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sabato 28 settembre 2013

A spesa di idee


- di Saso Bellantone
"Entra nel tuo pensiero e fa la spesa di idee; quando il sistema sarà fallito definitivamente, saprai da dove cominciare da capo il tuo destino".

lunedì 23 settembre 2013

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Luca Andrieri


- di Saso Bellantone
Luca Andrieri nasce nel 1975 a Castrovillari (CS) e a pochi mesi dalla nascita si trasferisce a Bagnara Calabra a causa dell'improvvisa perdita degli affetti familiari. Nella sua crescita ha sempre cercato delle risposte a quelle domande che la vita gli ha portato inevitabilmente innanzi. Così, evitando di chiudersi a riccio nel suo mondo, cerca queste risposte nella musica che, più di ogni altra forma artistica, lo ha invogliato, stupito, affascinato. Il primo regalo avuto, non a caso, è stata proprio una chitarra, la quale è diventata per Luca uno strumento di vita. Non avendo altre attività, sport o passioni come i suoi coetanei, dopo i libri di scuola Luca passa il tempo, per dare sfogo alle sue sensazioni. Cominciando dunque per gioco questo suo rapporto con la musica, nel tempo Luca scrive delle canzoni, dei testi, lasciati sempre nel cassetto e senza avere una loro fuga nel mondo esterno. Finché, crescendo sempre più voglia di comunicare agli altri i suoi sentimenti e le sue paure, decide di iniziare a comunicare agli altri quello ha dentro, prima facendo piano bar e poi raccogliendo questi suoi pensieri e sensazioni in un cd, “Io e Luca”. Sposato, attualmente vive a Roma.

Come ti sei avvicinato alla musica?
Ascolto musica da sempre. Chi non lo fa. Ascoltavo sempre i cantautori italiani, perché raccontavano pezzi di storia, di vita, con parole semplici, incastonandole bene nella musica per poi cantarle e trasmetterle agli altri. Ed io traevo delle belle sensazioni. C'erano delle frasi, dei versi che ti toccavano perché rispecchiavano qualche aspetto della tua vita, raccontavano qualcosa che magari avevi vissuto. Da lì ho preso spunto, pensando che così come facevano loro potevo provare a fare lo stesso anch'io. Così, ho cercato di raccontare qualche episodio che ho vissuto, i miei primi amori oppure anche il fatto di andare a giocare, di farsi una partita al pallone, raccontandoli sotto forma di poesia e di canzoni. A un mio compleanno, quando mia sorella mi chiese quale regalo desideravo, risposi “Una chitarra”, proprio perché mi affascinava lo strumento. Avrei preferito un pianoforte, ma viste le dimensioni scelsi una chitarra. Non me ne sono pentito, perché ad oggi è lo strumento con cui compongo e che sta sempre assieme a me. Anche durante le gite scolastiche, al posto dei trolley, io avevo sempre questa chitarra, la cui funzione era quella di catturare alcuni momenti della mia vita per poi scriverli, suonarli, raccontarli. È stata, ed è, una bella compagna di viaggio.
Oggi mi trovo a Roma non in maniera casuale. L'ho scelta perché durante la vita ho scritto delle cose più o meno belle. A qualcuno, qualcosa che ho scritto è piaciuta, l'ha fatta sua e ne ha fatto una canzone che secondo me è tra le più belle della musica italiana. Per ovvi motivi non posso dire qual è la canzone né qual è l'artista, però sia l'una sia l’altro, che è romano, sono diventati famosi. Per questo motivo, ho voluto trasferirmi a Roma per trovare una collaborazione con questo artista, che c’è stata ma soltanto nella forma dello studio ed io non venivo mai fuori; cosa che io volevo, non per visibilità e immagine, ma per trasmettere personalmente quello che avevo dentro, piuttosto che scriverlo su di un foglio di carta e farlo esprimere da altri. L’una e l’altra cosa sono diverse. Avendo un vissuto, una storia, avendo tanto da dire, vorrei farlo io, ma questo spazio non mi è stato mai dato. Però sono rimasto a Roma lo stesso, anche perché è una città bellissima ed è un'ottima ispiratrice di canzoni, di musica, di parole.

