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lunedì 24 gennaio 2011

IL FILM DELL'ESISTENZA: CHI CI SARA' NEI TITOLI DI CODA?

- di Saso Bellantone
Quando si pensa all'esistenza, nella sua interezza e misteriosità, e al posto dell'essere umano in essa, la mente si perde sempre in un abisso di enigmi. In un attimo si è, in un altro non si è più. In un attimo ci si ritrova catapultati in essa, in un altro svanisce tutto: pensieri, parole, emozioni, percezioni, incontri, decisioni, convinzioni, materia, spirito, sostanza, forma, essere e avere, fare e apparire, saperi, scienze, arti e invenzioni. La vita umana non è che un battito di ciglia, un'apparizione fugace e irrisoria rispetto all'incommensurabile movimento del Tutto. Lo stesso tempo umano non è che un niente in confronto a quello del cosmo. Ma quale tempo possiede il Tutto? Quanto? Come fare, inoltre, a definire il Tutto?
L'idea del Tutto è certamente una congettura indimostrabile. Per dirla con Wittgenstein, per giudicare il mondo e definirne un'immagine dettagliata, occorrerebbe trovarsi al di fuori del mondo, ma ciò è impossibile, dunque la stessa idea di mondo, di Tutto è insensata. Ciononostante, l'essere umano tende, non si sa per quale motivo, a pensare al Tutto e a porsi il problema della sua temporalità, della sua durata. Ma non è sempre stato così. Nell'antica Grecia, per esempio, non ci si poneva questo problema. Si credeva infatti che il Tutto fosse eterno e che accadesse alla maniera di una rotatoria a senso unico che ritorna continuamente sui propri passi. In questo senso, i Greci ritenevano che del/nel Tutto niente si perde, niente si aggiunge. La stessa morte, ai loro occhi, non è che un cambiamento di stato e tutti i defunti, un giorno, ritorneranno a vivere, ripercorrendo la vita allo stesso modo di quella precedente per tutta l'eternità. La concezione greca dell'eternità del Tutto è molto simile a quella induista (che precede la grecità) ma è priva, per esempio, dei concetti di trasmigrazione delle anime e di karma. Con l'avvento del cristianesimo, che nasce in seno all'ebraismo per opera dell'apostolo Paolo, si comincia a parlare di durata del mondo (Tutto). Il mondo perde il carattere d'eternità e inizia a essere considerato alla maniera di un rettilineo unidirezionale che ha un inizio (creazione) e una fine ultima (parousia). In questo movimento a senso unico, tutte gli enti, compreso l'essere umano, tendono a un punto finale che coincide, religiosamente, con il Giorno del Giudizio. In questo luogo, il Messia che torna nel mondo per la seconda volta deciderà chi è condannato alla morte definitiva e chi, invece, è destinato a ricevere la salvezza: una nuova vita. La morte, allo stesso modo della vita terrena, non è che un momento d'attesa per il Giudizio finale. Ma è soltanto nella vita che l'essere umano può giocare le sue carte per conquistare la salvezza. Nella prospettiva ebraico-cristiana, il Tutto possiede un tempo soltanto, quello cronologico che conduce al punto finale. Ma al suo interno, esiste anche il tempo cristiano – per l'esattezza, messianico – che scandisce la fede e la speranza nel Messia e nel disegno provvidenziale di Dio, e l'amore tra i Suoi figli. Soltanto questo tempo è importante per il cristiano: la durata di quello cronologico, malgrado sia incalcolabile, è irrilevante perché la posta in gioco è la salvezza, la nuova vita che si guadagna nel tempo cristiano.
Portando alle estreme conseguenze la concezione ebraico-cristiana del mondo, la scienza moderna propone una visione secolarizzata dell'universo (Tutto), intendendolo alla maniera di un ammasso di enti ora organizzato ora no, che da un punto iniziale (Big-Bang) procede inevitabilmente e cronologicamente a un punto conclusivo: la fine del mondo. Oltre al carattere d'eternità, in questo caso scompare anche l'elemento salvifico celato nel tempo cronologico, introdotto dalla parentesi ebraico-cristiana. Svanisce, insomma, l'idea di un Dio che disegna, organizza e produce il mondo per i propri scopi. Liberandosi dell'idea di Dio, la scienza moderna tenta d'investigare il movimento dell'universo per comprenderne la durata, ma ciò comporta l'interrogazione dei momenti iniziale e conclusivo dell'universo, un'indagine utile anche per capire cosa c'era prima e cosa ci sarà dopo. Tuttavia, potendo svolgere soltanto congetture indimostrabili, preferisce proporre che prima dell'universo e che dopo di esso vi è soltanto il niente. La morte, la scomparsa di un ente nel lasso di tempo che separa inizio e fine, è già la fine ultima, un tornare cioè nel niente divenendo niente stesso. Stesso dicasi per la vita: è l'unica e sola vita che quell'ente, compreso l'essere umano, possiede prima di diventare niente.
Pensare all'esistenza secondo una simile prospettiva, così come avviene per molti oggigiorno, è enigmatico e inquietante. Per capire dove si trova e rispondere alla sue domande fondamentali, l'essere umano osserva l'universo inventando sempre nuove tecnologie. Ma quanto più osserva il cosmo tanto più si rende conto che un'osservazione definitiva dell'intero universo è un compito infinito. Per questo motivo, pur continuando a svolgere quest'indagine, non riesce a scorgere il significato dell'esistenza (Tutto) né quello della vita umana e si sente vagare nel vuoto o in un sogno. Quando si giunge a considerarla in questo modo, l'esistenza comincia a somigliare, coincidendovi in modo sconvolgente, a un film di proporzioni titaniche. Ci sono gli attori, i paesaggi, le musiche, gli effetti speciali, le tecnologie, c'è tutto quello che si ritrova in un film. Soltanto un ostacolo paralizza la mente umana: i titoli di coda, i quali narrano tutte le informazioni relative al film. L'essere umano è sicuro che alla fine del film cinematografico ci sono i titoli di coda ma non sa se lo stesso vale per la fine del film dell'esistenza. Per questo motivo, forse, si pone il problema della durata del tempo del Tutto, della fine del tempo e di ciò che ci sarà dopo. Egli si pone questi interrogativi, chiedendosi metaforicamente se ci saranno i titoli di coda del titanico e tragico film dell'esistenza, intitolato il Tutto che diviene Niente, e se sarà citato. Ma si domanda anche se sarà menzionato il regista, se ce n'è uno. Ma intanto è condannato a recitare la sua parte, pensando malinconicamente che non c'è né ci sarà alcuno spettatore pronto ad applaudirlo o a fischiarlo. Ma anche questo interrogativo, resta un mistero per ora impenetrabile.

