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sabato 25 settembre 2010

MOBY DICK di HERMAN MELVILLE

- di Saso Bellantone
Chi ha mai fatto un viaggio per mare? E un viaggio su di una baleniera? Chi sa che cos’è una baleniera, com’è fatta, quale tipo di equipaggio vi è imbarcato, che cosa vi avviene, quali compiti svolge ogni marinaio, quali preparativi occorrono prima della partenza, per quanto tempo resta in mare aperto? Perché esiste un tipo di nave (e di pescatori) che va esclusivamente a caccia di balene? Quali balene preferisce cacciare? Che cos’è una balena? Chi conosce com’è fatta, quali sono le sue dimensioni, le sue caratteristiche interne ed esterne, la sua storia? Da quanto tempo si conosce l’esistenza (e si va a caccia) della balena? Che cosa spinge l’essere umano a cacciare la balena? Quali profitti ne ricava? Chi ha mai fatto parte della ciurma di una baleniera?
Scritto nel 1851 da Herman Melville, Moby Dick non è semplicemente un libro che si limita a rispondere a questi interrogativi. È l’immaginario resoconto di un’esperienza di caccia alla balena, vissuto come parte della ciurma di una baleniera, il quale, leggendolo, diventa per il lettore il reportage reale dei principali momenti della propria vita vissuta. Momenti contrassegnati da una tipicità umana eternamente ritornante nel medesimo modo: la sfida di ciò che è ignoto nella natura, intesa come unica forma per la scoperta di sé.
Questa sfida è ambientata in uno scenario nichilistico, assolutamente immanente, nel quale, paradossalmente, il silenzio della voce di Dio, che sopravvive all’oblio umano mediante le Scritture, continua a riecheggiare e a tuonare sugli avvenimenti umani, decidendone il destino.
Che cos’è la vita umana se non un viaggio nell’ignoto per trovare se stessi? Moby Dick racconta proprio questo, vale a dire il tentativo di scoprire se stessi in un mondo apparentemente spoglio di ogni senso. In ogni viaggio che intraprendiamo verso l’ignoto, rincorriamo contemporaneamente due scopi: la nostra vera identità; il senso della vita. Il problema, secondo Melville, è il modo con il quale affrontiamo questa doppia esplorazione: “Se questo mondo fosse una pianura senza fine, e navigando verso Oriente potessimo raggiungere luoghi sempre più lontani e scoprire visioni più dolci e più strane di tutte le Cicladi o delle Isole del re Salomone, allora il viaggio avrebbe senso. Ma quando viaggiando non facciamo che inseguire i remoti misteri di cui sogniamo, o dare la caccia in modo straziante a quel fantasma demoniaco che prima o poi nuota davanti a ogni cuore umano; allora, quando diamo la caccia a cose del genere tutt’intorno a questo tondo globo, tali cose ci portano all’interno di sterili labirinti, oppure ci lasciano sommersi a metà strada” (p. 203).
Quando non sappiamo più qual è la nostra vera identità né se esiste il senso della vita, partiamo alla scoperta di entrambi, sfidando l’ignoto. Con noi, portiamo i nostri stessi residui in un mondo sconosciuto pieno di sconosciuti. A volte siamo soli contro tutti; altre volte affrontiamo la sfida in compagnia di amici. Amici totalmente diversi da noi – nella cultura, lingua, tradizione, usi e costumi – che però sfidano l’ignoto per le nostre stesse ragioni, per altri motivi o per il semplice gusto di sfidarlo. Qualora affrontiamo questa battaglia assieme ad altri, occorre imparare a convivere con la diversità e la stranezza di ognuno pensando che un altro fa la stessa cosa nei nostri confronti. Ma è anche necessario accettare le regole, la gerarchia, l’ordine necessari per la coesistenza e per la sopravvivenza di tutti. Specialmente laddove si convive nella stessa temporanea dimora che, per offrire il suo apparente riparo a ognuno, dev’essere curata da tutti. La cura, si sa, non termina mai.
In ogni viaggio, scopriamo luoghi e cose impensabili, ascoltiamo storie incredibili e conosciamo persone completamente estranee a tutte quelle già conosciute, con le quali ci confrontiamo per trovare noi stessi. Sono persone inimmaginabili, la cui aria misteriosa è simile allo stesso ignoto cui andiamo incontro e che, il più delle volte, se non lo siamo proprio noi, fanno da capitani all’avventura che è dentro e fuori di noi. Di costoro non sappiamo nulla. All’inizio abbiamo notizia soltanto degli atti leggendari e delle pazzie di cui si sono resi protagonisti; osservandoli sotto questa luce, proviamo a un tempo ammirazione e timore, sicurezza e coraggio. Poi, proprio quando ormai abbiamo varcato il punto del non ritorno, scopriamo il loro lato più oscuro e il nostro viaggio prende un’altra piega: andiamo con loro in capo al mondo per braccare incessantemente il diavolo bianco, bianco come l’ignoto, come tutto quello che fa maggiormente paura. Ma non è facile, al pari degli altri diavoli, stare addosso, uccidere e squartare il diavolo bianco.
Quando cominciamo a comprendere che non è questo lo scopo del nostro viaggio, è difficile restare impassibili di fronte all’atmosfera spettrale nella quale navighiamo; è arduo vincere la paura infusaci dalle oscure profezie che tornano alla memoria e dai tetri presagi che c’incalzano l’uno dietro l’altro; è faticoso voltare le spalle a quei segni speranzosi che c’intimano di tornare indietro, specialmente quando non si è il capitano della propria nave e si è comandati da chi non pensa ad altro se non al diavolo bianco. Che cos’è l’essere umano se non un diavolo di diverse forme rispetto a quello che insegue ovunque senza fermarsi mai? In questo modo, però, l’essere umano bracca il diavolo bianco, se stesso oppure una folle e distorta immagine artificiosa di sé? Spesso siamo a tal punto fuori di noi stessi che non distinguiamo più il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto: in questo sortilegio che ci auto-provochiamo, come fossimo davvero indiavolati, fraintendiamo i prodigi che ci suggeriscono di fare dietrofront, considerandoli dei comandi sovrannaturali che ci ordinano di andare avanti.
C’è un limite, però, che non ci è concesso oltrepassare: il divino. Quando anche con il solo pensiero ci eleviamo sul mondo alla maniera di divinità, in questo momento perdiamo per sempre la via del ritorno e vediamo moltiplicarsi i neri presagi che accelerano il compiersi del nostro dannato destino. Non ci frena più niente, non c’è lacrima che tenga il nostro triste fato: la sfida delle sfide contro il bianco avversario, è la legge che abita là dove prima dimorava in noi la ragione. Arriverà l’ora, prima o poi, in cui staremo innanzi al nostro rivale dei rivali come diavolo contro diavolo e non avremo più il tempo di trovare noi stessi né il senso della vita. Ergendoci contro la Balena Bianca alla maniera di Achab, cioè come divinità traboccanti di sé, non avremo scampo. Mantenendo invece un confine dentro il quale scoprire il nostro essere e il senso della vita, potremo sperare nella salvezza. Ma il confine che immagina Melville è religioso e provvidenziale: per questo motivo, per sperare di salvarsi, ognuno di noi dovrebbe chiamarsi “Ismaele”.