Che cos'è la musica?
La musica è la più bella e massima espressione che una persona ha dentro di sé, perché gli consente di trasmettere agli altri le sensazioni che ha dentro. È come fa un pittore con un quadro: quando ha una sensazione, un'emozione dentro, la esprime su una tela con un dipinto. Ognuno di noi trova la sua dimensione in qualcosa e per me la musica è tutto, perché la faccio, la vivo, la considero la massima espressione del propri sentimenti. Con la musica, con la melodia riesci a trasmettere il dolore, la tranquillità, la rabbia, qualsiasi emozione ti capiti. Sono stato attratto fin da piccolo dalla musica e la mia vita è stata circondata da lei. Ho sempre ascoltato musica. Ricordo perfino i Bee Hive con Licia. C'è stato un momento in cui dovevo fare il telefilm con Cristina D'avena, per la Fininvest, e dovevo salire a Milano per cantare delle cose. Avevo superato le selezioni e poi non ci sono andato per la costrizione dei familiari, per la scuola, e ho dovuto rifiutare per forza. Anche se non dovessi diventare famoso, per me va già bene così, perché sono riuscito a mettere su un disco, con sette tracce che non sono fini a se stesse ma sono sempre storie diverse, che raccontano degli scorci di vita vissuti.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della musica, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Proprio perché è bella, perché è un mezzo di comunicazione molto importante per chi la fa, chi la canta, chi la esegue, chi la ascolta, la musica può fare molto e dare molto per il sociale. Con la musica puoi raccontare qualsiasi cosa e le emozioni che puoi suscitare con essa possono anche fare una rivoluzione. Puoi sedare gli animi più accessi e, viceversa, svegliare quelli più spenti. La musica può cambiare diverse scene e visuali, a seconda delle angolazioni con cui racconta un fatto o un’emozione. Con la musica puoi dire e fare tutto, dalle grandi rivoluzioni al parlare di sentimenti più concreti, come l'amore.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola si è trasformata nel tempo, di linguaggio in linguaggio, diventando per esempio in italiano “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire la tua musica “poesia”, opera d'arte, creazione nel senso pieno del termine?
Sì. Le tracce contenute nell'album “Io e Luca”, come ho sempre fatto anche con tutte le canzoni che sono ancora rimaste chiuse nel cassetto, sono uscite fuori non per il piacere della scrittura e della composizione, ma perché è un'esigenza che nasce da dentro. Molte volte mi ritrovo a guardare un bel film, un tramonto, un quadro e provo delle emozioni che mi spingono a scrivere. Ho provato a rifiutarmi, ma inevitabilmente c'è una tempesta dentro di me che mi costringe anche alle tre o alle quattro di notte a svegliarmi e a mettermi a scrivere, perché quelle cose che mi hanno ispirato mi erano entrate dentro e in qualche modo le volevo dire a qualcuno. Il miglior modo per farlo, è metterle in musica. Quindi, sono sempre delle sensazioni nuove, che scrivo non tanto per il piacere di fare qualcosa, ma perché è una necessità. All'inizio avevo paura e anche adesso che è nato questo disco ho sempre paura di sbagliare, di lanciare un messaggio sbagliato oppure che non si capisca quello che scrivo. C'è sempre quest'ansia, questa mia paura che non si recepisca con lo stesso sentimento, con la stessa passione quello che ho voluto dire. Spero di dare a chi ascolta la stesse emozioni che ho provato per scrivere parole e musica. È bello scrivere un testo, metterlo in rima, usare la metrica giusta però poi associarci della musica, rendere la parola una melodia non è semplice. Ma a me viene riesce naturale. Non devo forzare le cose. Non cerco la giusta rima, scrivo di getto con la chitarra sia parole sia musica.

Perché canti? Perché senti l'esigenza di comunicare con la tua musica e le tue canzoni?
Parlo sempre con tante persone. Ho conosciuto la persona che soffre, quella che vive nel lusso, ho conosciuto diversi aspetti di vita e ho visto che c'è gente che ha bisogno di esprimere qualcosa e altri che hanno bisogno di raccontare qualcosa della propria vita. C'è gente che ha bisogno di sfogarsi, di aprirsi, di ascoltare delle cose belle, di ascoltare la propria storia o che venga in qualche modo sentita dall'interlocutore ed io, per molti versi, ho catturato la storia di molte persone proprio perché c'erano delle cose che mi accomunavano in molti aspetti a loro. E quindi ho voluto raccontare delle mie cose, proprio perché ho capito che ci sono delle persone che si possono rispecchiare in quello che dico, che ne hanno bisogno. Voglio essere io il tramite, voglio portare un messaggio, voglio trasmettere dei messaggi positivi a chi come me ha sofferto e soffre ancora, e dare un po’ di speranza.

Che cosa racconti nelle tue canzoni?
Messaggi di speranza, di amore. Le mie sono delle canzoni innanzitutto d'amore, ma non solo per la persona che ti sta a fianco, che vorresti o che hai perso, sono dei messaggi d'amore per la vita, per una donna, per una mamma, quella per cui è iniziato tutto questo percorso musicale, amore per chi è capace ancora di emozionarsi, cosa che spesso manca oggigiorno. Infatti io mi trovo spesso spiazzato e fuori tempo per molti aspetti, perché adesso ha molta più risonanza la musica che fa rumore, la musica aggressiva. Quella che faccio io, che è la musica melodica dalla quale non riesco a discostarmi, è un po' allontanata. Ho pure questa difficoltà di inserirmi nel mercato musicale proprio per questo, perché la mia è un tipo di musica che magari andava bene fino a qualche anno fa, mentre adesso ne va bene un altro tipo. Non riuscirei a fare un altro genere di musica. Luca Andrieri è proprio questo, il ragazzo melodico, romantico, a cui piace raccontare l'amore, l'amore in senso lato, universale.