sabato 15 gennaio 2011

FAHRENHEIT 451 di Ray Bradbury

- di Saso Bellantone
Futuro. Un totalitarismo apparentemente democratico. Una società nella quale il bene e il male assoluti sono rappresentati dalla tv e dai libri. I vigili del fuoco costituiscono l’unico corpo di polizia. Anziché spegnere gli incendi, li accendono quando qualcuno è accusato di commettere il male: possedere dei libri. Diversamente dalla tv, i libri sono pericolosi perché impediscono la realizzazione e il mantenimento di una società pacifica, equilibrata e votata esclusivamente al lavoro. Per questo motivo, vanno bruciati, vanno consumati con il fuoco. Chi si macchia della colpa di avere anche un solo libro, va giustiziato immediatamente perché è un ribelle, una minaccia per la società. Potrebbe coinvolgere altri a infrangere la legge, a trasgredire l’unico divieto che la tv, subliminalmente, diffonde: non si deve pensare.
Immaginando una società del genere, nel suo Fahrenheit 451 (Mondatori 1978), il visionario Ray Bradbury si cala in profondità nella nostra società e tenta di farci capire fino a che punto il silenzio del pensiero, che la tv rinvigorisce in ognuno di noi con il proprio continuo chiacchierio, è capace di dominarci. Ciò succede fino a quando non avvengono quegli incontri inaspettati che, ridestando le emozioni come eruzioni vulcaniche incontrollabili, ci spingono a prendere consapevolezza che c’è qualcosa che manca nella monotona e tranquilla quotidianità nella quale viviamo. Così accade al pompiere Guy Montag, appartenente alla Caserma del fuoco Fahrenheit 451, quando incontra la signorina Clarisse McClennan. A partire da questo incontro, Montag comincia una cammino di risveglio di sé e di ribellione, in cerca di ciò che manca nella propria vita, pensando che la risposta sia proprio nei libri: «“Abbiamo tutto quanto occorre per essere felici, ma non siamo felici. Manca qualche cosa. Mi sono guardato intorno. La sola cosa che abbia visto mancare positivamente sono i libri che io avevo bruciato in questi ultimi dieci o venti anni. E allora ho pensato che i libri forse avrebbero potuto essere utili”» (p. 88).
Ma non si può capire da soli cos’è che manca, c’è sempre bisogno di altri che ci aiutino gratuitamente, come Faber, nella nostra ricerca: «“Non sono i libri che vi mancano, ma alcune delle cose che un tempo erano nei libri. Le stesse cose che potrebbero essere diffuse e proiettate da radio e televisori. Ma ciò non avviene. No, no, non sono affatto libri le cose che andate cercando. Prendetele dove ancora potete trovarle, in vecchi dischi, in vecchi film, e nei vecchi amici; cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stesso. I libri erano soltanto una specie di veicolo, di ricettacolo in cui riponevamo tutte le cose che temevamo di poter dimenticare. Non c’è nulla di magico, nei libri; la magia sta solo in ciò che essi dicono, nel modo in cui hanno cucito le pezze dell’Universo per mettere insieme così un mantello di cui rivestirci”» (ibidem). In fondo, secondo Bradbury, sono tre le cose che ci mancano, quando cominciamo noi stessi questa ricerca nella società attuale: la vita nella sua complessità, il tempo libero per pensare e il «“diritto di agire in base a ciò che apprendiamo dall’influenza che le prime due possono esercitare su di noi”» (p. 90). E quando si comincia ad agire, non si torna più indietro.

