che, per esse, hai sacrificato.
Tu, omuncolo insignificante, ti sei venduto al miglior offerente ed ora, tra nugoli di polvere splendente, ti riveli per ciò che sei: un lurido piccolo granello di sabbia dorata.

sabato 17 novembre 2012

Dalla misura all'essenza


- di Saso Bellantone
"Papà - disse l'alberello - voglio diventare al più presto un albero grande come te".
"Figlio mio - rispose l'altro - non aver fretta nel diventare grande. Non importa quanto si è grandi, se e in quanto tempo lo si diviene. Quel che conta, è assicurarsi, attimo dopo attimo, di essere già un albero anziché qualcos'altro".

venerdì 16 novembre 2012

Serendipità

- di Saso Bellantone
"Che senso ha la continua ricerca di sé quando, come per incanto, ci si ritrova innanzi alla bellezza di un attimo, che ha atteso eternamente il nostro passaggio?".

giovedì 15 novembre 2012

mercoledì 14 novembre 2012

Di foglia in gemma


- di Saso Bellantone
"Quando è la sua fine, l'essere umano cade dall'albero della vita come foglia secca ma, forse, proprio in quel momento, rinasce come gemma appartenente all'albero della conoscenza".

martedì 13 novembre 2012

giovedì 8 novembre 2012

IL MAGO DI OZ di Lyman Frank Baum



- di Saso Bellantone.
Qual è il senso della vita? La vita è quel fenomeno all'interno del quale, come catapultati improvvisamente da un luogo senza origine alcuna, ci si ritrova malgrado sé. Quando si è giovanissimi non si ha affatto coscienza dell'essere, appunto, in vita. Ma ad un tratto, un brivido ci percorre la schiena o una strana scintilla accende la miccia della nostra attenzione et voila, ci accorgiamo di “esserci”. Questo avvenimento, sui generis per ognuno di noi, dura però per ciascuno pochissimi istanti. Non appena si inizia ad avere coscienza della propria esistenza, ecco che subito, come coinvolti in un vortice che ci strappa via al precedente stato d'inconsapevolezza, ci si ritrova già a vivere, gioco di parole, la vita.
Così comincia la sfida della propria esistenza, con la comprensione cioè di essere già in corsa e di non avere tempo per meditare – allo scopo di conoscerlo – sull'inizio che si è persi, perché la vita incalza ad ogni istante e in ognuno di essi occorre perseverare nella riconquista, ogni volta, del pensiero, dell'amore e del coraggio necessari per proseguire il proprio viaggio. In questo cammino, certamente, s'incontrano tanti di quegli ostacoli e imprevisti che ci distolgono dal nostro sentiero o ci fanno sbagliare direzione, ci rattristano o ci fanno perdere la speranza, ci sconvolgono o ci mettono paura a tal punto da farci arrendere. Ma nel percorso s'incontrano anche, per fortuna, quei veri amici e compagni con l'aiuto dei quali si riacquista la tenacia di proseguire nella nostra direzione e puntare dritti alla meta.
Con Il mago di Oz, Lyman Frank Baum propone a ogni lettore, sia giovane sia adulto, di sondare la propria vita per mezzo dell'avventura di Doroty e di capire che, “in fondo”, non ha importanza sapere quando e dove è cominciato tutto né diventare le persone più sapienti, autoritarie o potenti del mondo. Occorre soltanto vivere il tempo che ci è concesso, ricordandosi sempre di tornare a casa dai propri cari.

sabato 27 ottobre 2012

L'accecante fretta


- di Saso Bellantone
"Uno dei paradossi dell'attivismo moderno è che si ha fretta nel fare qualsiasi cosa tranne una, cioè di prendersi tutto il tempo necessario per pensare a se stessi".

mercoledì 24 ottobre 2012

Puntura conoscitiva


- di Saso Bellantone
"Se nelle profondità del tuo essere covi spine, non meravigliarti allora se gli altri preferiscano starti lontano; se le tue spine, invece, sono portatrici di conoscenza, allora tenta di pungere più persone possibili".

martedì 23 ottobre 2012

La chiave della vita


- di Saso Bellantone
"Inutile cercare la chiave per aprire la porta della vita. Non puoi trovarla, perché l'hai persa quando hai attraversato quella soglia per la prima volta. Soltanto quando la varcherai nuovamente, malgrado te, ti ritroverai con la tua vecchia chiave tra le mani. Può darsi, tuttavia, che qualcuno abbia appena cambiato la serratura".

venerdì 19 ottobre 2012

Congiunzioni rivelatrici


- di Saso Bellantone
"Ognuno mira alla conoscenza di sé ma, a volte, ciò si realizza soltanto quando si tende la mano a qualcun altro".

martedì 16 ottobre 2012

Visioni taglienti


- di Saso Bellantone
"Anche nella nebbia puoi vedere... basta abituare i tuoi occhi a diventare lame".

