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sabato 20 aprile 2024

LA SERA DEI MIRACOLI O DELL'AMORE

 

- di Saso Bellantone

Quando si pensa all'amore, si riesce sempre a perdersi in un labirinto, in un vicolo cieco o in un sentiero interrotto. Ci si rifà ad antichi miti, a storie e leggende d'altri tempi o a semplici racconti di passate generazioni, di amici e conoscenti oppure sperimentati per mezzo della letteratura, del cinema o di qualunque altra dimensione artistica umana. Storia personale, cultura di riferimento, salute, esperienze e qualunque altro fenomeno appartenente al contingente viva il singolo individuo, si combinano a quelle narrazioni, generando così, per ognuno, precisi ideali, immagini archetipiche e folli fantasticherie concernenti l'amore, al di là delle quali, poi, non si riesce più ad andare. Condizionano a tal punto il proprio modo di pensare, sentire e fare, in una parola la vita, che rendono automatici, inerti, prevedibili come burattini e robot.
Si vive nella convinzione di conoscere esattamente, qui ed ora, la propria identità e quella altrui, nella certezza che tutto sia già scritto, inamovibile, marmoreo; nella sicurezza vittimistica che qualunque cosa sia precisamente così come la si percepisce e la si interpreta; che ciascuno abbia il proprio fato al quale, proprio come gli antichi uomini e dèi, è impossibile sfuggire, specialmente quando si chiamano in causa gli acciacchi del tempo, che si radicano nel proprio corpo come parassiti. Ci si addentra, così, in un quotidiano moto rettilineo e uniforme che, visto nella immutabile ripetizione di settimane, mesi, anni, diventa un eterno ritorno dell'uguale, dal quale è impossibile svincolarsi.
Tutto è uguale, tutto si ripete, ancora e ancora e ancora, e la stessa consapevolezza finisce col trasformarsi nelle ferree sbarre della volontà, utile ormai soltanto ad auto-rinchiudersi nella propria intangibile prigione. A volte se n'è consapevoli, altre volte no. Eppure, è innanzi a questo bivio che, spesso, si snoda il destino proprio e quello altrui. È il crocevia della scelta: o si decide di frantumare quelle sbarre o di restare confinati incessantemente dietro di esse.
Non è sempre facile, tuttavia, prendere una decisione, quando la propria consapevolezza coincide esattamente con la gabbia nella quale si è rinchiusi, con il grigio software che si ripete ogni giorno o con il buio impersonale che annienta costantemente ogni punto di riferimento. Perciò si rimanda, si rinvia, si posticipa all'attimo dopo e poi ancora a quello successivo e così via per tutti quelli seguenti, permanendo in tal modo in una fissità, una stasi, uno stallo paragonabile al puro niente, al non esserci, al non essere mai stati, al non essere qui ed ora, al non essere neanche in futuro.
Inutili diventano i segni e i segnali provenienti dall'esterno e dagli altri. Si è talmente insensibili e intorpiditi che qualunque cosa, avvenimento o gesto è privo di significato. Conta solo la cella, la certezza di stare dentro di essa. Tutto il resto, tutto ciò che è al di fuori di essa, non esiste, è finzione o immaginazione.
Così, emerge la stanchezza. Non la propria ma quella degli altri e in particolar modo di chi ci ama. Se prima tendeva una mano, regalava un sorriso, uno sguardo, diceva delle parole o compiva dei gesti, adesso non lo fa più. Perde il desiderio di andare a trovare chi preferisce la gattabuia alla vita e si proietta altrove, guarda da un'altra parte, rivolge i propri passi verso nuovi sentieri. Non, però, in balia della dimenticanza. Alla ricerca, piuttosto, del motivo, della ragione, dell'origine dell'annichilimento della persona amata e del segreto, in definitiva, dell'amore, di quel daimon che ancora lo possiede, che ancora orienta un'intera vita e che ancora chiede all'amata.
Si cerca ovunque, nelle strade del visibile e dell'invisibile, come cieco in un mondo privo di suoni, profumi, sapori e dimensioni. Non si trova mai risposta alcuna e si perde la speranza di poterla cogliere. Fino al momento in cui – quando ormai si è convinti che in un mondo silente, inodore, insapore e indefinito, la propria cecità è inutile – arriva la sera dei miracoli.

Un pub, un tavolo per due, due disabili l'uno di fronte all'altra: lei ha una disabilità fisica, lui psichica. C'è la musica: lui le canta una canzone, la guarda negli occhi, le tende una mano; lei lo ascolta, incontra i suoi occhi, prende la sua mano, la ruota di 180° e gli bacia il palmo.
Un poeta scrive versi su un effimero foglio. Li dona alla coppia, li ringrazia e, dopo aver lodato la loro bellezza, va via.
Lui esce fuori per cercarlo. Lo trova, lo ringrazia per i versi e chiarisce che la musica, la canzone, è ciò che li completa.
Il poeta torna dentro e si avvicina a lei.
Lei racconta di aver già infilato nella borsa i suoi versi e che, una volta rientrata a casa, li metterà nel diario segreto delle cose più belle.
Lui raggiunge lei e il poeta al tavolo. I due si guardano e lei dice: “C'è solo tanto amore. Siamo felici così. Ci piace dedicarci l'un l'altra le canzoni. Non vogliamo altro”.

Ecco che tutto è chiaro, indubbio, evidente. L'origine dell'annientamento della persona amata e il segreto dell'amore hanno la medesima risposta. Non si può solo dare, non si può solo ricevere. Occorre dare e ricevere l'un l'altra. Magari non sempre, non tutti i giorni, non tutte le ore e i minuti, ma ricordarsi, per esempio, una volta tanto, di andare in un pub, prendere un tavolo per due, dedicarsi l'un l'altra una canzone, prendersi la mano, guardarsi negli occhi, sorridersi e non volere nient'altro. Bisogna reciprocamente dare importanza alle piccole cose, ai dettagli, ai particolari.
Senza questa rimembranza, si finisce entrambi per rinchiudersi in celle d'isolamento separate, poi queste diventano monadi e infine si trasformano in universi, i quali, si sa, devono stare da soli e non possono conoscerne altri.