mercoledì 12 gennaio 2011

Pensieri visivi: LA SOFFERENZA E L'INDIFFERENZA e L'INGORDA di Mimmo Fadani

- di Saso Bellantone
Una figura piegata su se stessa, la testa china quasi fino a terra, coperta interamente da un lungo velo nero. È in disparte, là dove le mura di un’abitazione s’incontrano con le piastrelle di un marciapiede. La mano è aperta vicino a una ciotola vuota: chiede l’elemosina. Vicino a lei, una carta appallottolata e una cicca di sigaretta.
Prima di essere un dipinto, La sofferenza e l’indifferenza è una visione, un incontro. Ma è tale soltanto per chi vede, non per chi è cieco. Mimmo Fadani immortala con la sua arte questa visione, questo incontro imprevisto per evidenziare qual è il dualismo dominante la società contemporanea, nel buio della morte di Dio, per mostrare che cosa non riusciamo a vedere: il dolore del singolo e la cecità della massa. L’opera s’intitola La sofferenza e l’indifferenza perché narra la nostra era mediante due soggetti – da un lato, la figura raccolta in se stessa e la ciotola vuota; dall’altro lato, il marciapiede, la cicca e la carta appallottolata – i quali rappresentano la frattura tra chi è umano e chi non lo è più. I due soggetti raffigurano due tempi: il tempo della sofferenza e il tempo dell’indifferenza.
Il tempo dell’indifferenza è quello dominante la società e la massa. Si vive in un’epoca buia, priva di valori e di verità assolute, nella quale, per sopravvivere, bisogna lasciarsi padroneggiare dalle logiche dell’attivismo, dal consumismo e dalla mercificazione degli enti, di tutto. Folgorati da questa illusoria luce, si diviene paradossalmente ottenebrati, accecati; si perde la propria umanità e si resta ingabbiati nella tela di ragno di una società incentrata sulla tecnica, sul lavoro, sul denaro, sulla fama, sul potere. Ognuno si standardizza, diventa liquido, uniforme, indifferenziato. Smarrita la propria personalità, ci si trasforma in un numero, in un pezzo della grande catena di montaggio del mondo globalizzato, sostituibile con tutti gli altri pezzi. Si è condannati a correre follemente, solitari, freddi e dissennati contro le lancette di un orologio fittizio che scandisce il tempo della propria perdizione. Non si conoscono limiti né confini né soste né frenate: come esseri liquefatti, estranei a se stessi, ci si perde in balia dei flutti di una società corrotta, perversa, distruttiva che non vede nient’altro né altri fuorché se stessa e la propria irrefrenabile e cieca ricerca di altra tecnica, altro lavoro, altro denaro, altra fama, altro potere.
L’essere umano contemporaneo è insomma un robot, dotato di un’immensa capacità di calcolo nella quale, come dentro un labirinto, ha perso la propria coscienza. Per questo motivo, di fatti, egli non è più umano: è un non-umano, chi cioè ha smarrito se stesso nell’illusione della società globale nella quale, pur sopravvivendo, non vive più. Il non-umano è la tipologia di vita o, meglio, di non-vita che domina la nostra era. Pur avendo gli occhi, il non-umano non vede: è cieco. Non vede la bellezza dei paesaggi, delle arti, dell’architettura, né quella della natura, del Creatore, dell’universo, né quella degli altri esseri, viventi e non, compresa quella dei propri simili. Non si accorge della presenza d’altri né di quella degli altri ancora, che scivolano silenziosi, come ombre, attorno alla confusa corrente di automi, proprio come la figura nel dipinto. Incapace di diagnosticare la propria cecità, il non-umano non ha visioni né incontri. La sua non-vita avviene là dove prima c’era la vita, come per esempio su di un marciapiede. Oggi, però, il marciapiede è