giovedì 23 settembre 2010

C'ERA UNA VOLTA LA SCUOLA: UN COMMENTO A "SCUOLA CI MANCHI" DI STEFANIA GUGLIELMO

- di Saso Bellantone
Lo scopo della scuola non è soltanto quello di munire i giovani di tutti gli strumenti necessari per accedere nella società come cittadini maturi (cioè i saperi, le scienze, le arti, le tecniche, i metodi, la disciplina). Consiste, anche, nel risvegliare, curare o stimolare in ogni giovane la coscienza della propria unicità e della urgenza di ogni unicità per migliorare la qualità della vita della nostra società ed estenderla a più persone rispetto ai pochi che ne godono attualmente. La scuola dovrebbe rendere consapevole ogni giovane di quanto è straordinario il proprio potenziale, di quanto può essere incisivo per la collettività, di quali e quante responsabilità derivano dallo specifico contributo di ognuno e di quanto tutta la comunità dipenda dal singolare apporto di ognuno, dal momento che siamo tutti interconnessi, dipendenti l’uno dall’altro, bisognosi l’uno dell’altro, indipendentemente dalla faccia, dal colore, dall’abito, dal lavoro, dal gusto, dalla fede e dalle opinioni che ognuno possiede. Mediante i giovani, la scuola dovrebbe prendere in mano il destino dell’umanità e proiettarlo scrupolosamente verso un futuro più vantaggioso, se non per tutti, per la maggior parte, in ogni dimensione che caratterizza la società umana e ne qualifica l’esistenza. Ma la scuola non fa nulla di ciò.
Leggendo l’articolo “Scuola ci manchi, sarebbe stato bello conoscerti!” di Stefania Guglielmo ( http://agoghe.blogspot.com/2010/09/scuola-ci-manchi-sarebbe-stato-bello.html ), sono tornato indietro nel tempo, al momento in cui concludevo la mia esperienza scolastica e già cominciavo a effettuarne un bilancio. Sembra che il tempo si sia fermato: a distanza di oltre dieci anni, la scuola pare sia rimasta uguale.
Animati dall’immenso desiderio di apprendere tutto quello che li attornia e di acquisire le conoscenze e le competenze utili per canalizzare le proprie energie allo scopo di edificare un futuro migliore, i giovani cominciano l’esperienza scolastica come degli innamorati per finirla, chi prima chi dopo, molto demoralizzati. Col passare del tempo, i giovani si ritrovano privi del coraggio, della fiducia in se stessi, dell’energia, della volontà, dell’amore per la conoscenza, delle proprie potenzialità e della speranza di contribuire a un miglioramento della società. L’artefice di questo totale svuotamento dell’identità di ogni alunno, è la programmatica indifferenza del corpo insegnante. Limitandosi a mandare avanti il programma, come se ci si trovasse in un ufficio nel quale è necessario lavorare “come da programma” per produrre quattrini, l’insegnante assiste indifferente alla lenta e inesorabile implosione di ogni proprio alunno. L’insegnante non vuole far da guida alle domande esistenziali e fondamentali dei giovani, domande così importanti per la loro formazione personale, civile, sociale, umana. Domande poste nel momento più fragile, insicuro, inesperto, inquieto della vita di un giovane. Queste domande, e i giovani con esse, si perdono senza risposta nel silenzio dell’insegnante.
Per effetto di questo silenzio, ogni giovane perde se stesso, smarrisce il proprio io, la propria felice voglia di essere così com’è, di crescere, di imparare, di migliorarsi, di mettere tutto se stesso al servizio dell’altro. Si perde nel labirinto scolastico del sapere, specchio di una società avvizzita, e si lascia sfuggire la propria diversità, sulla base della quale si fonda la propria unicità. A causa della quiete funzionale per il completamento del programma, il giovane ormai privo della propria singolare identità, diventa un numero che rinvia contemporaneamente a una figura smorta seduta nell’aula e a un nome senza volto che occupa quel posto preciso della sequenza di numeri che compongono il registro. Il giovane non è nessuno: ognuno è uguale a tutti quelli che sono stati, che sono e che saranno in quelle quattro mura (la scuola) e su quei fogli di carta (il registro), che stabiliscono il destino dei giovani, della società, dell’avvenire. In questo indifferente movimento eternamente ritornante di omologazione e di spersonalizzazione, il giovane diviene uno studente, uno scolaro, un discente, un alunno, un allievo. In altre parole, un mezzo per muovere i tentacoli del sistema economico-scolastico e per produrre/far guadagnare quattrini. Il resto non serve.
La macchina dello studio (il giovane) intraprende e mantiene costante con il mondo della conoscenza una relazione di devozione a-critica dei manuali, un rapporto tra un numero (il giovane) e precisi numeri di pagine per ottenere dall’insegnante un parere numerato e dai genitori una risposta numerata in moneta; una relazione tra un mezzo (il giovane) e un altro mezzo per sfornare altri mezzi (i soldi) con i quali l’insegnante può limitarsi a campare, comprando gli altri mezzi utili a tal fine (i beni alimentari, farmaceutici ecc.); un rapporto tra visi sbiaditi, date, calcoli e segni per produrre altri visi scoloriti, altre date, altri calcoli, altri segni. Il giovane vive tra le carceri del mondo della conoscenza sotto la tirannia del prof-centrismo, allo scopo di diventare prof-centrico: questa metamorfosi avviene nelle interrogazioni. Scorrendo la lista numerata, l’insegnante chiama una ad una le macchine dello studio come per avvertirle della propria udienza, dalla quale dipende la condanna o l’innocenza di ognuno. L’esito del processo, perché questo sembra ogni interrogazione, dipende dalla capacità di apprendimento della lezione spiegata dall’insegnante: chi ripete a memoria, per filo e per segno, le parole dell’insegnante, è salvo; chi no, corre il pericolo della bocciatura (e non della s-bocciatura). Lo scopo dell’interrogazione, questo è il prof-centrismo, è rendere soddisfatto di sé medesimo l’insegnante: si tratta di mostrarsi una sua copia perfetta e di cominciare a provare piacere di questo, lo stesso piacere che prova l’insegnante dall’altra parte della cattedra, nel vedere il proprio alter ego.
Con questo diabolico meccanismo ogni giovane perde se stesso, i valori, i sogni e i punti di riferimento necessari per generare una trasformazione della società, realizzabile facendo leva sull’elemento che in primis costituisce la società stessa e del quale ogni giovane si sente parte integrante: l’umanità. Se la scuola non cambia, se non recupera un volto umano, non c’è da stupirsi se poi i giovani, copie perfette degli adulti, si comportano allo stesso modo degli adulti: vivono cioè aggrappandosi alla logica della raccomandazione, del clientelismo, della manipolazione di ogni sfera della società e della vita per sopravvivere tristemente.
La scuola ha perso la propria essenza: è questo che Guglielmo denuncia con il proprio articolo. Chi non ha capito l’articolo, legga prima la frase “La scuola, uno di quei luoghi fondanti dove si diventa individui, oggi rende muti tutti gli urlanti” e poi rilegga l’articolo per intero. Questa frase vuol dire che la scuola, agli occhi di Guglielmo, dovrebbe essere quel luogo dove si inizia a gettare le basi per diventare se stessi. L’individuo è “chi non può essere diviso”, chi è in piena armonia con se stesso. Oggi, invece, chi urla la propria individualità – urla perché patisce la società nella quale vive e nessuno lo ascolta – chi urla la propria unicità viene azzittito e questo accade principalmente a scuola. Questo, cari lettori, deve far riflettere parecchio. L’articolo di Stefania Guglielmo evidenzia la necessità di interrogarsi sullo stato attuale della scuola, sul suo senso e sul suo destino. Questa indagine non riguarda l’ente scuola nel suo aspetto amministrativo-strutturale-funzionale bensì nel suo volto educativo-formativo. I giovani hanno un volto? Hanno un’identità? Hanno potenzialità uniche delle quali la società necessita? Se sì, come educarli? Come aiutare ogni singolo giovane a “comunicare” il proprio potenziale? Come guidare un giovane a essere se stesso?
Se le parole dell’intera enciclopedia dei saperi, delle scienze, delle arti e delle tecniche umani non danno da pensare, fanno pensare, invece, le parole di una studentessa, il “bocciolo” scrittore dell’articolo in questione: “La scuola per un giovane è come il sole per un tenero bocciolo; se c’è buio, esso emana, al pari di ogni pianta, i suoi effetti peggiori”. Il buio scolastico, dunque, non piace a tutti: c’è qualcuno che desidera ancora la luce. Qualcuno può cominciare ad accenderla?