venerdì 12 ottobre 2012

Pensieri visivi: OCCHIO di Maurits Cornelis Escher



- di Saso Bellantone
Un occhio. Sta fissando qualcosa ma non è la luce che si riflette nella sua iride. Può vedere la luce, sì, ma non quel che si apre in essa. Per farlo, deve fermarsi al bagliore e lasciare che qualcos'altro passi, entri. Soltanto allora ciò che si dischiude in quella fenditura, in quella chiarezza, può essere visto. Quel che vi abita, però, non è però l'immagine che si rispecchia nella pupilla dell'occhio né a vedere è quest'ultimo. A vedere nella crepa, nella luminosità, è il pensiero. E quel che scorge chiaramente è la morte.
Occhio di Maurits Cornelis Escher offre l'occasione di affrontare un argomento insolito. Ogni giorno, i quotidiani informano della morte di Tizio, Caio o Sempronio e ogni volta ci si sente scossi – o indifferenti, a seconda delle prospettive – perché si pensa al fatto che Tizio, Caio o Sempronio non c'è più. La notizia consiste nella scomparsa dalla comunità dei vivi di Tal dei Tali e ciò sconvolge per un periodo, breve o lungo che sia, a seconda dei casi, dopodiché si riprende la solita routine, come se non fosse accaduto nulla. “È ovvio, occorre vivere” si potrebbe affermare “non pensare costantemente al fatto che Tal dei Tali è morto” e si direbbe bene. Ma ciò su cui si vuole porre l'attenzione consiste nel fatto che pur accorgendosi della scomparsa di qualcuno dalla comunità dei vivi, ogni volta, leggendo o ascoltando una notizia di cronaca, ci sfugge sempre il medesimo fenomeno: quello della morte.
È un tratto tipico della nostra società. Non si pensa alla morte. È un fenomeno evitato, preso alla leggera o addirittura rimosso eccetto quando si perde una persona cara o, appunto, si è rischiato di perdere la vita. In questi casi, la morte dà da pensare e, alla fine – consapevolmente oppure no – non si fa altro che pensare alla vita.
Per le civiltà passate la morte è stata il fenomeno a partire dal quale pensare la vita. Da una precisa interpretazione della morte è poi originata, in chiave mistico-cultuale, una morale mediante la quale regolare le condotte di una comunità e, quindi, destinarne – seppur in parte, in larga parte – la storia. Per la nostra civiltà, ormai planetaria, la morte non conta. Non si pensa la vita a partire dalla morte ma a partire da alcuni “fenomeni della vita” – tra i quali il potere, il successo, la ricchezza, il piacere – che hanno generato un'etica della quantità, risoltasi ormai nella lotta di tutti contro tutti, che già produce differenza tra potenti e impotenti, signori e schiavi. L'avvenire della nostra civiltà è, quindi, condizionato dall'equazione vita = quantità.
Nelle civiltà passate, per mezzo dei medium o simboli mistico-cultuali nei quali si riconosceva e, dunque, per mezzo della morte, l'individuo dava un senso alla propria esistenza diverso dalla propria esistenza stessa e dai fenomeni in essa contenuti. Oggi ciò non accade. Da un lato perché la morte non è considerata un fenomeno della vita, eccetto nel suo volto economico-consumistico – dunque, quantitativo. Dall'altro lato, perché la mistica che regge la nostra società coincide perfettamente con la sua logica sintetizzata nell'equazione vita = quantità, la quale significa anche dio = quantità.
L'essere umano ha un nuovo comandamento “Non avrai altro dio all'infuori della quantità”. Alla luce di esso interpreta la vita, venerandola, nel modo della quantità, della ricerca della quantità di tutto: delle relazioni, della ricchezza, dei beni, dei servizi, dei piaceri, di qualsiasi fenomeno. Per lui, tradotto in termini filosofici, “l'Essere è la quantità”. Egli non ha tempo di pensare alla morte e, quindi, alla propria fine, per il semplice fatto che la morte è la fine della quantità, quindi è insensata e inutile. Si concentra, dunque, sulla quantità – cioè sulla vita, sul nuovo dio – e non si rende conto che continua a imbruttirsi, avvilirsi e infuriarsi sempre di più, riducendo rapidamente la distanza che lo separa dal giorno in cui distruggerà sé e l'intero pianeta. L'essere umano, in breve, è fuori di sé.
Non è questo il luogo – né se ne ha l'intenzione – di impiegare l'idea della morte per generare nuove morali o scale di valori con le quali ripensare la civiltà planetaria e le sue condotte. Si propone, piuttosto, di tornare a pensare alla morte ogniqualvolta si legge un articolo di cronaca o un nostro caro svanisce dalla comunità dei vivi. Chiedendosi “Che cos'è la morte? - Perché la morte? - Perché esiste la morte? - Perché si muore? - C'è un dopo-la-morte?” e via dicendo, ci si offre l'occasione di riappropriarsi di sé; di ricordarsi che, in fondo, si è esseri mortali, finiti, limitati; di capire che l'innaturale e disumano circolo vizioso della quantità, che domina la nostra era, non è la meta ultima del mistero dell'esistenza, ma se si continua così sarà certamente il nostro ultimo capolinea. 

lunedì 8 ottobre 2012

Delirio e lucidità


- di Saso Bellantone
"La differenza tra l'essere umano e la natura è che mentre il primo, delirante, continua a distruggerla, la seconda, lucidamente, continua a ricambiare gratuitamente con la propria bellezza".

venerdì 5 ottobre 2012

Irradiarsi di sé


- di Saso Bellantone
"Non è sempre buio: o la luce dorme o sei tu stesso ad addormentare la tua".

mercoledì 3 ottobre 2012

OLTREWEB Comincia la risalita del fiume del diritto


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
è ormai cominciata la risalita alle fonti del fiume del diritto e gli “andati a logica piramidale” di destra, di centro e di sinistra tremano. Hanno paura. E fanno bene. Perché sono consapevoli che il voto 2013 non sarà un semplice giro di boa ma una carneficina. Alcuni “andati”, infatti, affonderanno una volta per tutte alle foci del torrente, portandosi dietro gli ultra-decennali piloti e ammiragli, mentre il “fenomeno five-stars” risalirà sempre più il torrente stivalico appostandosi a un passo dalla sua sorgente, con la disperata forza di giovani vogatori su canoe che imbarcano acqua. Sarà un momento epocale. L’antico potrà essere rimpiazzato dal nuovo. La storia dello Stivale potrà prendere un nuovo corso. Ma dipende da te, mio caro web.
Gli “andati” conoscono questo pericolo da mesi, ma hanno voluto prendere del tempo. Con la giustificazione dello spread e della crisi economico-finanziaria, hanno chiamato l’Uomo del Monte e il giorno dopo gli hanno affidato le sorti dello Stivale con la sua guida tecnica, allo scopo di riorganizzarsi. Ma adesso, che l’Uomo del Monte si è dichiarato disponibile ad assumersi nuove responsabilità post-elettorali, tutti gli “andati”, non soltanto alcuni, rabbrividiscono. Temono di essere reputati inutili, superflui e di essere depennati dallo Stivale per sempre.
Eppure, questo è il destino che gli “andati” stessi hanno deciso per sé con decenni e decenni di mal-andamento e di mal-business con pietroni, mastravalute, banditi e intonacati, allo scopo di riempire la propria saccoccia a scapito delle greggi. Erano sicuri che non sarebbe mai venuto il giorno in cui il loro oscuro operato sarebbe uscito alla luce del sole. Invece, sono giunti diversi di questi luminosi giorni e, ora che questi sembrano interminabili, le mandrie sono stanche di vedersi magre e di sentire lo scandaloso scampanellio del collare stretto al loro collo dagli “andati”. Se non darsi all’ingrasso, almeno vogliono la salute e respirare senza strozzature.
Per questi motivi, nel 2013 il bestiame dirà di no agli “andati a logica piramidale” e si aprirà ai “fenomeni a logica circolare” come il five-stars. Il bestiame vuole auto-condursi e chiudere i vecchi mandriani nel recinto della dimenticanza. Gli “andati” ne sono coscienti e sperano di esorcizzare tale pericolo in due modi: gettando discredito sui fenomeni a logica circolare, denominandoli appunto “chiunquismo”; rivolgendosi ancora una volta al male minore, al rappresentante degli “importanti”, l’Uomo del Monte. Non si rendono conto che in entrambe le maniere accelerano il processo del loro svanimento. Nel primo caso, offrono alle greggi l’occasione di dimostrare loro che non si tratta di “chiunquismo” bensì di quel che gli “andati” hanno scordato o fanno finta di aver dimenticato: la sovranità popolare. Nel secondo caso, regalano agli “importanti” nazionali e internazionali il momento propizio per depennarli una volta per tutte, accentrare nelle proprie mani il potere del popolo, appunto, il Nano, e smantellare quest'ultimo più facilmente per generare più rapidamente l'impero del Grande Leviatano del Nord.
In un modo o nell’altro, dunque, gli “andati” sono al capolinea. Tremano. E fanno bene. Perché, superbi, anziché lasciare la cabina di pilotaggio a quegli stessi giovani vogatori imbarcati nei “fenomeni a logica circolare”, preferiscono affondare con i propri vecchi capitani e ammiragli. E affonderanno, cedendo il passo agli “importanti” e alla fine di ogni cosa, così com'è stata finora.
La piena del fiume del diritto, mio caro web, sta arrivando e l’unico modo per frenare la fortuna degli “importanti” è abbandonare le vecchie navi degli “andati a logica piramidale” con i loro capitani, imbarcarsi sulle canoe dei “fenomeni a logica circolare” e strappare agli “importanti” la cura di quello che è stato sempre tuo: il Nano. Ma tu, mio caro web, stai preparando le canoe oppure preferisci stare ancora una volta dentro il recinto, quello però del Titanico Mostro Settentrionale, degli “importanti” internazionali e della smisurata compravendita targata (ze)Leviatan?
Medita web, medita…