Un cantante, un musicista può sentirsi tale senza i pubblici?
No. Fino a qualche anno fa io non riuscivo a stare nemmeno senza piano bar. Ho sempre suonato, nella mia stanza, ma era una preparazione alle serate. È bello suonare da solo ma nel contempo è avvilente perché non riesci a trasmettere ad altri. Proprio perché ho questa cosa di comunicare, di dare agli altri qualcosa, suonare da solo sarebbe come ripetere a me stesso delle sensazioni già provate e quindi non c'è questo sfogo, questo scambio con l'altro. Facendo piano bar, ho sempre scelto delle canzoni che potessero comunicare agli altri un qualcosa di positivo, dei messaggi di amore e di speranza. Quando invece l’ho accantonato per concentrarmi su questo progetto, che è durato un anno, io faticavo perché non avevo la possibilità di cantare agli altri. Adesso che questo lavoro è finito, finalmente assieme al pensiero e ai messaggi di un De Gregori, di un Baglioni, di un Venditti posso comunicare agli altri anche i miei pensieri e i miei messaggi. E questo, quando vedo la gente emozionarsi con le mie canzoni, mi rende molto felice.

Che cosa significa oggi vivere come un artista? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Vivere da cantante significa dapprima spendere un sacco di soldi, proprio perché c'è un lavoraccio dietro. Io ho fatto tutto da me. Mi sono auto-prodotto, ho comprato i cd vergini per portarli in sala incisione, sono andato dal grafico, ho fatto la grafica, non c'è stato nessuno che ha aperto il portafogli se non io stesso. Perché oggi non c'è più questa figura del produttore di una volta che crede in te e ti dice “Sì tu vali, tu mi piaci, ti sovvenziono io”. Questo, economicamente parlando. Dall'altra parte, vivere da cantante è bello perché non hai limiti, puoi dire ciò che vuoi, come lo vuoi e quando lo vuoi, proprio perché la musica è universale. I sacrifici sono tanti però, ed io li ho affrontati, nella speranza che a qualcuno piacerà ascoltare le mie canzoni.

Cosa ti spinge a tornare nel Sud?
L'amore per il Sud. Ho sempre scritto per il Sud o per il mio paese e per la gente del mio paese. C'è stata una canzone che avevo intitolato “Città del Sud”, mentre adesso nell'album “Io e Luca” c'è “La mia piccola città”. Quello che mi spinge a tornare è la gente, l'armonia che si respira, la serenità di quando incontri una persona e la puoi guardare negli occhi, comprendendo la sua limpidezza e purezza. È una cosa bella, che però salendo un pochino nello stivale non avviene quasi mai. Anzi, spesso trovi dei cuori che sono chiusi, sbarrati. Quando vengo al Sud, io mi ossigeno a pieni polmoni, per poi portare con me tutto questo ossigeno che deve durare fino al prossimo anno. Non mi spinge nessuno a venire qua. È come la musica. È una necessità, ed è una cosa fondamentale nella mia crescita come persona, non come artista. Qui basta uscire sul corso, ti salutano tutti, sei l'amico di tutti. Mi piace parlare con tutti, mi piace ascoltare tutti, dal momento che oggi difficilmente trovi qualcuno che ti ascolta. Io di solito ascolto tutti quanti e, forse, è proprio questa la forza che mi fa andare avanti nelle mie cose: parlare con tutti ed essere l'amico di tutti. Io questo voglio essere: l'amico di tutti, indistintamente. Roma è bella solo artisticamente. C'è il bel monumento, c'è il Colosseo, ci sono dei bei appartamenti, ma è tutto cemento e a me il cemento non dà niente. Preferisco toccare una persona, parlare con lei e guardarla nel cuore, negli occhi che sono la porta del cuore. Guardare una persona negli occhi è una cosa straordinaria. È questo che mi riporta ogni anno nel Sud.

Il tuo primo album s'intitola “Io e Luca”: di cosa parla?
Parla di Luca artista. “Io e Luca” è proprio un guardarsi allo specchio. È Luca che si guarda allo specchio e si rende conto che dentro di lui c'è proprio questa voglia di esprimersi, di emozionare e far emozionare, e di emozionarsi lui stesso. Perché è proprio questo confrontarsi, questo scontro di emozioni, che poi mi fa scrivere, mi fa avere voglia di scrivere e di cantare ancora. Quindi questo scambio di emozioni, questo confrontarsi, questo guardarsi allo specchio indica proprio il fatto che è arrivato il momento di dire qualcosa, di confrontarsi e di parlare d'amore, perché c'è bisogno che qualcuno parli finalmente di amore, in senso lato, positivo, vero.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
È di fare sentire il mio pensiero a tutti quanti, anche per pochi secondi, di fare conoscere questo piccolo artista dappertutto, a tutti quanti. Anche per una sola frazione di secondo, vorrei uno spazio tutto mio per far ascoltare quello che ho da dire a tutti quanti. Proprio perché sono stato tanti anni in silenzio, adesso voglio fare conoscere Luca Andrieri. Quello che fino a ieri stava a casa, adesso voglio farlo uscire, voglio far parlare di lui, nel bene e nel male, il quale quest'ultimo ci sarà sempre. Però vorrei farmi conoscere un po'. Non è essere esibizionista, però vorrei che tutti comprendessero il mio stato d'animo, anche perché come me ce ne stanno una marea. Ci sono tante persone che hanno questa voglia di comunicare qualcosa che hanno dentro di sé. Ho scelto questo cammino proprio perché voglio far parlare di me e far parlare tutte quelle persone che stanno in silenzio e che non hanno avuto, come me, la possibilità di fare questo cd. Voglio parlare per loro.