domenica 19 settembre 2010

LA PORTA

- di Saso Bellantone
Camminavo.
Camminavo.
Camminavo costante verso la luce. Strane sagome mi passavano accanto. Senza volto. Le guardavo. Nessuna però guardava me. Sentivo il loro vociare, vacuo e allo stesso tempo tonante. Ma non avevo voce per i loro orecchi. Non capivo perché. - Perché nessuno mi vede? Perché non ho voce? Perché continuo costantemente a camminare? - mi chiedevo. E intanto, continuavo ad andare avanti. Non potevo fermarmi. Non ci riuscivo. Non controllavo le mie gambe. Anzi, erano loro a obbligarmi a camminare... continua a leggere


Camminavo costante verso la luce. Strane sagome mi passavano accanto. Senza volto. Le guardavo. Nessuna però guardava me. Sentivo il vociare, vacuo e allo stesso tempo tonante. Ma non avevo voce per i loro orecchi. Non capivo perché. Perché nessuno mi vedeva. Perché non li sentivo. Perché non avevo voce. Perché continuavo costantemente a camminare. Sapevo soltanto che dovevo. Non potevo fermarmi. Non ci riuscivo. Non controllavo, di fatto, le mie gambe. Loro controllavano me. Ed io camminavo. Camminavo costante verso la luce. E le sagome mi passavano accanto. Senza volto. Io le guardavo e nessuna guardava me. Ma quando il buio divenne luce… c’era una porta… un uomo, col bavaglio bianco, mi osservava, dicendo: “ha ripreso conoscenza”.