sabato 29 settembre 2012

Versieri: O TERRA, ASPETTAMI di Pablo Neruda



- di Saso Bellantone

Riportami, o sole,
al mio destino agreste,
pioggia del vecchio bosco,
riportami il profumo e le spade
che cadevano dal cielo,
la solitaria pace d’erba e pietra,
l’umidità dei margini del fiume,
il profumo del larice,
il vento vivo come un cuore
che palpita tra la scontrosa massa
della grande araucaria.

Terra, rendimi i tuoi doni puri,
le torri del silenzio che salirono
dalla solennità delle radici:
voglio essere di nuovo ciò che non sono stato,
imparare a tornare così dal profondo
che fra tutte le cose naturali
io possa vivere o non vivere: non importa
essere un’altra pietra, la pietra oscura,
la pietra pura che il fiume porta via.

La città uccide. La società uccide. Il contratto sociale uccide. Nel tempo dello Spread e della crisi economico-finanziaria, si lavora giorno e notte e, tuttavia, si è esangui. Tutti i beni, i servizi o le esperienze necessari alla sopravvivenza, ma anche quelli superflui, hanno un prezzo, una tassa, un mutuo, un affitto, una rata, una bolletta, uno scontrino da pagare. Ma il corrispettivo economico che ogni volta si paga, segna in realtà il sangue versato o da versare per avere quel che occorre. Si nasce col sangue e si muore dissanguati, perché tutto costa del sangue. Crescere dei figli, vestirsi, sfamarsi, abitare una casa, curarsi o curare gli altri, connettersi, viaggiare, studiare, respirare, amare, donare, lavorare – tutto ha il suo prezzo vermiglio. Ma ormai la continua offerta di sangue allo Stato non è più sostenibile. Si muore. Si muore per dissanguamento, prima ancora del proprio tempo, prima ancora di aver vissuto. O di averci soltanto provato.
In questo tempo di inevitabile, costante e innumerabile morte prematura di popoli, ci si rende conto che non conviene più restare in città e far parte della società o di uno Stato. L'insostenibilità della vita – anzi della morte – statale, costringe ineluttabilmente a gettare uno sguardo al di là della gabbia di cemento, meccanismi e circuiti finora abitata, ed è in quel momento che si scorge la soluzione. Occorre svincolarsi radicalmente dal sistema dissanguante statale. Tornare alla vita agricola, alla terra, al sole, alla pioggia che cade dentro ai boschi e al suo profumo di terra, alla pace dell'erba e delle montagne, all'umidità dell'acqua dei fiumi, ai profumi della vegetazione, alla vitalità del vento che scuote le fronde degli alberi. Bisogna “voler essere di nuovo ciò che non si è stati”, ossia smettere di essere dei cittadini e tornare a essere ciò che sono stati soltanto i nostri antenati: dei contadini. È necessario imparare nuovamente che l'essere umano non è la creatura centrale tra tutte quelle generate dalla natura, ma ha lo stesso valore di qualunque altra, anche di una pietra, nascosta tra le profondità della terra o portata via da un fiume.
Rileggendo attualmente O terra, aspettami di Pablo Neruda, nel contesto sopra sintetizzato, si ha l'occasione: da un lato, retroattivamente, di gettare uno sguardo critico sulla società e sulla vita cittadina che si conduce; dall'altro, direttamente, di considerare il suggerimento di un ritorno alla natura e alla vita contadina. La città dissangua sì, ma il peso di tale dissanguamento consiste in una concezione della vita che considera l'essere umano il centro della natura e dell'universo. Tornando invece alla terra, l'essere umano rioccuperebbe il posto che gli spetta, in altre parole pari a quello di ogni altro essere vivente. Che cosa cambierebbe, dunque, con questo ritorno alla natura e alla terra? Che mentre in città, per un tempo indefinito, si passa una vita continuamente dissanguata, priva cioè di significato alcuno malgrado tutti i beni, i servizi e le esperienze di cui ci si attornia per mezzo del vile denaro, ritornando invece alla terra si comprenderebbe il significato dell'esistenza, pur vivendo un tempo breve, come poveri nella ricchezza della natura.

mercoledì 26 settembre 2012

Senza alternativa



- di Saso Bellantone
“È inutile che ti chiedi qual è la via giusta da percorrere. Occorre soltanto partire. D'altronde, ogni sentiero conduce a te stesso”.

lunedì 24 settembre 2012

La fretta furtiva


- di Saso Bellantone
"Decelera, non aver fretta. Non vedi che la fretta ti sta portando via il mondo? E se con il mondo portasse via anche te?".