Chi desidera seguirti e saperne un po' di più sulla tua musica, dove può rivolgersi?

Alcune parole per i giovani.
Tanti sogni non sono fini a se stessi. Il mio album dimostra che i sogni, se vuoi, si possono realizzare ed io il mio l'ho realizzato con questo cd. La musica, per chi la vive come me, è veramente un mezzo fantastico per comunicare con gli altri, è universale, ti fa comunicare con tutti. Sono dei sentimenti che tu metti in musica e puoi comunicare anche a chi non parla la tua stessa lingua. Basta metterci il cuore e puoi arrivare dove vuoi. Nel mio percorso forse sono stato avvantaggiato perché ho trovato sempre gente fantastica, sempre gente per bene, e sono orgoglioso perché sono sempre stato circondato da persone meravigliose. Vorrei che tutti prendessero una chitarra, cominciassero a strimpellare e tirassero fuori i propri sentimenti. Tutti hanno i sentimenti, la difficoltà sta nel farli uscire fuori, però una volta che escono fuori poi vedi che non li fermi più.

sabato 21 settembre 2013

Mutuli


- di Saso Bellantone
“Mutuli! Mutuli-eh!” – così urlavano le donne tanti anni fa, così sono tornate a urlare oggigiorno. Madri, mogli, fidanzate vestite alla buona, con il classico faddali, girano instancabilmente per tutte le strade e le viuzze del paese, tirandosi dietro il caratteristico carretto auto-prodotto, costituito di una struttura in ferro con manico regolabile, delle ruote di bicicletta riciclate e delle lastre di compensato su cui posare le cassette di mutuli, la bilancia e tutto l'occorrente per la vendita. Le loro voci, come provenienti dal passato, si scontrano con i fantasmi della globalizzazione, del consumismo e della post-modernità, riempiendo l'atmosfera di un colorito paesano, antico, umanizzato. I bambini piccoli sorridono, rallegrati dalle voci di donna che spezzano la monotonia quotidiana, le massaie si affacciano dai balconi e dalle finestre e corrono incontro alle pescivendole, smaniose di preparare anche quest'anno una di quei prodotti tradizionali che rendono fieri di essere meridionali e che danno al Sud quel volto che nessuna unità nazionale o confederazione di Stati può dare: 'u pisci all'ogghjiu.
Si tratta di una conserva, il cui scopo, al pari di quella della salsa, è di assicurarsi una scorta di pesce fresco e genuino per tutto l'anno. La preparazione è lunga e comincia con la raccolta dei recipienti, o buccacci, per tutto l'anno. Giunto il periodo della pesca dei mutuli, i recipienti vengono lavati e poi fatti asciugare bene su di un panno. Dopodiché, una volta acquistati i pesci, si passa alla preparazione vera e propria.
Mentre grandi calderoni sul fuoco o sui fornelli riscaldano l'acqua fino a portarla in ebollizione, si provvede alla pulitura dei pesci dalle interiora. Lavati i pesci sotto l'acqua corrente, si attende che l'acqua nel calderoni raggiunga la temperatura di ebollizione, si aggiunge del sale, in quantità proporzionale al peso dei pesci che si sta per immergere e, una volta fatto ciò, si lascia bollire per tre ore.
Passato il tempo di cottura, si scola l'acqua e si passa alla seconda pulitura, che consiste nella privazione della pelle, della spina e nella separazione della polpa bianca da quella nera, quest'ultima contenente il sangue del pesce. Alcuni usano anche questa parte del pesce, altri invece preferiscono disfarsene, usando per la conserva soltanto la polpa bianca. Dividendoli a metà, o in quattro parti se si preferisce, si lascia asciugare i pesci stendendoli su di un panno e, quando sono perfettamente asciutti, si passa infine alla conserva. Stringendoli bene l'uno con l'altro, i pesci vengono calati nei recipienti e ricoperti interamente di olio, di semi o di oliva, a seconda dei gusti, e il gioco è fatto.
In genere si lascia riposare il pesce nei buccacci per un po' di tempo, ma di fatto si può già consumare. Per chiudere il rito della preparazione del pisci all'ogghjiu, molti sono soliti cucinare la pasta con il sugo del pesce nero oppure aprono uno dei buccacci per testare la salatura.
Come nel caso della salsa, la preparazione del pisci all'ogghjiu è un'attività solidale, che crea comunità e familiarità. Ci riunisce in una sola casa, donne, uomini, bambini e adulti, parenti e vicini, e si provvede alla preparazione dei buccacci per tutti quanti. In questo modo, non soltanto si ha la possibilità di socializzare, di rinforzare il legame familiare o rionale, confrontandosi e consigliandosi l'un l'altra, non soltanto si ha disposizione per tutto l'anno del pesce fresco e genuino, ma si ha anche l'occasione di conservare, affidandola ai posteri, una di quelle tradizioni che i nostri antenati ci hanno tramandato da tempi ormai lontani... eppure vicini, se non vicinissimi.
L'attuale ritorno delle voci delle pescivendole, e la preparazione del pisci all'ogghjiu, è una metafora del nostro tempo che preannuncia il tempo che viene.