mercoledì 15 settembre 2010

LA MALATTIA DELLA SAPIENZA VOL.2 - IL DOMINIO NEL GENESI BIBLICO

- di Saso Bellantone


…Continua dal volume 1.
Non è semplice auto-diagnosticarsi la malattia della sapienza né interpretare quest’ultima come una forma oscura della malattia del dominio. Per farlo, non basta conoscere, anche in linee generali, la storia dei concetti di malattia, di sapienza, di dominio. Bisogna avere una disposizione razionale ed emotiva indirizzata a una valutazione critica e imparziale – prima che esteriore, introspettiva – che consente da un lato, di scavalcare gli orizzonti e i limiti rassicuranti e dogmatici nei quali si vive (raggiungimento di un punto zero); dall’altro, di forgiare, perfezionare e verificare un metodo d’indagine capace di dare, se non delle risposte definitive e indubitabili, almeno delle prospettive capaci di evidenziare i sintomi (se non le cause) della malattia del dominio che si dà nella forma della malattia della sapienza. Se si prescinde da tale disposizione, non c’è possibilità di auto-diagnosticarsi la malattia, né di auto-prescriversi un rimedio.
Premesso questo, bisogna cominciare a chiedersi “perché la malattia della sapienza, nel suo volto oscuro, è una malattia del dominio?”. Si è anticipatamente risposto, dicendo che si tratta di una trasformazione delle antiche contese basate sulla forza fisica, in controversie basate su opinioni, idee e convincimenti, allo scopo del dominio del branco. Con quest’affermazione si asserisce che si è passati da una tipologia di forza, quella fisica, a un’altra: la forza logica (o razionale). Dunque, tutte le contese che avvengono nella dimensione della razionalità mirano al dominio del branco (umano). Quest’ultimo può significare sia un gruppo di individui (due o più), sia una comunità (un’associazione, un’azienda, uno Stato e via dicendo), sia l’insieme totale dei terrestri. Per capire in quale senso la malattia della sapienza è una forma della malattia del dominio è necessario capire che cosa s’intende con i termini malattia, sapienza, dominio. Cominciamo con il termine dominio. Per definire che cos’è il dominio, occorre muoversi su due livelli: uno religioso, uno scientifico.
Per precisare che cos’è il dominio sul livello religioso, è possibile richiamarsi al Genesi biblico, dove tale parola si ripete continuamente. Oltre che per introdurre l’argomento in questione (il dominio), la lettura delle prime pagine del Genesi può servire per evidenziare delle curiosità che di solito passano inosservate. Per esempio vi si legge: «“Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”» (Gen 1, 26-28). Ci si trova nel momento della creazione. Con la propria parola, Dio crea, cioè dispone del mondo e impone ad esso la propria volontà. La volontà divina, che si concretizza per mezzo della parola, stabilisce che il mondo abbia una configurazione e un ordine precisi e che i primi esseri umani, Adamo ed Eva, abbiano una posizione singolare rispetto agli altri esseri viventi, la quale è indicata da una qualità che gli altri esseri viventi non hanno. In altri termini, la vita umana è contrassegnata da una caratteristica che a un tempo la distingue dagli altri esseri viventi e la costituisce in quanto tale: il dominio. Dal momento che l’essere umano è una creatura “divina”, creata cioè “a immagine e somiglianza di Dio”, ci si chiede: la qualità che contraddistingue l’essere umano, il dominio, è una copia di quella di Dio? Se anche Dio possiede il dominio, l’essere umano lo possiede in modo uguale, maggiore o minore di Dio? Per il momento non interessa rispondere a tale quesito: d’altro canto, la risoluzione di questo interrogativo rinvia a una infinita voragine delle interpretazioni.
Proseguendo con la lettura, si assiste alla vicenda del cosiddetto “peccato originale”, vale a dire gli umani (Adamo ed Eva) trasgrediscono al divieto divino di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male. Per questo motivo, Dio pronuncia parole d’ira nei confronti dei trasgressori, maledice la terra e ad Eva dice: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (Gen 3, 16). Con questo passo, si comprende qualcos’altro del dominio, riguardante la distinzione tra l’uomo e la donna. Non si capisce che cosa s’intende con la parola “istinto”. Dal momento che la tipicità della vita umana (che la differenzia dalla vita degli altri esseri) è il dominio, si suppone che con il termine “istinto” si intenda proprio il dominio. In questa prospettiva, il brano significherebbe che la donna tende a dominare l’uomo (il proprio compagno) ma, alla fine, è dominata da lui. L’uomo e la donna, dunque, dominano tutti gli esseri viventi ma l’uomo domina anche la donna nel rapporto di coppia. Al di là della ridicola visione maschilistica che ne scaturisce e che va bocciata, il racconto prosegue con la preoccupazione di Dio riguardo alle conseguenze che potrebbero sorgere se gli umani dovessero cibarsi, dopo quello della conoscenza del bene e del male, anche dell’albero della vita: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!» (Gen 3, 22-23). Avendo mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, Adamo ed Eva sono diventati come Dio: se prima erano “immagini somiglianti a Dio”, adesso sono diventati “come Dio”, perché conoscono il bene e il male. Dunque, ragionando all’inverso, Dio e gli umani si somigliano (immagine) ma gli umani diventano come Dio (sostanzialmente) quando conoscono il bene e il male (sapere). Intimorito dalla possibilità che Adamo ed Eva vivano in eterno, mangiando i frutti dell’albero della vita, Dio decide di scacciarli dall’Eden e li mette a lavoro là da dove sono stati creati: la terra (che Dio maledice).
A questo punto si assiste al primo omicidio della storia del genere umano (Caino e Abele, figli di Adamo ed Eva). Caino è un agricoltore e Abele un pastore. Entrambi offrono a Dio i frutti del rispettivo lavoro ma Dio preferisce l’offerta di Abele, perché la terra da cui Caino trae i propri prodotti è stata da Lui precedentemente maledetta. A causa della preferenza dei prodotti del fratello, Caino è indignato e dispiaciuto ma Dio gli parla per confortarlo (quasi ironicamente): «Perché sei irritato e perché è dispiaciuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo» (Gen 4, 6-7). In questo brano appare il peccato ma non si sa se è da intendere nel senso di “colpa, delitto, male, trasgressione o entità astratta (o fisica)”. Similmente a quanto si afferma sopra, a proposito di Eva, si dice che il peccato tende a dominare l’essere umano ma questi deve dominarlo (nel brano si usa l’imperativo). Il brano, quindi, chiarisce un altro aspetto: gli umani non solo possiedono il dominio sugli altri esseri viventi; l’uomo non solo domina la donna, nel rapporto di coppia; esiste anche “qualcosa” (il peccato) nei confronti della quale l’essere umano non esercita il dominio con facilità ma deve sforzarsi a esercitarlo per non subirlo. L’uomo contrasta questo “qualcosa” che tende a dominarlo per non esserne dominato bensì per dominarlo. Se però l’essere umano è arrabbiato o amareggiato, questo “qualcosa” ha la meglio, cioè domina l’essere umano. Infatti, Caino conduce Abele in campagna e lo uccide. Dio allora maledice Caino, lo scaccia dalla terra che ha coltivato sino a quel momento e qui comincia l’assurdo vero e proprio.