giovedì 20 settembre 2012

domenica 16 settembre 2012

DISsud: le foto 3


- di Linda Fassari
Chiesa e convento del SS. Rosario, attualmente adibiti a sede del Municipio (San Lucido)

sabato 15 settembre 2012

Solitudine e compagnia: crocevia individuale



- di Saso Bellantone
La solitudine è vuota, fredda, triste. La compagnia è piena, calorosa, gaia. La solitudine angoscia, perché è silente, inodore, insipida, buia, surreale. La compagnia quieta perché è fragorosa, profumata, saporita, luminosa, reale. Si vive fuggendo la solitudine, cercando la compagnia. Tentando cioè di riempire quel vuoto, di riscaldare quel freddo, di ravvivare quella amarezza circostante che avvelena il tempo… il proprio. Ci si sente intossicati dal niente, come una clessidra inversa riempita da eterei granelli di sabbia, i cui vetri sono pronti a spezzarsi. I granelli pesano come incudini su di una tela di ragno priva delle sue geometrie, perché ci si sente privi di tutto: dei suoni, delle essenze, dei sapori, dei colori, delle cose, degli eventi, delle persone… di un mondo. Quando si è soli ci si sente come stranieri, quasi apolidi in un limbo cronometrante soltanto la propria dannazione.
A volte, però, le impalpabili sbarre della propria prigione svaniscono in un battito di ciglia. Si avverte uno strano senso di sazietà, di calore, quasi come una panacea svincolante da ogni forma di lancetta. Ci si sente totalmente sani, integri come una sfera di cristallo che non si è mai frantumata in terra. Come una nota che, dondolando su di un rigo assieme ad altre note, prende forma, sostanza, realtà. Ciò avviene quando nel riflesso degli occhi di chi ci sta innanzi e ci sorride, ci parla o ci tende una mano, si comincia a scorgere se stessi… e captiamo l’inizio.
È il principio di qualcosa di diverso, di nuovo. La presenza d’altri frantuma la condizione di isolamento nella quale si galleggiava, svincola dalle viscere dell’incubo imperituro nel quale si era precipitati e offre consistenza, definizione, ebbrezza. Si prova piacere del mondo e della società ai quali si accede per mezzo d’altri e, per restarvi, si fa squadra, branco, gruppo. Ci si influenza a vicenda, ci si contamina per stabilire un’intesa di tempi, di linguaggi, di mode, di gusti, di condotte, di ragionamenti e anche di emozioni. Occorre essere in sintonia su tutto, su qualsiasi fenomeno o situazione concreta o astratta. Pena: l’esclusione dal gruppo e, quindi, la cacciata dal mondo. Quando si esordisce agli altri e nel mondo, la sintonizzazione è ancora latente e lenta, perché gli altri osservano, studiano e compongono il nostro puzzle per tenerci in pugno. Poi, è necessario disciplinarsi, lasciarsi regolare e sottomettersi alla logica comune, per evitare di tornare nella vecchia cella che ci attende con la porta spalancata. In queste occasioni non è facile decidere tra la solitudine e la compagnia. Le prime volte accettiamo di indietreggiare per fuggire la prigione dell’isolamento, ma quando la compagnia comincia ad angosciare al pari della solitudine, perché è diventata vuota, fredda, triste, silente, inodore, insipida, buia, surreale; quando ci si rende conto che gli altri non hanno mai fatto un passo indietro verso di noi ma hanno sempre tentato di dominarci e, peggio ancora, di illuderci, è inevitabile… si preferisce l’emancipazione, l’isolamento, il ritorno all’onirico, all’irreale, alla sospensione di tutto… e intuiamo la fine.
È la conclusione di una interpretazione errata di sé, dell’alterità e del mondo delle relazioni, incentrata sulla totale dipendenza altrui. Si comprende che si dipende dagli altri, sì, ma non da tutti. Soltanto da coloro che, come noi, sono soli perché si sono ribellati al branco e, quindi, al mondo. Ma, in primis, si capisce che si dipende esclusivamente da sé e… dall’aria che si respira, dalla luce del sole da cui ci si lascia irradiare, dalla sicurezza della casa che ci si lascia alle spalle, dall’incertezza della strada che si percorre, dal sasso e dalla terra che ci accompagna nel nostro viaggio, dal fascino dei luoghi e dei paesaggi che si scoprono, dall’acqua che ci disseta, dalla bacca o radice che sazia la nostra fame, dagli odori che ci invasano, dai colori che ci ipnotizzano, dai suoni naturali che ci incantano, dal silenzio della notte nel quale riposiamo. Ma anche, dai libri che leggiamo, dalla musica che ascoltiamo, dalle opere d’arte che contempliamo, dai film che guardiamo, dall’uso della tecnologia che facciamo, dai fatti che accadono o nei quali ci ritroviamo, dai ricordi che riaffiorano nella nostra mente e permangono nel nostro subconscio, dagli umori che ci scuotono, dalle sensazioni che ci possiedono, dai sogni verso i quali ci orientiamo, dai bisogni che ci azzerano, dai complessi legami, meccanismi e processi che regolano il nostro corpo, dai pensieri che ci indiavolano e… soltanto dopo tutto questo, dagli incontri che facciamo.
In questo momento, si comprende che la solitudine è trasformata, alterata, è diventata altro da sé in quanto è abitata dall’infinita schiera delle entità appena elencate e ci si rende conto che non si è mai soli. Una volta compreso ciò, occorre prima trovare l’armonia con la legione di compagni che ci appressa in ogni istante, poi ci si può affacciare agli altri e al mondo delle relazioni, proponendosi come l’armonia stessa che si è. Per evitare la prigione dell’isolamento e quella del branco, occorre trovare una consonanza con la complessità che costituisce se stessi. Trovata quest’ultima, sarà possibile trovare e scegliere dei compagni corrispondenti alla consonanza che si è, in quanto consonanti ognuno con se stesso. Con tali compagni, sarà possibile risvegliare tanti altri alla consapevolezza che ogni consonanza microscopica, ogni individuo, appartiene già a una consonanza macroscopica, all’intero cosmo.

lunedì 10 settembre 2012

Sgabbiati!


- di Saso Bellantone
Chi è in gabbia, tu o la vita? E se la gabbia vi dividesse soltanto? E se fossi proprio tu la gabbia? Allora trasformati! Smetti di essere gabbia, diventa vita. In fondo, tu e la vita siete sempre stati un tutt'uno.

sabato 8 settembre 2012

La Lingua Greca di Calabria (tra passato, presente e… futuro)



- di Franco Tuscano

“I Perifània ton palèon rìzomma!” – “ L’Orgoglio delle (nostre) antiche radici!”