Se da un lato per favorire il business della grandi multinazionali del pesce, ai nostri pescatori non è consentito praticare uno dei mestieri più antichi, utile per la loro sussistenza, dall'altro lato il pesce acquistato nei supermercati è di provenienza incerta e, a volte, pur essendo di qualità scadente o costituito soltanto dagli scarti di altri confezionamenti, costa anche troppo, allo stesso modo, o quasi, del pesce di migliore qualità, sempre importato dall'estero, malgrado provenga paradossalmente dal mar Mediterraneo.
Il ritorno delle pescivendole in strada sintetizza quello che sta accadendo nel mercato del pesce, e in altri mercati, coinvolgendo altri mercati ancora in futuro. Conseguentemente agli accordi politici internazionali volti alla tenuta economico-finanziaria degli Stati e di confederazione di Stati contro altri nella guerra della valuta, si costringe gli imprenditori, i produttori, gli artigiani e via dicendo a configurare le proprie aziende e attività in maniera sempre più rispondente al mercato globale, oppure gli si impedisce loro di lavorare, avvantaggiando le multinazionali. In altre parole, si elimina la concorrenza, costringendo quanti di generazione in generazione hanno sempre fatto il medesimo lavoro a chiudere la baracca e a occuparsi di tutt'altro.
Questo naturalmente produce non soltanto la perdita irreversibile degli antichi mestieri e, quindi, dell'identità locale dei popoli, ma anche povertà, disoccupazione, disperazione e, in ultima istanza, schiavitù. Il pescatore infatti, per restare nel tema dei mutuli, che si vede impossibilitato a “pescare” appunto, a causa di leggi, condizioni economico-fiscali e abitudini dei consumatori controproducenti, per far sopravvivere se stesso e la propria famiglia, si vede costretto a svolgere, o a imparare, un mestiere che non ha mai fatto, e spesso non riesce o, come accade oggigiorno, non lo trova. Per questo motivo, come avviene anche in altre dimensioni lavorative, è obbligato a protestare, finché ne ha le forze, economiche e vitali, oppure a cercare lavoro all'estero.
Il risultato non è altro che lo spopolamento dei paesi d'origine, che causa un danno economico locale, cioè agli abitanti che restano in paese, e nazionale, statale, ossia all'insieme dei lavoratori e delle aziende rimaste, le cui buste paga, tasse e consumi concorrono alla formazione dei PIL e, dunque, alla crescita o decrescita economica dello Stato.
È evidente che proseguendo in questa maniera, nel mercato del pesce e in altri mercati, ci si getta ancora più a fondo del baratro economico in cui ci si trova – dal momento che il debito supera i duemila miliardi di euro. Ma forse c'è a chi piace che le cose vadano così e le incentiva, allo scopo di ottenere maggiore potere all'interno del nuovo ordine mondiale che si sta costruendo.
La gente tuttavia non è folle al cento per cento, malgrado questo stato di cose l'abbia voluto proprio lei con il proprio voto, condizionato dalla rilassamento causato dal benessere vissuto nei decenni passati e dai messaggi subliminali dei strumenti di comunicazione di massa. Anzi, sempre più povera e disperata, quando sente la voce delle pescivendole che passano con i mutuli per le strade, va nuovamente loro incontro per preparare 'u pisci all'ogghjiu. E se adesso sono pochi coloro che lo fanno, molti torneranno presto a farlo, fiutando l'aria del default che c'è intorno.
L'acquisto dei mutuli, e la preparazione del pisci all'ogghjiu, offre l'occasione di prepararsi al fallimento e di recuperare quelle tradizioni, quegli usi e quei costumi antichi, portatori di quei valori comunitari e sapienziali che hanno fatto sopravvivere i nostri avi e che presto, a scapito della globalizzazione e del consumismo, garantiranno la nostra sopravvivenza all'interno delle popolazioni locali.
Si crede ormai che i grandi cambiamenti abbiano origine nella punta della piramide di questa società e si dimentica ogni giorno che, al contrario, tali cambiamenti, attualmente tanto auspicati, possono provenire soltanto dal terreno sottostante la base della medesima piramide, dall'ultimo livello cioè di questa società, dove noi sopravviviamo.
Non resta che chiedersi: tonno in scatola o mutuli?
In questa domanda, così come in altre, si gioca il nostro destino e, anche, ripercuotendosi sull'Occidente, sull'Europa o sull'Italia, quello del Sud.

martedì 17 settembre 2013

Dono inverso


- di Charles Dickens
"- Allora - disse lo spettro - è cosa fatta? -
- Sì. -
- Sì. E tu, uomo al quale io rinuncio in questo momento, porta questo con te! Il dono che ti ho fatto, puoi farlo a tua volta dovunque andrai. Senza ricuperare la facoltà a cui hai rinunciato, tu d'ora in avanti la distruggerai in tutte le persone che avvicinerai. La tua saggezza ha scoperto che la memoria dei dolori, delle ingiustizie, dei guai è destino di tutta l'umanità e che, se non fosse per questo, l'umanità sarebbe più felice negli altri suoi ricordi. Avanti, sii il benefattore dell'umanità! Tu, che sei liberato da questi ricordi, d'ora innanzi porta involontariamente con te la benedizione di questa libertà. Non puoi rinunciare al potere di diffonderla né alienarlo. Va'! Sii felice per il bene che hai conquistato e per quello che puoi fare! -" (Il patto col fantasma).