Nel Genesi infatti si narra della creazione dei primi esseri umani, Adamo ed Eva. Quando Dio li scaccia dall’Eden, Adamo ed Eva sono soli sulla terra e non si fa menzione alcuna di altri abitanti della terra. Quando Caino uccide Abele (gli unici due figli di Adamo ed Eva) e se ne va dal suolo che ha coltivato, sulla terra dovrebbero restare Adamo, Eva e Caino. Se è così, allora come fa Caino a prendere moglie? Il racconto infatti prosegue sostenendo: «Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio» (Gen 4, 17). È vero che, alla cacciata di Caino, Adamo ed Eva generano Set e dopo Set, per ottocento anni, generano numerosi figli e figlie. Ma se Caino prende in moglie una figlia dei propri genitori (o una figlia di Set), dunque una sorella, non sarebbe un incesto? Insomma, lasciando stare questi interrogativi, il racconto va avanti elencando le discendenze di Caino e di Set (i nomi dei rispettivi discendenti, paradossalmente, si somigliano pur non trovandosi nella stessa successione temporale) e sottolineando che, moltiplicatisi gli uomini sulla terra, i “figli di Dio” (chi? Angeli? O i figli di Set) prendono in moglie le “figlie della terra” (chi? Le figlie di Caino? O le stesse figlie di Set?), dalla cui unione derivano gli eroi dell’antichità. Possibile che ci si è dimenticati di scrivere che sulla terra abitavano già altri esseri umani, prima che Dio creasse Adamo ed Eva? Dunque, alcuni umani sono stati creati da Dio mentre altri no? Oppure si è svolta più di una creazione, nello stesso tempo? Se così fosse, ha operato Dio tutte queste creazioni oppure sono opera di divinità diverse, addirittura di altre religioni? Sospendendo anche questi interrogativi, anche con Set ci si imbatte negli stessi dilemmi relativi a Caino. Il racconto biblico non dice che Set prende in moglie qualcuno bensì «Set aveva centocinque anni quando generò Enos» (Gen 5, 6). Insomma, Set è un uomo o una donna? Quando genera Enos, lo partorisce da solo (o meglio da sola)? Si sposa? E con chi, visto che ad abitare la terra sono lui, Adamo, Eva e il fratello Caino? Come già detto, si ripresenta il problema se la terra fosse già abitata oppure no da altri esseri umani, quando vengono creati Adamo ed Eva e nascono Caino e Set. In ogni caso, dalla discendenza di Set si giunge, dopo centinaia e migliaia di anni, a Noé, al diluvio e all’alleanza.
Dopo il diluvio, Dio cancella la propria maledizione scagliata contro la terra, promette di non maledirla più «perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza» (Gen 8, 21), di non punire più alcun essere vivente come ha fatto (il diluvio) e di non intervenire più, dunque, sull’ordine terrestre (sulla base di che cosa Dio sentenzia che il cuore umano è incline al male?); benedice Noé e i suoi figli e prima di stringere compiutamente l’alleanza, dice: «Chi sparge il sangue dell’uomo dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo. E voi, siate fecondi e moltiplicatevi, siate numerosi sulla terra e dominatela» (Gen 9, 6-7). Dunque, in occasione dell’alleanza, il tratto tipico che caratterizza la vita umana e la distingue da quella degli altri esseri viventi (il dominio) è esteso da Dio anche alla terra, a tutto quello cioè che la costituisce. Da Noé si giunge ad Abramo (e qui comincia un’altra storia che sarà affrontata in altra sede).
In seguito a questo lungo excursus, utile per porsi altri interrogativi, si può riassumere che, secondo la tradizione biblica, il dominio è la caratteristica basilare della vita umana, la principale tipologia di rapporto che l’essere umano instaura con gli altri esseri viventi (non umani) e il mondo. Questa modalità umana di relazione avviene anche tra l’uomo e la donna ma il rapporto è sempre unidirezionale: l’uomo domina la donna. Naturalmente, bisogna tener presente che il Genesi è stato scritto migliaia di anni fa e l’artefice (se non è Dio stesso) non poteva rendersi conto che non è sempre così e, quindi, non si può generalizzare. Molti sono i casi nei quali la donna domina l’uomo, ma non è il rapporto uomo/donna – donna/uomo il problema in tal sede considerato bensì la concezione del dominio nel Genesi biblico.
L’unico ostacolo del dominio, stando al racconto biblico appena esaminato, è costituito dalla sfera delle emozioni e degli istinti personali. Questi sentimenti, secondo il Genesi, non sorgono nella solitudine ma quando un essere umano entra in contatto con altri esseri umani e accade qualcosa. Nel racconto biblico, Caino si arrabbia e si amareggia perché Dio preferisce il dono di Abele al suo. Se tale preferenza non fosse avvenuta, Caino non avrebbe mai ucciso Abele. Dunque, i sentimenti suscitati da certi avvenimenti verificatisi in presenza d’altri o in competizione con altri (perché una sorta di gara di doni è quella che avviene tra Caino e Abele), impediscono all’essere umano di sviluppare pienamente ciò che più lo caratterizza: il dominio. Questo non influisce nel rapporto che s’instaura con il mondo o con le altre specie viventi, ma nel rapporto che si ha con se stessi, il quale può generare l’uso della violenza, della forza fisica contro altri. In questa prospettiva, si capisce come il dominio non è qualcosa che si esercita soltanto all’esterno ma anche verso l’interno. Il problema è che mentre il mondo e gli altri essere viventi sono facilmente dominabili – questo si evince dal racconto biblico (ma si potrebbe sottolineare che non è sempre così, si pensi per esempio ai terremoti e agli uragani) – la sfera delle emozioni e degli istinti non è dominabile affatto.
Che cos’è, dunque, il dominio, secondo il Genesi biblico? Il governo, il comando. È avere l’autorità, la forza, la facoltà di esercitare la propria volontà su se stessi, sul mondo, sulle altre specie. È la capacità di stabilire una legge, una regola (o più) in base alla quale devono avvenire una serie di condotte e di avvenimenti. Ma questa capacità, secondo il Genesi, proviene da Dio, il quale può disporre in modo illimitato del mondo, degli esseri viventi ma anche dell’essere umano perché, essendo il creatore di tutto, stabilisce delle leggi universali e al di sopra della volontà umana, per mezzo della parola con la quale concretizza la propria volontà. Nel Genesi, è Dio il possessore del dominio in modo completo. Il dominio di sé e del mondo si manifesta in Dio con l’azione creativa/distruttiva (ex nihilo) che si genera dalla potenza della sua stessa parola. L’essere umano, pur somigliando apparentemente e sostanzialmente a Dio, possiede il dominio in modo incompleto perché non è capace di usarlo allo stesso modo di Dio (creare/distruggere mondi dal nulla), né di esercitarlo sulle proprie emozioni e sui propri istinti, suscitati dagli avvenimenti in presenza d’altri, a causa dei quali usa violenza sugli altri (rimorso, vendetta). Per questo motivo, prima dell’alleanza, Dio dice «chi sparge il sangue dell’uomo dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo» (Gen 9, 6). Lo scopo di ogni essere umano è di riuscire a manifestare in pieno la condizione divina che ha ottenuto mangiando dell’albero della conoscenza del bene e del male: il dominio completo. La manifestazione di questa condizione corrisponde al dominio di sé, oltre che del mondo e degli altri esseri viventi non umani (e chi lo sa, portando questo ragionamento alle estreme conseguenze, forse l’essere umano riuscirà anche a creare/distruggere dal nulla, in breve a fare miracoli). Se l’essere umano non riesce a manifestare la condizione divina ottenuta all’epoca della cacciata dall’Eden, dunque non si dimostra capace di dominare se stesso (le proprie emozioni e i propri istinti causati dagli avvenimenti in presenza d’altri) e usa violenza su altri, allora pagherà il sangue d’altri con il proprio sangue, perché versare il sangue d’altri è versare il sangue di Dio, che ha fatto ogni essere umano a propria immagine e somiglianza.
Nella prospettiva biblica, il dominio è una caratteristica “divina”, una qualità che Dio ha esteso all’uomo per esercitarla sugli altri esseri non umani e che l’uomo ha assunto su di sé in modo completo quando ha mangiato il frutto dell’albero proibito, “divenendo come Dio”. La violenza su altri, lo spargimento del sangue di altri è una prassi generata dal mancato dominio di sé (e mancante) che allontana dalla propria condizione divina e trasforma l’essere umano in altro da sé e dalla propria somiglianza apparente e sostanziale con Dio. Vittima delle proprie emozioni e dei propri istinti, incapace di dominarli, dunque di controllare se stesso, l’essere umano si è moltiplicato sulla terra allontanandosi dalla propria condizione divina, usando violenza su gli altri esseri umani (sugli altri esseri non umani e sul mondo), versando il sangue d’altri. In questo modo, ha equivocato il dono divino del dominio con una prassi totalmente inversa ad esso: la violenza, da cui proviene l’idea del potere in senso politico. Ma questo rinvia al livello scientifico.