uno dei simboli della non-vita che fluisce come un fiume impazzito e automatico per l’intero macchinario globale. È lo spazio della folla, del fluire continuo di esseri veloci, che consumano, che mercificano tutto, che si uniformano, liquefacendosi, perdendosi nello sfrenato desiderio di lavoro, di ricchezza, di fama, di potere che regge il grande meccanismo globale. È qui che, assurdamente, ognuno perde se stesso e diviene cieco, pensando alla propria sopravvivenza: è qui che la vita si trasforma in una non-vita e che si estinguono le antiche visioni, gli antichi incontri e avvengono, invece, le non-visioni, i non-incontri. Il marciapiede, insomma, è l’habitat artificiale di chi, da umano, diviene non-umano.
Malgrado ciò, il marciapiede continua a essere per pochissimi il teatro di visioni e di incontri. Alle rive di questo canale artificiale, cieco e frenetico, si posano ancora taciturne alcune figure misteriose come quella nel dipinto. Non ha pretese né voce. Si apparta in riva al fiume artefatto, senza disturbare la folle corsa ma anche per evitare di esserne travolta, a causa della propria debolezza. Posa innanzi a sé un contenitore, una ciotola, si accascia su se stessa e, muta come la morte, spera in un colpo d’occhio che non avviene mai. La ciotola, però, che simboleggia una silenziosa richiesta d’aiuto lanciata ai passanti, resta vuota. Non è il denaro che questa figura misteriosa chiede: una moneta è soltanto il mezzo per ottenere qualcos’altro di cui ha bisogno, forse, nemmeno per se stessa. Di che cosa avrà bisogno la figura nel dipinto? Perché non parla? Perché nasconde il proprio volto? Perché si copre interamente di quell’abito nero? Chi, si nasconde dietro quell’abito nero? Forse un uomo? O una donna? Oppure una fanciulla? E se fosse un ragazzo? Chi, e perché, si raccoglie in questo modo, si fa il più piccolo possibile, quasi fino a schiacciarsi, quasi fino a sparire? Che cosa spinge la figura a un tale raccoglimento? Quale dramma sottrae alla vista? Quale sofferenza immane non vuole che gli altri vedano?
Forse la figura ha soltanto bisogno del tempo di qualcun altro ma questo tempo non arriva mai perché i passanti non sono più umani: sono ciechi e non si accorgono della presenza né della sofferenza di questa figura. Non si fermano, non la aiutano, non se ne curano, non le danno alcuna moneta. Non hanno tempo per lei perché non ne hanno per loro stessi. Passano veloci come fulmini, indifferenti a tutto e a tutti. Sono timorosi dell’orologio che scandisce la loro schiavitù alla non-vita del macchinario globale e sono concentrati soltanto sulla tecnica, sul lavoro, sul denaro, sul potere, su se stessi. Non si accorgono nemmeno di aver gettato in terra, vicino alla figura, una cicca e una carta appallottolata. Ormai, non fanno caso a nulla fuorché al diabolico meccanismo globale che li ha privati di sé, della vita, della loro stessa umanità. Calcolano, dalla mattina alla sera, ma non pensano più niente perché non vedono più ciò che merita di esser visto, come la figura vestita di nero del dipinto, accasciata in disparte sul marciapiede. A causa di questa cecità generale, la ciotola resta vuota e la figura resta sola con il proprio dolore, sola nel tempo della propria sofferenza. Mentre il tempo dei passanti scorre veloce e indifferente portandosi via quel che resta di ogni umanità (la sigaretta ormai non è che un mozzicone), il tempo di chi è solo e immobile con la propria sofferenza (la figura vestita di nero), invece, sembra non passare mai (la ciotola vuota) per chi ancora conserva in sé qualcosa di umano che nessuno vede più: il bisogno d’altri.

