- di Saso Bellantone
Al centro, una figura senza testa che suona il violino. È seduta su una pietra tombale, all’interno di un cimitero. Da un lato, un sentiero che conduce a un castello in lontananza. Dall’altro lato, un candelabro accesso e una croce. Gli alberi sono morti. Il cielo è nuvoloso. Strisce di nebbia fluttuano con fare spettrale.
Al centro, una figura senza testa che suona il violino. È seduta su una pietra tombale, all’interno di un cimitero. Da un lato, un sentiero che conduce a un castello in lontananza. Dall’altro lato, un candelabro accesso e una croce. Gli alberi sono morti. Il cielo è nuvoloso. Strisce di nebbia fluttuano con fare spettrale.
Per incontrare i segreti di Inno alla musica quest’opera, occorre, per impiegare una metafora musicale, guardare alle note sul pentagramma ricordandosi della chiave di violino. Il violino, suonato dalla figura senza testa, è la chiave dell’opera. Ma una chiave di violino, si sa, è insensata senza pentagramma e note, così come le note senza pentagramma e chiave significhino soltanto se stesse, e nient’altro. A primo impatto, la figura senza testa che suona il violino rapisce l’osservatore, lo incanta, estraniandolo da tutto il resto. Si comporta quasi come la chiave di violino sullo spartito: domina. Ma uno spartito non finisce nella sua chiave: prosegue, invece, tra una nota e l’altra fino al bianco vuoto. Mediante il musicista, il cantore, l’orchestra, la partitura giunge all’ascoltatore e alla natura, trasformandosi in altro e compiendosi, divenendo musica: vive. E quando finisce la sua trasfigurazione, riecheggia ancora, perché vuole ritrovarsi, vuole ricominciare, vuole tornare di nuovo se stessa, di nuovo musica: vuole vivere un’altra volta. Uno spartito è tutto questo ma anche Inno alla Musica. Per questo motivo, l’osservatore deve trovare la forza di rompere il sortilegio della figura senza testa e, ricordandola, deve volgere lo sguardo altrove, verso lo sfondo, il contesto e la superficie dell’opera. In questo modo, la sua osservazione si tramuta in un viaggio: dall’opera all’etere e da quest’ultimo di nuovo all’opera, e così via all’infinito. In questo movimento, la figura senza testa inizia a incarnare tutto il resto, tutti gli altri elementi e ad eseguire la propria ode, trasformando l’osservatore in colui che ascolta l’Inno alla Musica e in un danzatore vivo.
L’opera ricapitola il mistero della vita e s’inaugura evidenziando quel tratto tipico che fa sì che la vita sia vita: la morte. È un panorama terribile, spettrale, sepolcrale l’esistenza: un immenso cimitero dove c’è posto per il Tutto, tranne qualcosa: la musica. Quest’errabonda senza dimora né volto, non trova mai pace. L’immaterialità, invisibilità, vaporosità, intangibilità, fugacità, occultabilità, sono le maglie della sua fatalità: un’eterna erranza e debolezza che, nel contempo, consacra la sua potenza senza eguali. La musica infatti non conosce prigioni né limiti, neppure l’ultimo dei confini: la morte. Quando Tutto è finito, quando l’esistenza tutta riposa nella grande catacomba di se stessa, la musica sopravvive e continua a vagare, senza corpo, immateriale, leggera, inviolabile, fugace, celata. Questo suo girovagare nella morte del Tutto, non è la fine: la musica continua a essere musica e, vagabondando nel niente, non fa altro che sostare là dove c’era l’esistenza e adesso c’è soltanto un cimitero. In questo non-luogo, la musica non è silenziosa, altrimenti non sarebbe se stessa. La musica è musica: è un inno che senza tempo esegue, perfino quando Tutto è morto, perché in questo modo è se stessa. E se nella morte c’è la musica, allora non c’è la morte bensì la rinascita.
La musica è l’Ultima Vivente, l’ultima speranza, l’ultima salvezza del Tutto appena morto. Il violino in primo piano forma assieme all’archetto una croce e questa ha la stessa inclinazione della croce dorata posta di lato. La musica è una speranza più forte di quelle delle religioni, una salvezza più umana, rappresentata dalla sua capacità di riverberare, invisibile e percepibile. Il riverberarsi della musica, anche dopo la morte, è la possibilità del rinascere della vita (il candelabro), persino dalla morte, dal niente. La morte si assottiglia innanzi alla musica così come la nebbia che inizia danzare nella musica; così come le nuvole che iniziano a diradarsi per far posto alla chiarezza del cielo e alla luce del Sole, simboli della tenacia e della gaiezza della vita. In questa prospettiva, la musica è l’ultima fortezza dell’esistenza (il castello), anche nel dopo la morte, l’ultima sicurezza, l’ultimo “sentiero” che conduce la vita, malgrado sé, alla rinascita. Un albero spoglio, morto si avvicina alla musica come magnetizzato da essa, controvento, mentre l’erba del prato sepolcrale è spinta dal vento nella direzione opposta. La musica è una Musa senza testa perché (per via della sua immaterialità, invisibilità, vaporosità, intangibilità, fugacità, occultabilità) non può essere “afferrata”, non può essere compresa razionalmente. È il linguaggio originario e universale della vita, su cui si fonda la possibilità di un’eterna salvezza della vita stessa, anche nel suo ciclico morire. Una parola fatta di quel che riempie di significato la stessa esistenza: le emozioni.
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