giovedì 9 settembre 2010

IL RITARDO, L'INCONTRO E LA FINE DELLA QUIETE: NIETZSCHE ACCUSATO NUOVAMENTE DI FASCISMO

- di Saso Bellantone
Non era un giorno come tanti altri. Mi trovavo alla stazione ferroviaria in attesa di un treno che mi riportasse a casa in soli venticinque minuti di viaggio, come di consueto. Ma il treno non arrivava. Quello delle 10:02 cancellato. Il successivo delle 10:45 soppresso pure. Quello delle 11:40 ritardava di mezzora ma appena fattesi le 12:10 il ritardo si era incrementato prima di cinquanta minuti, poi di altri trentacinque minuti. Fortunatamente, come si suol dire, quel giorno “mi ero svegliato col piede giusto” e attendevo pazientemente che il mio destino ferroviario si realizzasse, in compagnia del solito libro da viaggio. Per la cronaca: Moby Dick di Herman Melville. Alle 13:30, finalmente, il mio destino mi si stava per svelare. Arrivato il treno, sospesi la lettura. Salito a bordo (il treno si era svuotato del tutto), cercai il posto più vicino per accomodarmi e – non so se per volontà di un dio, di un diavolo, del caso e del fato stesso – fui attratto da un posto occupato soltanto da un quotidiano abbandonato. Si trattava del Corriere della sera di lunedì 6 settembre 2010. Lasciando Achab al momento in cui “non battezza” il suo nuovo rampone per la caccia alla Balena Bianca, cominciai a sfogliare il giornale e a leggere le notizie che più m’incuriosivano. Poco dopo il treno partì – dopo ben tre ore e mezza di attesa, dovute alle recenti alluvioni che hanno colpito il Sud – e non avevo più la possibilità di sfuggire al mio destino. Ero solo con Lui… e con il Corriere. Durante il viaggio, tra un articolo di politica, di economia e qualche annuncio pubblicitario, mi cadde l’occhio su un trafiletto intitolato Nietzsche, profeta senza enigma di Armando Torno, sormontato dalla dicitura “Lo «Zarathustra» di Sossio Giametta”. Ebbene, cari lettori, come recita un detto comune locale, “sta buono uno finché vuole un altro”. Fine della quiete: il problema è che Nietzsche non sta buono mai, manco morto, ed è costretto a rigirarsi nella tomba.
Dopo una veloce presentazione di una nuova edizione di Così parlò Zarathustra, edita dalla Bompiani, a cura dello stesso Giametta; dopo una rapida ricapitolazione del pensiero di Nietzsche, il trafiletto si conclude con le parole: “Nietzsche non fu il precursore ma il costruttore del cuore del fascismo”. Personalmente, non capisco se questa frase è una provocazione, dunque un’astuzia letteraria (al fine di pubblicizzare Giametta, la nuova edizione dello Zarathustra da lui curata o Torno) oppure se è frutto della stupidità. Almeno, vorrei capire chi ne è l’autore: se è da attribuirsi a Giametta, cioè di chi si occupa del pensiero di Nietzsche da oltre cinquant’anni, la frase in esame risulta vergognosa; se invece è da assegnarsi a Torno, beh, in questo caso, caro Torno, mi permetto di dire che l’ignoranza è una cattiva bestia, non solo per lei ma soprattutto per l’intero mondo scolatico-accademico italiano. Non sarebbe l’ora di iniziare a insegnare nelle scuole e nelle università che Nietzsche non fu il filosofo del fascismo?
A distanza di quasi settant’anni di studi critici e specialistici del pensiero e dell’intera opera nietzscheani, come si fa a ritenere tuttora Nietzsche un fascista? Perché che altro significa affermare che Nietzsche non è il precursore ma “il costruttore del cuore del fascismo” se non questo, e cioè che Nietzsche era un fascista? E poi che cosa s’intende nell’articolo usando il termine “fascismo”? Il fascismo italiano (mussoliniano)? O il nazismo (per il fatto che quest’ultimo è una forma di fascismo)? O tutti e due?
Il fascismo è un movimento politico la cui vocazione è la concretizzazione di un regime caratterialmente totalitario, i cui confini inizialmente coincidono con i limiti territoriali di uno Stato perché fungono da chiave preparatoria del suo volto imperialistico-planetario. L’indole del fascismo, infatti, è l’attuazione del dominio di un uomo solo su tutto il globo. Il fascismo prende vita in Italia nel 1919 ad opera di Mussolini e il nome deriva dal “fascio littorio”, simbolo del potere dell’antica Roma, una chiara immagine che la concezione politica cui il fascismo si ispira è quella dell’Impero Romano. Con il termine “fascismo” si è soliti definire movimenti e regimi politici analoghi al fascismo italiano, “analoghi” in quanto, direttamente e non, si sono ispirati a questo. Per ricordarne alcuni, basti pensare all’Estado Novo di Salazar in Portogallo; alla Falange spagnola di Franco in Spagna; all’Unione nazionale norvegese di Quisling in Norvegia; e, naturalmente, al Nazionalsocialismo tedesco di Hitler in Germania. Il fascismo italiano fu un movimento privo di una vera e propria ideologia fino al 1925, anno in cui Gentile scrisse il Manifesto degli intellettuali del fascismo, una prima sistematizzazione dell’ideologia fascista. Gentile si ispirò ad Hegel (passando per Spaventa) e a Marx.
Nietzsche morì fisicamente nel 1900 ma mentalmente nel 1889, quando lo colse la pazzia. Prima di queste due morti, Nietzsche viaggiò molto e soggiornò più volte in Italia. Ma il tempo in cui ciò avvenne, naturalmente, è antecedente alla sua duplice morte – si trovava a Torino quando lo colse la pazzia – ed è estremamente lontano dal tempo della nascita del fascismo. Se bisogna parlare di un “costruttore del cuore del fascismo” e se proprio non si vuole guardare all’Impero Romano (che ne è soltanto l’ispiratore), si guardi a Gentile (ispiratosi a Hegel e a Marx) e non a Nietzsche il quale, per “forza di morte” e “a causa di una evidente distanza temporale”, non era in condizioni di costruire direttamente e volontariamente il cuore di questa ideologia. Se nella frase “Nietzsche non fu il precursore ma il costruttore del cuore del fascismo”, con il termine “fascismo” s’intende non quello italiano ma quello tedesco, dunque il nazismo (nazionalsocialismo); o se s’intende sia quello italiano sia quello tedesco e si afferma “silenziosamente” che Nietzsche ha costruito indirettamente e involontariamente queste ideologie, allora le chiedo, caro Torno (o caro Giametta, nel caso in cui la frase in questione provenga da lei): è sicuro che tale affermazione corrisponda a verità? È sicuro che Nietzsche abbia costruito il cuore dell’ideologia fascista (italiana e tedesca), in modo indiretto e involontario? E se si sbagliasse? Se si provasse che non è proprio così (ed è già stato fatto, basti pensare per esempio ad Heidegger e a Penzo)? Che figura farebbe? Non sarebbe il caso di metter mano a un’errata corrige e di iniziare a pensare a Nietzsche al di là di destra e di sinistra?

sabato 4 settembre 2010

L'ARTE PERIFERICA: INTERVISTA A LUCA FRANCIOSO

- di Saso Bellantone
Chitarrista, compositore e scrittore, Luca Francioso nasce a Reggio Calabria il 19 maggio 1976 e vive a Bagnara Calabra. A 11 anni (1987) inizia a studiare chitarra classica con il maestro Giuseppe Alati, mentre a 20 anni (1996) si avvicina al Fingerstyle, perfezionandolo l’anno dopo con il chitarrista Franco Morone. Da anni ormai vive a Padova, dove alterna l’attività concertistica e didattica a un’intensa produzione musicale e letteraria.
Tra le sue opere musicali, ricordiamo: La casa di Isoke (2010), Distanze (2010), Camelia (2010), L’altra pelle (2009), La tutt’altra lontananza (2008 studio e live), Tra i sogni e il cuscino (2007), The show (2005, libro e cd), Argile (2005), Luoghi (2004), Schizzi su carta (2002), Scala cromatica per uscita di sicurezza (2000). Tra le sue opere letterarie, ricordiamo: La Chiusura (2009, pdf), Un ingannevole dubbio (2008), The show (2005, libro e cd), L’uomo era (2001, pdf), Ad un passo (2000), La retta è un cerchio che non si chiude mai (1998).

Come ti sei avvicinato alla musica?
Ci sono stati vari input. Quello che ricordo con più forza è stato l’approccio ritmico. Fin da bambino, infatti, battevo su cuscini, pentole, tavoli, per la disperazione dei miei genitori e dei vicini – cosa che sto notando accadere anche in mio figlio Simone (3 anni). In seguito tutto si è incanalato nella voglia di armonia, di melodia, di polifonia, di suono, e la chitarra ha sintetizzato in pieno entrambi gli slanci.
In seguito l’aiuto, l’incoraggiamento e il sostegno di persone come Giuseppe Alati (il mio primo maestro di chitarra) e di molti amici più grandi di me che non mi stancavo mai di guardare suonare (imparando moltissimo!) lungo la via marina di Bagnara, sono stati un grosso stimolo. È così che sono arrivato ad amare la chitarra e la musica.

Come avviene il tuo passaggio dall’amore per la musica in generale all’amore per il Fingerstyle? Che cos’è il Fingerstyle?
Il Fingerstyle è una tecnica esecutiva nata dalla necessità di portare sulla chitarra la capacità polifonica di una piccola orchestra, di suonare cioè più voci contemporaneamente. Questa tecnica è nata con i primi bluesmen americani e in seguito si è evoluta lentamente, soprattutto con molte influenze di altri generi, diventando il Fingerstyle, cioè “suonare con le dita” qualunque genere musicale.
Il mio avvicinamento al Fingerstyle è stato molto drastico e istantaneo, non c’è stata evoluzione alcuna. Dopo aver studiato chitarra classica a Bagnara con Giuseppe, ho ripreso gli studi con Maurizio Paggiaro, a Padova. È stato lui che mi ha fatto ascoltare un CD di Fingerstyle di Franco Morone e in quel momento è scattata la magia e l’innamoramento per questa tecnica. Il giorno dopo avevo già contattato Franco che, oltre a essere uno dei più grandi chitarristi di Fingerstyle sulla scena mondiale, è diventato (suo malgrado!) il mio mentore.
Così ho cominciato a scrivere e a comporre per chitarra acustica, scegliendo la strada del solista, scelta importante ma anche molto pratica: in questo modo si possono dettare i tempi della propria vita artistica come si preferisce, cosa che con un gruppo è davvero più difficile. E per il tipo di persona che sono e per come lavoro, credo sia stata la scelta più giusta.