“Nella parte più meridionale della nostra penisola, in alcuni paesi montani che sorgono a metà strada fra Locri e Reggio, gli anziani agricoltori ed i pastori parlano ancora un arcano dialetto greco che, giunto fino a noi  attraverso una tradizione puramente orale, sembra quasi non aver mai avuto un suo passato ed una sua storia ...”.
Così si esprimeva nella sua importante opera: “La Glossa di Bova”, il compianto e mai dimenticato Prof. Giovanni  Andrea  Crupi, il quale, in un’epoca “cruciale” (anni ’70) per la sopravvivenza della  Lingua Greca di Calabria, antichissimo e nobilissimo “idioma dei Padri”, era riuscito, forse più di chiunque altro, a porre la “questione grecanica” nei termini più “incisivi” possibili. (Preciso fin da subito che, “grecanico” è un “etimo” – usato sia come aggettivo che come sostantivo – che non amo, in quanto, nel tempo, ha assunto una “connotazione” che, in parte, reputo impropria, una “deminutio”, e la maggior parte dei “grecanici” non accettano questa definizione, preferendo quella di: Grecofono, Ellenofono o Ellenofono di Calabria, Calabrogreco, Greco di Calabria per indicare il parlante greco; ed ancora: lingua greca di Calabria, Greco di Calabria, greco calabro o calabro greco per indicare il proprio “dialetto”) – Vale a dire – tornando al Crupi –: non si trattava di salvare soltanto una lingua (per altro lingua-madre…), ma tutta una cultura, “le cui origini si perdevano nella notte dei tempi”. Egli lottò strenuamente per dare voce ai “Greci di Calabria”: “Dòste mia fonì ecinò ti den tin èchu” – Date una voce a quelli che non l’hanno”(citaz. del Prof. Filippo Violi), andava ripetendo a tutti, compresi gli studenti di Liceo che, come il sottoscritto, ebbero l’onore di averlo come Docente di Storia e Filosofia. “Greki  ambrò!”, amava ribadire nei numerosi  incontri e convegni a cui partecipava. L’epigrafe in greco (in caratteri latini, com’è in uso nel Greco di Calabria), sul freddo marmo della sua lapide, racchiude, in estrema sintesi, quelli che sono stati i suoi  valori imprescindibili, ciò che ha rappresentato l’essenza della sua  purtroppo breve esistenza:

Eplàtezza ‘zze filosofia, “Ho parlato di filosofia”
Ègrazza stin glòssa tu Vua, “Ho scritto nella lingua di Bova”
Agàpia  tin anarchìa, “Ho amato l’anarchia”.