sabato 14 settembre 2013

Pensieri visivi: PAESAGGIO D'INVERNO di Vasilij Vasil'evič Kandiskij


- di Saso Bellantone
Foglie secche, non ancora portate via dal vento, sono sparse su di un sentiero di campagna che si snoda attraverso prati appassiti e alberi spogli, in direzione di una casa. Su di una collina vicina a quest'ultima torreggiano dei sempreverdi, mentre le colline sullo sfondo, che racchiudono la cittadina, celano un sole nascente o un tramonto, i cui raggi si riflettono sulle statiche nuvole, colorandole d'inverno.
È questo il Paesaggio d'inverno di Vasilij Vasil'evič Kandiskij. Un luogo desolato, sì, ma pigmentato d'anima o... di pensiero. È il momento del ritorno in casa propria, sia “casa” una dimensione concreta oppure la propria interiorità. L'osservatore sembra spinto a muoversi attraverso l'arido sentiero rappresentato nel dipinto in direzione di uno spazio sicuro, di un ultimo baluardo per proteggersi dalla società o semplicemente da se stesso. Sfiorita, è ormai la realtà, dove ha camminato fino ad alcuni istanti prima, spoglie sono le certezze con cui finora ha orientato il proprio passo, fuorché l'imperitura evidenza, a volte schivata, che la “casa” è l'unico ambiente in cui sentirsi davvero custoditi, preservati, difesi. Ma da che cosa tutelarsi? Dalla società, da se stessi o da entrambi?
Vivere nella società implica la piena accettazione delle sue regole, spesso a scapito delle proprie. È un cammino totalmente programmato, dalla culla alla bara, durante il quale ogni passo non è altro che l’attuazione dei suoi imperativi prestabiliti e inviolabili. Fin dalla tenera età, si è educati a macchinizzarsi, a omologarsi, a diventare un numero della grande catena di montaggio che è la società stessa. Vivere in essa vuol dire appartenere attivamente al ciclo lavoro-produzione-consumo, fin quando si respira. Nei tempi di riposo da questo ciclo, la società consente, o meglio comanda, ai suoi ingranaggi di narcotizzarsi con la tv, la musica, la letteratura, il cinema, i quotidiani, la religione, le vacanze, gli acquisti e tutti i servizi in e out door preparati, allo scopo di offrire loro una parvenza di libertà e di convenienza, dunque, nel far parte di essa. Per questo motivo, non ci si accorge che quanto si è prodotto, con sacrifici, non è mai proprio bensì una temporanea concessione che la società stessa, rapidamente, si riprende, sia esso una casa, un’automobile, una famiglia, dei figli, un abito o qualsiasi tipologia di produzione intellettuale. Ma a un certo punto, l’illusione dell’opportunità di far parte della società comincia a traballare, specialmente quando s’inizia a capire che tutte le forme di narcosi presenti in essa non sono altro che progetti pensati, appunto, per il consumo e la schiavitù eterna alla catena di montaggio. Si comincia così ad avvertire stanchezza, fisica e mentale, insicurezza, spaesamento. Comincia a pesare la certezza che il lavoro, la produzione non basta mai in relazioni ai consumi inconsciamente suggeriti e a cui ci si è stati abituati. S’inizia a comprendere che la propria vita è stata interamente immaginata, calcolata allo scopo di restare continuamente legata alla catena di montaggio, senza possibilità di fuga, senza via d’uscita alcuna. Allora ha inizio il disgusto, il rifiuto della società in tutti i volti che la costituiscono e il disprezzo verso se stessi. La monotonia sociale ormai assimilata appare come un incubo, una follia, e ci si chiede se ancora esiste qualcosa in se stessi che possa essere individuato come la propria identità, la propria unicità. In questo momento, si voltano le spalle alla catena di montaggio e ci si avvia altrove, seguendo quel sentiero che conduce al proprio rifugio.
L’ambiente è spettrale, la strada su cui ci si muove dolorosamente è arida al pari del proprio io. Le certezze sono avvizzite, spoglie sono le colonne d’Ercole su cui quest’ultime poggiavano, ingiallito è il terreno su cui esse crescevano. È difficile procedere e la tentazione di arrestarsi e di abbandonarsi al fato è allettante, ma ecco che poco più avanti s’intravede finalmente il proprio asilo.
È il momento. È la scelta. Il ricovero nel proprio sé può essere l’alba di un nuovo inizio o solamente il tramonto definitivo delle possibilità. La porta non si vede. Non è facile entrare. Manca soltanto un passo, con il quale smettere di essere un numero e cominciare a essere ciò che il proprio stesso nome mostra e nello stesso tempo nasconde. Ci vuole forza per farlo, quella forza che si crede di non possedere più e che invece attende di essere evocata. Ma attendendo indecisi sull’uscio, si comincia ad avvertire ciò che non si è mai provato nella catena di montaggio: aria pulita, aria libera, il proprio respiro vitale. E quando ci accorge di questo, si scopre di trovarsi già all’interno del riparo, dentro se stessi, dove tutto ha un altro senso e dove la propria “casa” non può essere altro che la natura.
Paesaggio d’inverno di Kandiskij offre l’occasione di pensare per dicotomie – società/natura, io/sé, calcolo/pensiero eccetera – e di mettere a fuoco le risposte a quegli interrogativi che all’interno della società non è possibile trovare. È un’opera spirituale… o del pensiero, perché osservando tale paesaggio invernale, l’osservatore focalizza l’inverno che dimora nel proprio animo, a causa di una società programmata schiavizzare l’essere umano e avvizzirlo, riducendolo a un pezzo intercambiabile per il proprio sostentamento. I colori del dipinto sono vivi, accesi, inducono l’osservatore a caricarsi di quella speranza che la società invece sciupa, e cioè che il mondo umano e l’essere umano stesso possono differenziarsi da quanto imposto loro finora, in maniera definitiva. Basta volerlo, operando quel ribaltamento di fronte tante volte auspicato e pensato, che richiede tutte le proprie forze. Basta trovare il sentiero che conduce al di là del circuito spersonalizzante lavoro-produzione-consumo e passare, per esempio, al ciclo cura-ricezione-servizio, più naturale e più umano, perché presuppone un rapporto diverso con la terra in cui si dimora, e in cui si è nati, con se stessi e con gli altri, concepiti questi ultimi come “terra che possiede un volto” al pari di sé. 