Qual è l’essenza della musica? Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della musica sia a livello individuale sia sociale?
La musica, oggi, per lo più è una forma di intrattenimento, più o meno impegnato, più o meno profondo. In realtà lo scopo primo della musica è terapeutico, curativo. Naturalmente è allo stesso tempo uno straordinario mezzo di comunicazione, essendo espressione e linguaggio, e credo che fare musica – fare arte in genere – sia una grande responsabilità sociale, dal momento che siamo interdipendenti, esseri che palpitano e pulsano assieme.
Chi fa musica è responsabile di quel che comunica e di come lo comunica. Ciò, naturalmente, non vuol dire che non possa essere “leggera”, ma non tenendo conto di questi aspetti se ne toglie il senso sostanziale.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo si è trasformata di linguaggio in linguaggio fino a diventare, in italiano ad esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica sé stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. In relazione al modo nel quale vivi, puoi definire la tua musica “poesia”? In breve, intendi la tua musica nel senso di arte, di creazione?
Personalmente ritengo che la musica ci sia già. Esiste. L’artista non fa altro che farsi trovare pronto. Il tempismo dell’artista coincide con la sua capacità di sintonizzarsi con certe frequenze, di aprire la porta nel momento giusto. Poi, chiaramente, il passaggio, il processo di traduzione – che ognuno compie in modo diverso – rende unico il risultato. La musica è qualcosa di etereo, divino, che ci precede e che ci sopravvivrà.
Anziché di “creazione” io parlerei di “traduzione”. Certo è, d’altro canto, che chi ha la grazia e l’impudenza di darsi a questo processo – in tutte le arti – in qualche modo “crea”, perché, una volta che si traduce, si rigenera.

Oltre a essere un chitarrista e un compositore, sei anche uno scrittore. Non a caso alcune tue opere sono pensate su due livelli, musicale e letterario. In questo senso, perché scrivi? Perché senti l’esigenza di comunicare anche mediante l’arte della parola, ciò che già comunichi con la chitarra?
La bellezza. Non riesco a contenerla. Sborda, come un bicchiere pieno, e a volte mi fa male. È questo che genera la voglia di comunicare, come una sorta di liberazione. Così, spesso, la musica non mi basta.
Da un punto di vista estetico e tecnico ho scelto questi due linguaggi, la musica e la scrittura, perché sono le due arti che mi divertono e mi emozionano di più e che di più sento mie. Se un giorno dovessi smettere, per qualsiasi ragione, troverei in qualche modo un’alternativa per poter continuare a comunicare. È un’urgenza, la mia. L’artista – che non è una cosa che si “fa” ma un modo di vivere, vedere e percepire – non ha alcun filtro, nessuna dogana tra occhi e cuore e se non condivide ciò che sente e vede finisce con l’appassire.
Io compongo e scrivo quasi ogni giorno e non butto via niente, mai. Nemmeno le cose più stucchevoli, banali o monotone. Serve. Serve tutto.

In questo tuo rapporto con l’esistente, con il mondo, nel quale traduci quel che avverti attorno a te mediante queste due forme di comunicazione e di liberazione, cioè musica e scrittura, che cosa racconti?
Non c’è mai volutamente un soggetto predefinito. Esiste il gusto di raccontare – un dettaglio, un accessorio. Molto spesso mi ritrovo ad osservare ciò che viene scartato da tutti, ma che a guardarlo bene, sa donare ricchezze con straordinaria unicità. Lì si nasconde il germoglio di qualcosa che altrimenti non si potrebbe raccontare.

Alla luce di quanto hai detto, secondo te, un artista – o un traduttore, un comunicatore – che porta alla luce quei particolari dell’esistenza dei quali nella quotidianità non facciamo caso, se è privo di lettori, di ascoltatori, di pubblici, in breve se è privo di fruitori dei dettagli che racconta, un artista può sentirsi tale?
L’arte si compie quando avviene la condivisione. Se non accade diventa un esercizio stilistico o tecnico. A volte gli artisti pensano di poterne fare a meno – del pubblico, intendo. Ma questa è una grande illusione: l’emozione, il movimento e il linguaggio artistico hanno compiutezza solo con l’interazione emotiva tra chi propone e chi fruisce della proposta.
Non è necessario che ci siano tante persone, ne basta una: una testa, un cuore, un’anima, un occhio, uno sguardo, perché la condivisione si possa compiere. È una sorta di matrimonio, un miracolo: viversi vicendevolmente, donando tutto se stessi.

Nativo di Reggio Calabria, sei vissuto a Bagnara Calabra e poi ti sei trasferito a Padova, dove vivi esclusivamente della tua musica, sia dal punto di vista creativo sia dal punto di vista concertistico e didattico. Che cosa significa oggi, secondo te, vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Ognuno di noi è un tesoriere meraviglioso, uno scrigno che protegge e custodisce un dono: una sorta di post-it sul quale c’è scritto lo scopo della nostra vita, il nostro talento, quello per cui siamo stati progettati. È difficilissimo trovarlo – scelta assai saggia della vita, nasconderlo, vista la superficialità con cui viviamo. È necessaria un’accurata ricerca, tenace e cosciente.
Oggi in pochi credono di possedere un talento, anzi molti la ritengono quasi ridicola questa possibilità, così non ci pensano, causando dei danni irreparabili a loro stessi.
Vero è che nessuno ti aiuta in questa ricerca, né la scuola né la famiglia né la collettività. Invece di centellinare le forze verso il singolo obiettivo e alimentare così la diversità (grandissimo dono!) e l’unicità, si continua a perseguire questa illusione che tutti devono saper fare tutto, una cosa davvero contro natura.
Nessuno poi ci insegna a vivere, interpretare e accettare il nostro dono, una volta trovato – chi ha la grazia di riuscirci. Spesso, infatti, ci si può trovare di fronte ad un talento sconveniente per il tempo e il luogo in cui si vive.
Ad esempio, il musicista. Farlo oggi è davvero poco raccomandabile, secondo le leggi di questo mondo, puramente pragmatico e sull’orlo dello squilibrio, vittima dell’illusione di massa (forse il vero “oppio dei popoli”) dello stipendio fisso e del controllo che ne deriva. Ma in verità niente si può controllare. Citando il film “Istint”, ispirato dall’illuminante libro “Ishmael” di Daniel Quinn, al massimo si può controllare il volume dello stereo, niente di più.
Fare il musicista, scegliere il proprio dono, al giorno d’oggi è difficilissimo, perché le nostre scelte si muovono non sulla base dell’amore per quello che si sceglie, ma sulla base di quanto quello che si sceglie ci può far guadagnare. Così, quando scegli per amore, per il mondo non può funzionare. Ma io credo che se scegli per amore sarai davvero felice, se scegli per denaro la tua unica ricompensa sarà il denaro.
Quando ho scelto di fare il musicista, la preoccupazione della mia famiglia e dei miei amici non è stata capire se quella che stavo scegliendo era davvero la mia strada, quanto se la strada poteva essere fruttifera o meno, pericolosa o meno. Ma questo è assurdo: il tuo dono non può essere pericoloso per te, mai.
Io ho la presunzione di credere che se fai le cose che ami, se lo scegli ogni mattina, riceverai ciò che ti serve per vivere, né più né meno. È necessario affidarsi, però. Alla generosità della vita. A Dio, se ci credi. Se tu semini con amore finirai con il raccogliere amore: la vita prima o dopo ti ricompensa. E lo sa fare bene.