Ho voluto iniziare questo breve lavoro “dando voce”, doverosamente, ad una delle più importanti figure del “cosmo” greco-calabro, sia per la profonda stima da sempre nutrita nei suoi confronti,  sia perché, è stato proprio in quegli anni (fine anni ’60, inizio anni ’70), che – grazie anche all’opera del Crupi ed all’impegno di altri giovani valenti intellettuali della Bovesìa, alcuni dei quali trasferitisi a Reggio, e con il contributo di qualche importante studioso reggino – si è ricominciato a (ri)prendere coscienza del proprio passato e si è sentito il bisogno di “recuperare”, di riscrivere la propria storia, una storia che fin dalle sue lontanissime origini, trasuda di una grecità profonda, granitica a tal punto da averne “ossificato” l’identità…
In questo “ultimo rifugio dell’ellenismo” (leggi: Area Grecanica-Bovesìa), da ormai 30-40 anni, l’etnia greca di Calabria è al centro di un intenso fermento intellettuale, avente come obiettivo la salvaguardia, la rivalutazione e la valorizzazione del patrimonio linguistico, storico e culturale dell’area.
Siamo “in finibus Calabriae”, nell’estremità meridionale dell’Aspromonte, un territorio in cui, nel corso della sua plurimillenaria storia, si è miracolosamente conservata un’identità linguistico-culturale, rimasta per alcuni versi un “unicum” nel panorama della Calabria intera. È questa l’area in cui vivono (continuano a vivere, fin… dall’VIII sec. a.C.) i Greci di Calabria, “diventati” minoranza linguistica, ma da sempre “maggioranza culturale”, dal momento che le radici, “I Rìze”, “valori eterni”, permeano secoli e secoli di storia, facendo dell’estremo punto meridionale della Calabria, una “terra dall’anima greca”, una “terra greca nell’occidente latino”. Terra, storicamente più orientata verso la “Graecitas” che la “Romànitas”, in cui è del tutto palese, tra l’altro, una “interdipendenza culturale” con l’intera Calabria meridionale, ma, soprattutto, con la Locride, con l’Area dello Stretto, con l’Estremità Nord-Orientale della Sicilia e con la Grecìa Salentina.  
In questo lavoro, concentreremo la nostra attenzione, soprattutto, su quello che può essere considerato il segmento culturale più importante (o, quanto meno, tra i più importanti) della cultura greco-calabra, ovvero la lingua, “elemento” di vitale importanza per la sopravvivenza del tanto variegato quanto affascinante mondo dei “Grèki  tis Kalavrìa”.
Sul “greco di Calabria” o “greco-bovese” (per dirla con il Crupi e con il Rohlfs), moltissimo è stato scritto. Pertanto, questa breve nota non ha né può avere pretesa alcuna, di aggiungere nulla di particolarmente “nuovo”, semmai, vuole semplicemente essere, una pacata ma sentita “riflessione” sulla “glòssa palèa”, sulla lingua dei Padri, per secoli in “travaglio”, in affanno, addirittura in agonia, ma mai morta, nonostante innumerevoli “becchini”, nel corso della sua lunga storia, si siano accostati più volte dinanzi al quasi “feretro greco-calabro”, con lo scopo di poterlo “finalmente” seppellire…
L’origine della lingua greca di Calabria, non è stata mai definitivamente chiarita, e l’acceso dibattito che non ha lesinato “punte” di aspra polemica, tra lo schieramento “rohlfsiano”, che ritiene il “greco di Calabria” diretto discendente di quello della Magna Grecia, e quello “morosiano” (o, “parlangeliano”), che lo vuole invece erede del greco-bizantino (nato, cioè, in età bizantina), ha portato ad una gran quantità di studi, ma non ha – per alcuni – risolto del tutto, i dubbi sulla sua “nascita”. La tesi “megaloellenica” (rohlfsiana), è comunque quella nettamente dominante, e sono molti ad aver attribuito alla teoria “bizantinista” ragioni di ordine “ideologico”.
Senza immergerci nell’aspetto prettamente linguistico, solo “sfiorandolo” a mala pena, diciamo che  Gerhard Rohlfs, ha più volte ricordato che i Bizantini (in realtà: “Romèi”, ovvero, “Romani d’Oriente”, di cultura greca), non hanno lasciato traccia alcuna della loro lingua né a Bari né a Ravenna (ex Capitale dell’Esarcato) né in Dalmazia e neppure in Sardegna, regioni dove, a lungo, mantennero il loro impero.
Se da una parte i “dorismi” e gli “arcaismi”, anteriori alla “Koinè” (IV sec. a.C.), presenti  esclusivamente nel “greco di Calabria”, “tagliano la testa al toro” riguardo l’origine dell’idioma tutt’ora presente – per lo più – nella “Isola Ellenofona  dell’Area Grecanica”, d’altra parte, sono gli stessi storici ad indicare una realistica soluzione ella “vexata quaestio”. Vera Von Falkenausen, in merito, dice: “Sembra che la grecità meridionale si basi su un sostrato greco anteriore, che non si era mai completamente spento e che fu quindi “rianimato” dalla “riconquista bizantina”. L’illustre studiosa, inoltre, esclude un progetto “dall’alto”, da parte di Costantinopoli, che avrebbe comportato una migrazione “pilotata” di popolazioni in grado di “colonizzare”, in senso “greco”, la Calabria. Trasferimenti di gruppi etnicamente omogenei, erano normali in un impero plurietnico come quello bizantino, per esigenze militari e commerciali; ma ciò, “non può essere considerato come uno spostamento di popolazioni numericamente rilevante”; (…)” possiamo calcolare che una flotta di 100 navi, avrebbe potuto trasferire al massimo 15.000 orientali in Italia, se tutte le navi avessero raggiunto la destinazione senza danno”.
Inoltre, i bizantini non hanno mai imposto la propria lingua ai propri sudditi, e, per di più, alla metà dell'VIII sec., la Calabria era già di lingua e liturgia bizantina, tanto è vero che il decreto di Leone III L’Isàurico(732-733), non incontrò nessuna opposizione “in loco” (cosa che invece non si verificherà quando i Normanni cominceranno a “latinizzare” la Calabria, imponendo  la lingua latina e la liturgia di Roma).
Un ulteriore, significativo contributo alla tesi “magnogreca” ci viene fornito, di recente, da una  pregevolissima ed importantissima edizione di 62 epigrafi greche del Museo di Reggio Calabria, pubblicata dalla epigrafista Lucia D’Amore nel 2007. Attraverso la loro attenta lettura, qualsiasi linguista che non abbia posizioni precostituite, può agevolmente rendersi conto, infatti, che la tesi di Rohlfs sulla presenza nella Calabria meridionale, di ellenofoni, fin dai tempi antichi, è qui confermata “scientificamente”, in quanto, le epigrafi  “occupano”  un arco di tempo che va dal secolo VI a.C. al 1.000 d.C., cioè, fino all’arrivo dei Normanni(!)… I testi di queste  importantissime  epigrafi, composti in esametri e pentametri in lingua greca, costituiscono, secondo  l’illustre studioso reggino, Prof. Franco Mosino, “una straordinaria testimonianza per la storia linguistica e culturale di Reggio e della sua “Chòra”; inoltre, egli fa notare che da queste “attestazioni”, emerge altresì, che a  Rhègion,  “si parlava greco e latino secondo la metrica greca”.
Dopo il  piccolo contributo, di cui sopra,  alla tesi “rohlfsiana”, ci piace ricordare che, da vivo, il grande glottologo e filologo tedesco, ricevette onori e riconoscimenti nella Calabria tutta: la cittadinanza onoraria di Bova, la laurea “honoris causa” dell’Università  di Cosenza; molti Comuni, dopo la morte, gli intitolarono vie e piazze, come di recente il paese di Badolato (CZ).