giovedì 12 settembre 2013

Dalla tv ai fatti

- di Saso Bellantone
"Spegni la tv e accendi il pensiero, abbandona il mondo delle idee e radicati più profondamente nel mondo delle cose. Scoprirai che la vita non è un programma né uno spot né un film bensì il legame che intercorre con la tua coscienza che giudica, con gli altri che ti affiancano, con la natura che si dona quotidianamente. Allora capirai anche qual è il posto al mondo, il tuo sentiero, la tua meta".

lunedì 9 settembre 2013

Io sociale ed io genetico


- di Saso Bellantone
"C'è un'antica porta al di là del tempo e del pensiero, innanzi alla quale spesse volte indugia ogni individuo. Qui, l'io sociale non ha alcun accesso, può entrarvi soltanto l'io genetico, il quale, una volta dentro, si trova innanzi alla sua vera identità: ciò che è buono in realtà è cattivo, ciò che è cattivo in realtà è buono".

sabato 7 settembre 2013

I rivoluzionari interessati

- di Jean Paul Sartre
"IL BANCHIERE - Vedete, io divido gli uomini in tre categorie: quelli che hanno molto denaro, quelli che non ne hanno affatto e quelli che ne hanno poco. I primi vogliono conservare quello che hanno: il loro interesse è di mantenere l'ordine; i secondi vogliono prendere quello che non hanno; il loro interesse è di distruggere l'ordine attuale e di stabilirne un altro, in proprio favore. Gli uni e gli altri sono dei realisti, della gente con cui ci si può intendere. L'altra categoria vuol rovesciare l'ordine sociale per prendere quello che non ha, pur conservandolo, per non farsi prendere quello che ha. E quindi, conservano in realtà quanto distruggono idealmente oppure distruggono in realtà quanto sembrano conservare. Questi sono gli idealisti.
GOETZ - Poveretti, come guarirli?
IL BANCHIERE - Facendoli passare nell'una o nell'altra categoria sociale. Se li arricchite conserveranno l'ordine stabilito".