Una figura inginocchiata, coperta interamente da un lungo velo nero. È all’angolo di una via, in disparte, tra le mura di un’abitazione e le piastrelle di un marciapiede. Sembra stare in allerta, quasi a controllare il vuoto bicchiere di plastica posto innanzi a lei. Le piastrelle del marciapiede formano dei percorsi intricati somiglianti a dei canali sui quali sembra scorrere dell’acqua. Il marciapiede e i canali si perdono dietro l’angolo, dove s’intravede un cielo dai colori insoliti. L’ingorda è la trasfigurazione mistica de La sofferenza e l’indifferenza e ci narra metaforicamente, invece, della vita e della morte.
Che cos’è la vita? È un cammino che si svolge attraverso percorsi complicati e differenti ma che tutti porta, obbligatoriamente, alla medesima meta: la morte. L’essere umano vive nell’illusione del libero arbitrio e crede di poter scegliere il proprio destino. Per tutta la vita si trova di fronte ad alcuni bivi e deve decidere per quale strada proseguire il proprio viaggio. Illuso di aver tale facoltà di scelta, prende una strada anziché un’altra e non si rende conto che, qualunque strada intraprenda, il suo percorso è già segnato per grandi linee, sorvegliato dalla Nera Mietitrice.
La vita umana è simile a un rigagnolo d’acqua. Così come quest’ultimo, innanzi alle dighe naturali, cambia percorso ora da un lato ora dall’altro ma alla fine arriva al mare, allo stesso modo avviene per la vita umana. Viaggiando per itinerari diversi a causa degli ostacoli di percorso, alla fine si giunge innanzi alla morte. La vorace Dama Nera vigila la vita di ognuno e ha il compito di prenderla nel momento esatto in cui il destino ha stabilito. L’essere umano non sa l’ora di questo momento né il luogo: potrebbe incontrare l’Ingorda a qualsiasi ora, in qualsiasi angolo del proprio cammino e potrebbe perfino non riconoscerla. La Nera Mietitrice ci attende infatti sulla via, come una figura completamente coperta, celata alla nostra vista, inginocchiata in cerca di un’elemosina. Ma quando noi ci fermiamo per mettere qualche spicciolo nel suo recipiente, Lei ci salta addosso, ci afferra e si porta via la nostra anima. Diversamente dal viaggio del rigagnolo d’acqua che si ferma nel mare dove si perde, il viaggio dell’essere umano non si conclude con l’Ingorda: procede al di là dell’angolo, oltre Lei, là dove la strada continua ma non si sa verso quale luogo conduca.
Non è un caso che le opere esaminate si somiglino e siano nate nel medesimo periodo. La sofferenza e l’indifferenza e L’ingorda sono strettamente connesse. Con queste due opere, infatti, Mimmo Fadani da un lato, invita l’osservatore a prendere consapevolezza del momento storico nel quale vive e a riflettere su se stesso; dall’altro, evidenzia che non è possibile porsi il problema dell’indifferenza della società globale e della massa nei confronti della sofferenza del singolo individuo senza porsi i problemi del senso della vita, dell’inevitabilità della morte e di quale al di là ci attende, se esiste. Le opere esaminate dimostrano che Mimmo Fadani è non soltanto un attento osservatore della società e della specie umana, ma anche la voce pittorica di cui il mondo e l’essere umano hanno bisogno, per ritrovare ognuno la propria essenza e la propria coscienza innanzi alle domande fondamentali.*