Tornando alla parte più propriamente “storica”, possiamo affermare, quindi, l’ininterrotta presenza della lingua greca durante l’intero periodo “romano” e la nettamente sua maggior diffusione, specie nella parte meridionale della Calabria, dopo la caduta dell’Impero, anzi, essa rappresentò anche la “varietà alta” fino all’XI sec., ovvero, fino all’avvento dei Normanni, i quali diedero avvio – con l’appoggio della Chiesa di Roma – ad una irreversibile inversione di tendenza: linguistica, culturale e religiosa. Gli “uomini del Nord”, infatti, quantunque “nati” predoni e mercenari, si dimostrarono, strada facendo, conquistatori attenti e dotati di uno spiccato senso dell’opportunità politica, e, pur  apparendo tolleranti nei confronti della chiesa greca, iniziarono contemporaneamente quell’inarrestabile processo di “latinizzazione” della Calabria meridionale, che avrebbe condotto, più tardi, alla fine del rito greco e, quindi, anche del prestigio della lingua greca. L’anno 1059 (caduta di Reggio) e l’anno 1081 (caduta di Bari), ad opera dei Normanni, rappresentano due date storiche molto negative, anzi, “cruciali” per il “destino” della grecità in terra meridionale. Le “buie notti” angioine, aragonesi e spagnole, più tardi, sono una perentoria conferma della quasi totale “occidentalizzazione” di usi, costumi, cultura, lingua e religione. Anche nella Bovesìa, ultimo baluardo greco, dal punto di vista  linguistico, culturale e cultuale, la situazione, già compromessa, sarebbe precipitata dopo la fine (leggi pure: soppressione) del rito greco-bizantino, nel 1572/73, ad opera del vescovo armeno-cipriota  Giulio Stauriano. Sull’onda della Controriforma tridentina, al vescovo di Reggio, Annibale D’Afflitto, basteranno pochi decenni (1593-1638), per sradicare completamente il rito greco dalle sue ultime ed ormai umilissime “dimore” intorno a Bova e nelle “Cinque Terre” (diocesi “greca” di Reggio), per trapiantarvi quello latino.
Da questa epoca in avanti, nella “Bovesìa e dintorni”, da lingua di culto e di prestigio, il greco passa  a lingua della “misera plebs”. Nel 1806, dopo una fase piuttosto oscura (anche se la lingua greca trova “ospitalità” – ma in “caratteri” latini –  nelle opere del De Marco, del Mesiani, del Rodotà), l’interesse per il greco di Calabria si riaccese dopo che J.C. Eustace visitò la zona sud-aspromontana e segnalò “popolazioni di lingua greca” e, più  ancora, dopo la pubblicazione sul “Philologus”, di alcuni canti “bovesi” di Karl Witte (1821), commentati qualche decennio più tardi dal Pott (1856). Fu dalla seconda metà dell’800 che cominciò ad aprirsi una profonda discussione sulla origine e la natura di questo “greco-linguaggio”. In particolare (come accennato in precedenza), Giuseppe Morosi (1870-1878), sosteneva l’origine bizantina dell’idioma greco parlato in questi territori e fu una teoria che fino al 1924 imperò incontrastata fino a quando, il più grande filologo, glottologo e dialettologo della storia, l’illustrissimo Prof. G. Rohlfs, non la “demolì”, in modo scientifico. L’illustrissimo studioso tedesco, a cui la Calabria (e non solo) deve moltissimo, produsse un  fondamentale  “corpus  probatorio”, di ordine lessicale, morfosintattico, onomastico, toponomastico, fitonomastico, agionomastico, ecc., raccolto dal 1921 al 1980 circa, anche attraverso visite “porta a porta”, di 350 località in Calabria, spesso  a “dorso di mulo”, con il quale fu in grado di fornire, inequivocabilmente, la prova della ininterrotta presenza del greco “ex temporibus antiquis”.
Ma, parallelamente al crescente interesse degli studiosi per la lingua greco-calabra, si imponeva, specie dalla fase immediatamente successiva all'Unità d’Italia, la necessità di imparare la lingua italiana e di adoperarla non più soltanto per iscritto; presso le classi colte e quelle borghesi, l’esclusione  dagli usi familiari delle varietà dialettali veniva concepito come un passo necessario per il buon apprendimento della “lingua della Nazione”. Lo stesso dovette avvenire nella attuale “Isola Ellenòfona”, rispetto non tanto al dialetto romanzo ma al greco, la varietà più stigmatizzata e percepita lontana dall’ italiano, il cui utilizzo – anche in famiglia – avrebbe solo avuto l’effetto di “inficiare” una adeguata competenza della lingua nazionale. La scolarizzazione obbligatoria, faceva subire alle masse contadine monolingui (parlanti il greco) dell’area, quotidiane umiliazioni e severe punizioni derivanti soprattutto dall’alloglossia più che dall’analfabetismo. Per cui, ben presto, la “dicotomia”: proletariato grecofono analfabeta/borghesia italofona alfabetizzata, scatena il “meccanismo” della discriminazione e della “tabuizzazione” del greco… All’opera di “demolizione” della lingua greca, pertanto, non sono estranee cause di natura psicologica, in quanto, viene  “pilotato” dall’alto il concetto che tutto ciò che non è cultura nazionale in lingua, è sottocultura, “avanzo ancestrale”… concetto,  che viene interiorizzato  dai “grecofoni” che ormai “percepiscono” il loro idioma e la loro (quantunque, plurimillenaria) cultura, come espressioni di inferiorità di razza e di civiltà (!)… di cui bisogna “liberarsi” cercando altre identità… (“Sic transit gloria mundi”, mi verrebbe da dire…).
Inoltre, le comunità dell’Area Grecanica (e non solo), vengono “investite” da un saldo migratorio rilevante, che diventa critico, a ridosso degli anni ’50, ’60 e ’70, derivante, soprattutto, dallo svuotamento delle aree collinari e montane, in cui, tradizionalmente, erano insediate le popolazioni ellenofone. Come se, in un certo senso, la scoperta di un mondo “nuovo” (Italia, Europa, Americhe, ecc.), diventa, contemporaneamente, la quasi fine di questo “vecchio” mondo, quello dei Greci di Calabria.
A ciò, si aggiungono le alluvioni che si succedono negli anni ’50 e ’70 nell’enclave greca e che compromettono la sopravvivenza “materiale” delle comunità nell’entroterra pre-aspromontano, con “l’ineludibile effetto” di giungere all’impoverimento, alla “deplezione” della memoria, il cui “trend negativo”, rischia di cancellare completamente tradizioni e lingua… A tal proposito, il linguista olandese Dimmendaal, sottolinea quanto sia di vitale importanza per la lingua, rimanere “in situ”, sostenendo che, “i cambiamenti nell’assetto economico e sociale delle comunità alloglotte, possono non essere decisivi nella “sostituzione linguistica”, se la popolazione o una parte di essa rimane “in situ” (l’esempio di Bova-Chòra, nello specifico, è assolutamente “probatorio”).
Secondo un’indagine effettuata sul campo, alla fine degli anni ’90, in seno alla quale vennero interessati circa 300 studenti delle scuole medie ed elementari della Bovesìa, è emerso che il “greco di Calabria”, viene considerato “lingua dei vecchi” e non “intriga” le giovani generazioni che, in generale,  non lo parlano pur comprendendolo passivamente per un 15% circa. La risposta, però, quasi plebiscitaria dei ragazzi all’item: “ti dispiace che il greco di Calabria stia scomparendo?” (con…  l’88% di risposte affermative), deve essere “tesaurizzata” da chi ha a cuore le sorti di un patrimonio così importante da rappresentare un bene immateriale unico…               