giovedì 5 settembre 2013

I buttigglji


- di Saso Bellantone
Per effetto dei cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni, scompaiono diverse tradizioni e, con esse, svaniamo anche noi. Si perde la propria identità, i valori, il senso della comunità, un'antica visione delle cose; antica sì, ma non per questo dissennata, anzi, con gli occhi di oggi, sembra avere più ragionevolezza di quella attuale.
Una di queste tradizioni, ormai praticata da pochissimi, consiste nella preparazione de i buttigglji, o conserva di salsa di pomodoro.
Si tratta di un vero e proprio rito che si svolge tra la fine di agosto e i primi di settembre, e comincia con la scelta dei pomodori da utilizzare. In base alla tipologia di pomodoro usata e al miglior rapporto qualità/prezzo, si suole scegliere i pomodori più rossi per ottenere una salsa più colorata e gustosa. Acquistate diverse cassette, si lascia riposare i pomodori al fresco per alcuni giorni, affinché possano maturare ancora un po', e si lavano i contenitori e i tappi, rigorosamente riciclati dall'anno precedente, lasciandoli ad asciugare bene bene su di un panno. Giunto quindi il giorno fatidico per la preparazione de i buttigglji, ci si riunisce tutti quanti in una abitazione e si dà avvio al rito.
Il procedimento è molto lungo e richiede una certa dose di tempo e di pazienza. Innanzitutto si lavano sia i pomodori sia gli strumenti necessari, poi ognuno, uomini, donne, bambini e anziani, svolge un ruolo preciso e funzionale al rito. Alcuni tagliano i pomodori, altri cuociono in appositi pentoloni, altri li scolano, altri macinano dividendo la salsa dalla buccia, ripetendo l'operazione per diverse volte, altri riempiono i contenitori con la salsa, altri li chiudono bene bene, altri cercano la legna per il fuoco o piazzano tre piedi, bombola del gas e calderone, altri collocano i contenitori nel calderone, riempiendo quest'ultimo d'acqua, altri lavano gli strumenti usati. Una volta riempito il calderone, si accende il fuoco o il gas e si lascia cuocere il tutto per alcune ore per togliere l'aria dai recipienti. Passato il tempo di cottura o di ebollizione, si spegne il fuoco e si lascia raffreddare fino alla sera o alla mattina del giorno seguente, davanti a un buon piatto di pasta asciutta, condita rigorosamente con un po' di salsa ricavata dal rito. Passato il tempo di raffreddamento, si estraggono i buttigglji dai calderoni e si depositano al fresco in cantina, per servirsene tutto l'anno a venire.
Questo procedimento si ripete per più giorni, dalle prime luci dell'alba fino alla sera, perché il senso di questa pratica è nella compagnia, nella solidarietà, nella cooperazione, nella famiglia, nell'incontrarsi, nel passare del tempo assieme. Trattandosi di un procedimento lungo e complesso, sarebbe impossibile farlo da soli, così lo si svolge assieme ai propri familiari, nonni, zii, cugini, genitori, bambini, oppure assieme ai propri vicini. Trovandosi assieme, ognuno acquista i propri pomodori e tutti si adoperano per alcuni giorni consecutivi, aiutandosi l'un l'altra per la preparazione delle conserve di ognuno.
La preparazione de i buttigglji ha un significato su più livelli: è una festa, in quanto attività tradizionale che accomuna e riunisce; è un gioco, perché ci si ritrova in momenti di allegria assieme agli altri, rispettando tutti la prassi e le regole necessarie per preparare le conserve; è utile, in quanto consente di avere per tutto l'anno della salsa genuina necessaria per primi, secondi e altre ricette; è un simbolo, perché rappresenta il legame che intercorre tra quanti partecipano al rito, rinsaldandolo, e la necessità di ognuno, senza eccezioni.
Il rito de i buttigglji non è attraversato soltanto da momenti di buonumore ma anche da attimi di dialogo e di riflessione comune, durante i quali tra familiari o tra vicini si ha l'occasione di confrontarsi, di conoscere le gioie e le tristezze come le fortune o le difficoltà di ognuno, e di stabilire una prassi di comune solidarietà, riprogrammando la propria vita in funzione di quella altrui.
Certamente oggigiorno il rito de i buttigglji può apparire come una prassi dispendiosa in termini di tempo e di denaro, tant'è che si preferisce andare al supermercato per acquistare vasetti di salsa già pronta, risparmiando. Ma con tale preferenza, si finisce col perdere ciò che i buttigglji simboleggiano: l'unità familiare e rionale. Non a caso lo svanimento di questo rito e la crescita dell'acquisto di barattoli di salsa al supermarket rappresenta in chiave metaforica il tempo che stiamo vivendo: un tempo solitario.
Dalla mattina alla sera, si passano le giornate nella solitudine del lavoro, anche in presenza di colleghi, e una volta finito di lavorare ci si ritrova soli con se stessi sia all'interno del proprio nucleo familiare sia nella società, impiegando il tempo libero continuamente in fretta, per fare la spesa, pagare le bollette e provvedere a tutto quello di cui si necessita in casa o per se stessi.
Rispetto alla preparazione de i buttigglji, l'acquisto della salsa al supermercato rappresenta lo sfaldamento dei legami, familiare e rionale, e, in ultima istanza, lo slegamento della comunità e la perdita della visione delle cose congiunta a quest'ultima. Se da un lato non si conosce chi ha prodotto la salsa, dove, come, con chi, come è stata trasportata e conservata e, dunque, non si sa se sarà benevola o nociva, dall'altro lato il consumo della salsa da supermarket, così come altri prodotti, contribuisce ad affermare e a fortificare questa società capitalistica, consumistica, accelerata e solitaria a scapito dell'antico senso della comunità, intesa quest'ultima come luogo dove tutti hanno bisogno della presenza, della compagnia, della solidarietà, dell'aiuto di ciascun altro.
Quale futuro avrà il rito de i buttigglji? È destinato a svanire per sempre o attraverserà un ritorno di fiamma?
Si crede ormai che i grandi cambiamenti abbiano origine nella punta della piramide di questa società e si dimentica ogni giorno che, al contrario, tali cambiamenti, attualmente tanto auspicati, possono provenire soltanto dal terreno sottostante la base della medesima piramide, dall'ultimo livello cioè di questa società, dove noi sopravviviamo.
Non resta che chiedersi: salsa o buttigglji?
In questa domanda, così come in altre, si gioca il nostro destino e, anche, ripercuotendosi sull'Occidente, sull'Europa o sull'Italia, quello del Sud. 

martedì 3 settembre 2013

Europa sismica

- di Saso Bellantone
"Niente dura in eterno, tutto è soggetto a crolli e sconvolgimenti; dopo le idee di anima, di mondo, di Dio, ora tocca a quella di Europa".