Che cosa ti spinge ogni anno a tornare per qualche giorno al Sud, in particolar modo nella tua terra natia?
Principalmente mi manca il mare. Quello della Costaviola, il “mio” mare. Sono cresciuto guardandolo: cattivo e arrabbiato, dolce e leggero e ogni volta che lo guardo per me è come tornare a casa.
Un’altra ragione che mi spinge a tornare sono i legami affettivi che ho con le persone che sopravvivono al tempo e alla distanza, considerando che sono passati ventun’anni.

Traducendo gli stralci di vita che passano inosservati dai più, in un certo senso un artista si mostra come un sognatore. Che genere di sognatore? Chi è capace di concretizzare questi sogni che vede – e che gli altri non vedono, presi dal tempo quotidiano – e di comunicarli agli altri. Attraverso la tua musica e la tua scrittura hai avuto la possibilità di realizzare tanti di questi piccoli sogni: esiste in te, però, come si suol dire, un sogno nel cassetto che ancora rincorri, che ancora desideri realizzare
Distinguerei “sogno” da “utopia”, termini e significati che abbiamo in effetti confuso. “Utopia” è qualcosa che non si realizzerà mai, “sogno” invece è una visione, è il germoglio del nostro talento. A noi ce l’hanno fatto chiudere nel cassetto, ma non c’è cosa più mortale.
I sogni sono una cosa sacra ed io il mio sogno lo sto vivendo appieno: cerco ogni giorno di essere me stesso, di ottimizzare cioè il mio potenziale.

Puoi commentare un tuo aforisma che recita: “L’atto d’amore più grande e solidale che si possa fare è essere se stessi”.
In genere si considera la solidarietà un atto di generosità verso gli altri. Io credo invece che la cosa più salvifica che si possa fare verso tutti, è essere se stessi, compiere quel che realmente si è.

Quali sono gli ultimi lavori di cui ti stai occupando? Quando usciranno?
L’11 settembre uscirà la versione cartacea del mio nuovo thriller “12 birre”, un libro che dal 19 aprile di quest’anno sta uscendo a puntate ogni lunedì sul mio sito (www.lucafrancioso.com) e sul sito della mia casa editrice e discografica, “Fingerpicking.net”, e che si chiuderà con la ventunesima puntata il 6 settembre. Il 7 novembre uscirà un nuovo CD di ninne nanne e filastrocche, dedicato a mia figlia Veronica, il naturale seguito del mio primo CD di ninne nanne e fiabe “Tra i sogni e il cuscino”, dedicato al primogenito Simone e uscito nel dicembre 2007. Il 18 dicembre uscirà un nuovo CD di inediti che tratta il tema del sogno e del talento, come puoi notare temi che mi stanno molto a cuore.
Contemporaneamente sto lavorando ad altri progetti: ad un libro didattico che dovrebbe uscire a settembre per la “Carish”, assieme all’amico e chitarrista Daniele Bazzani; a un greateast hits che dovrebbe uscire l’anno prossimo e che conterrà la musica che sento più mia, quella più vicina a quel che sono adesso; a dei singoli sperimentali di musica acustica ed elettronica per chitarra.
Inoltre ho in serbo altre idee per nuovi libri e brani, quindi c’è davvero ancora tanto da fare o, per restare nel tema dell’intervista, c’è tanto da tradurre. È la straordinaria bellezza di scegliere quel che sei. Se scegli quel che sei, non puoi che essere felice.


Pubblicato nel Costaviola Informa (periodico d’informazione della Costa Viola), Anno 1, Numero 4 (Luglio-Agosto).

venerdì 3 settembre 2010

BAGNARA: SCOPERTA LA VERA PORTA DEGLI INFERI

- di Saso Bellantone
I Greci sostenevano che l’ingresso dell’Ade fosse protetto da un cane a tre teste dal nome Cerbero. I Romani pensavano che presso i Campi Flegrei, una regione a ovest di Napoli, si trovasse la porta d’accesso agli Inferi (Avernus), per via delle esalazioni solforose che avvenivano in quella regione. Dante Alighieri scrisse che all’anticamera del mondo degli Inferi si trova la frase: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”.
Oggi, dopo studi e indagini sul campo svolti rapidamente ed esclusivamente con l’olfatto, si è dimostrato che tutti e tre si sono sbagliati. L’ingresso dell’Ade si trova a Bagnara: è protetto da uno scolo fognario che, passando sotto la via Turati, si rigetta nella spiaggia adiacente e nel mare, emanando esalazioni così puzzolenti da infestare la zona limitrofa; sulla parete accanto al varco per il regno dell’oltretomba, cioè le fogne, sta’ la scritta: “Vergogna”. L’onore della scoperta è da attribuirsi a un gruppo di Facebook dal nome “I bagnaroti che non ne possono più della fogna a cielo aperto!”.
La bagnarese porta degli Inferi pone in evidenza un problema importante: la rete fognaria. Le emissioni nauseabonde, naturalmente, sono il frutto del mix di rifiuti che, attraverso gli scarichi delle case, dei negozi commerciali e dei luoghi pubblici, finisce nelle fogne. Tali fuoriuscite sgradevoli, di per sé, non sono un problema: sarebbe assurdo pretendere di trasformarli in fragranze all’acqua di rose o di fiori d’arancio, per rendere più gradevole l’atmosfera delle zone infestate. Né sarebbero un problema se tali scarichi e olezzi fastidiosi, una volta depurati, si diffondessero nelle zone extraurbane. Tuttavia costituiscono un serio problema, dal momento che si sprigionano, oltre che presso la porta d’accesso al regno degli Inferi sottostante alla via Turati (vedi foto), anche in altre zone urbane del paese, attraverso i pozzetti.
Rendendo disgustose le atmosfere delle zone urbane colpite da tali esalazioni maleodoranti, è evidente che la loro causa, cioè la rete fognaria, costituisce un problema serio di cui bisogna occuparsi. Sia l’attuale amministrazione sia l’opposizione sono chiamati a mostrare interesse alla cosa e, al di là delle differenze partitiche, a lavorare insieme per il bene comune. Sarebbe il caso, tanto per cominciare, di nominare una squadra di tecnici ed esperti per intraprendere un’analisi specialistica dell’intera rete fognaria (qualora sia possibile svolgerla, senza mettere a soqquadro le strade) e, sulla base delle osservazioni svolte, di cominciare a improntare un piano di lavoro per una definitiva risoluzione del problema, a breve scadenza (se di un problema semplice si tratta). Se tale studio minuzioso richiede invece, per forza di cose, di metter mano al sistema fognario o se la questione in esame è più grave del previsto, allora sarebbe opportuno iniziare a stabilire una gerarchia di problemi “comuni ed essenziali” da affrontare e risolvere assieme appena “possibile”, indipendentemente dall’esito delle prossime elezioni comunali.
Gettando uno sguardo alla foto, vengono in mente, ritoccate, le parole di Dante (Canto III, 1-3): “Per me si va nella città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va…nel puzzolente!”.