Oggi, con un ritardo di oltre 50 anni dall’entrata in vigore della Costituzione Italiana – il cui Art.6 “tutela, con apposite norme le Minoranze Linguistiche” – abbiamo finalmente una Legge Nazionale, la n. 482 del 15 Dicembre 1999, nonché, la Legge Regionale 15/03 (con le sue “appendici”), ed il D.P.R. 345/01. Ma, qual è lo stato attuale della lingua greco-calabra nell’Area Grecanica? Quali sono i “limiti” ed i territori ammessi a tutela? E quali veramente ellenofoni? Amministrativamente, l’Area Grecanica comprende 16 Comuni che da Reggio e Cardeto si “spalmano”, da occidente ad oriente, nella fascia pre-aspromontana e nella costa ionica fino al Comune di  Samo. Questa organizzazione politico-amministrativa non rispecchia, comunque, quelli che sono gli effettivi “confini linguistici”, per cui bisogna distinguere i territori dove ancora persiste l’antico idioma, da quelli in cui l’ellenofonia è pressoché estinta, “specificando” che esiste una “Area Culturale Grecanica”, che ha nel suo “cuore”, quel “diamante incastonato” che è l’Isola Ellenofona  o Grecofona, testimonianza vivente di un mondo linguistico che è stato per secoli e secoli, “denominatore comune” non solo dell’attuale Area Grecanica ma di gran parte dell’intera  Calabria. Questi Comuni “ellenofoni” sono: Bova, Bova Marina, Condofuri (con Gallicianò), Roghudi e Roccaforte del Greco: piccoli paesi in cui oggi, più che mai, è importante riscoprirne le “radici” che svelano, anche ad un visitatore un po’ distratto, il carattere che rende unica questa terra: la “grecità”! “Rize”, spesso trascurate dalle poche “memorie di carta” di questa terra, ma che è necessario salvaguardare affinché si ponga un argine e si arresti la “diaspora”, la “emorragia”, l’abbandono dell’entroterra, con il favorire la permanenza, in questi siti, dei “parlanti”, delle loro famiglie e dei loro concittadini. Si può dire che Bova, e – con encomiabile sforzo – anche Gallicianò, siano stati in tal senso, antesignani, in quanto hanno scommesso sulla antica lingua e cultura dei Padri (“in loco”), riuscendo, così facendo, anche a valorizzare in maniera esemplare, emblematica, quelli che sono considerati, a ragione, due fra i “Borghi più belli d’Italia”.
Ed andiamo ad affrontare, ora, il “nocciolo del problema, ovvero, la “obbligatorietà dell’insegnamento” nelle scuole dell’obbligo. L’auspicio è che il Legislatore Regionale possa modificare il dettato legislativo, trasformando l‘insegnamento della “lingua di minoranza”, da “servizio a richiesta”, in obbligo scolastico, in modo che concorra, a pieno titolo, alla “formazione” dei ragazzi. L’Area Grecanica, quantunque, in un tempo passato (ma non trapassato), territorio “monolingue” (greco), non è allo stato attuale – realisticamente – un territorio bilingue, come quello altoatesino, valdostano o friulano (le cosiddette “minoranze frontaliere”), in quanto, se si fa eccezione per una ridotta minoranza di “locutori” (per fortuna, in evidente “crescita” – quantunque “scolastica” – in alcuni  paesi), appare lapalissiano, che la speranza della sopravvivenza della lingua greca di Calabria sia riposta soprattutto nella scuola. È auspicabile che le istituzioni scolastiche della Provincia, ricadenti nell’Area Grecanica, facciano però il loro dovere e consentano  l’applicazione – attraverso i Progetti – delle norme di legge (finora sostanzialmente disattese), ed attivino – in attesa dell’auspicata obbligatorietà – corsi di insegnamento, anche extra-curriculari, che, a partire dalle scuole materne accompagnino i ragazzi fino ad almeno le scuole medie. Se applicate, le leggi 482/99 e 15/03 (oltre al D.P.R. 345/01), contengono già norme specifiche per l’insegnamento delle lingue minoritarie nelle scuole delle comunità linguistiche “riconosciute”. Si tratterebbe, in definitiva, di riconoscere il diritto degli appartenenti a tali minoranze ad “apprendere’’ la propria lingua-madre (o, forse, di… “riappropriarsi” di essa). Bisogna confidare,  altresì, in una maggiore sensibilità e senso di appartenenza anche da parte degli stessi dirigenti scolastici. E che le stesse Università facciano la loro parte attivando – “ope legis” – corsi di lingua in via sperimentale.
In conclusione, non si può non rimanere in attesa di una effettiva applicazione delle leggi di tutela  già esistenti, e, ancor meglio, del più che auspicabile insegnamento nelle scuole primarie e secondarie di 1° grado, altrimenti – nonostante gli sforzi compiuti in questi ultimi anni, dalla Provincia di Reggio Calabria e dalle numerose Associazioni Culturali Ellenofone presenti nel territorio – le lingue minoritarie, non “frontaliere”, sebbene, fondamentali segmenti di antichissime  culture, corrono concretamente il malaugurato rischio di scomparire completamente nel giro di qualche decennio…
In definitiva, però, il “patrimonio genetico” di una cultura plurimillenaria, che conserva tratti di preziosa rarità, e, addirittura, di assoluta unicità, non si può pensare di riuscire a salvaguardarlo ed a rivalutarlo solo con l’applicazione di leggi di tutela, ma, deve essere “in primis”, un vivo interesse del cuore, una appartenenza consapevolmente vissuta… La tutela della memoria storica, per quanto poco “cartacea”, può giocare un ruolo primario, se vissuta, non in termini “nostalgici” (“Io dico memoria, passato, nel senso di riappropriazione e non di pura nostalgia…”).
Anche per questo, e per amor del vero, va riscritta la storia dei Greci di Calabria, in quanto quella (poca) già scritta, si presenta come una “storia negata”… Sarebbe necessario promuovere una “nuova stagione” di contributi storiografici, condotti deontologicamente e nella direzione della formazione di una corretta coscienza storica.
La lacunosa conoscenza del proprio percorso storico da parte dei “Grèki tis Kalavrìa”, unita alla sensibilità ancora scarsa da parte di Enti ed Istituzioni (come già accennato), costituiscono tutt’ora ulteriori ostacoli per la valorizzazione dell’importante patrimonio storico-linguistico-culturale-religioso del territorio greco-calabro. Per fortuna, le Associazioni Ellenofone – ribadiamo – hanno avuto un ruolo fondamentale, quasi da “supplenza istituzionale” nell’ambito, soprattutto, della difesa del patrimonio immateriale, caratterizzato da una tale peculiarità, da indurre la Regione Calabria (con il sostegno delle Provincia di Reggio Calabria e delle altre Province calabresi) a far approntare un dossier per una ambiziosa candidatura Unesco – delle Minoranze Linguistiche Calabresi – come Patrimonio dell’Umanità.
Mi sia consentito, infine, di stigmatizzare quegli “sporadici rigurgiti di campanile”, di qualche singolo “ellenofono” (o, pseudo-tale), che non giovano – in quanto tese più a dividere che ad unire – alle comunità “greche di Calabria”, che invece hanno bisogno di coesione per alimentare assieme e cementare il comune, granitico “spirito greco”, vivendo fino in fondo l’emozionante privilegio di essere (senza, per questo, voler stabilire “gerarchie culturali” che non esistono...), i legittimi eredi  di quella cultura che è stata l’elemento fondante della civiltà occidentale e di quella antichissima “glossa”, per secoli, “lingua del cuore” di gran parte delle popolazioni del Meridione, e che le inossidabili comunità grecofone della Bovesìa hanno ancora l’onore di condividere e di esserne  suoi orgogliosi e gelosi custodi…