* Le opere di Mimmo Fadani possono essere ammirate presso la Pinacoteca Fadaniana sita in piazza del Popolo 8, a Bagnara Calabra (RC). Per ulteriori informazioni telefonare al numero: (0966 371796).

martedì 4 gennaio 2011

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Benedetto Demaio

- di Saso Bellantone
Benedetto Demaio nasce a Bagnara Calabra il 20 giugno 1978. Nel luglio del 2001 consegue il diploma in pittura presso l’Accademia delle Belle Arti di Reggio Calabria. Da quel momento inizia la sua carriera artistica come pittore, grafico e scenografo che lo vedrà partecipare a svariati concorsi e mostre di pittura, realizzando inoltre numerosi dipinti e affreschi su commissione privata e pubblica. Dal 2001 al 2004 prende parte al progetto “Centro Polivalente” di Bagnara Calabra insegnando pittura, scenografia e decorazione e promuovendo numerose iniziative artistiche in ambito comunale e provinciale. Nel 2004 realizza il logo e la campagna pubblicitaria del “Gourmet del Mare” progetto varato dall'Associazione Nazionale Città del Pesce di Mare e svoltosi a Bagnara Calabra. Nell’estate del 2004 cura la regia, i testi e la produzione dei video e della grafica del musical “Themes: Il cinema ad occhi chiusi” interpretato dalla cantante Viviana Ullo, in un tour che tocca diversi comuni calabresi. Nel 2005 progetta la scenografia per lo spettacolo teatrale “Il cuore a Sud”, scritto e diretto da Lello Naso, con la partecipazione di Sergio Cammariere ed altri artisti di origine calabrese. Nel 2007 realizza la copertina del disco “Cipuda e Pani” del cantautore Nino Forestieri, curando anche la scenografia del tour e la grafica promozionale. Nel 2009 realizza insieme alla scrittrice Simona Barè Neighbors il libro di fiabe “Le Fatine Dispetose”, edito da Edigiò nel 2010, illustrando le storie e la copertina. Attualmente vive a Milano.

Come ti sei avvicinato alla pittura?
Quando da bambino mi chiedevano: “Cosa vuoi fare da grande?”, io rispondevo senza neanche pensarci troppo: ”Da grande voglio fare il pittore”. Non so di preciso se è una passione innata, ma so che la pittura nella mia vita esiste già dai primi ricordi che conserva la mia memoria. Ho sempre disegnato, anno dopo anno, dall’infanzia fino ad oggi, scuola dopo scuola; le miei mani sono sempre sporche di colore. A tre anni i miei genitori mi sorpresero in piazza mentre “mangiavo” della vernice direttamente da un barattolo! Che sia nato tutto in quel momento?

Che cos’è la pittura?
Per me è istinto. Dipingere è un gesto che non riesco a frenare, è un pensiero inconscio e continuo. La pittura è il mio modo di vedere il mondo, di viverlo ed esprimerlo. La mia quotidianità è un foglio bianco dove scorrono immagini vive e reali che io seguo nella mente. Solo pochi fotogrammi si fissano tra tela e vernice, il mio stato d’animo sceglie quali.

Qual è l’essenza della pittura?
Incantare un pensiero, un’idea, un sogno. La pittura è una tappa intermedia del viaggio che compiono i miei pensieri prima di arrivare alla libertà. Dipingo per fissare un’emozione e riviverla scoprendola nuova, diversa da quando è nata, come se la stessi provando nel momento in cui la rileggo vestita di colori. La pittura è colore. Non c’è pittura senza colori. Che siano accesi, tenui, sporchi o puri, i colori scandiscono il ritmo dei dipinti, creano l’armonia e le dissonanze, fanno vibrare le immagini e ne definiscono il tono e l’intensità. Il dialogo tra me e i colori è pittura.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della pittura, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Nel corso dei secoli la pittura ha assunto accezioni differenti e spesso opposte. Alcuni pittori creavano dipinti come istantanee di usi e costumi della società dei loro tempi, altri invece esprimevano la propria religione in dipinti pregni di devozione e fede, altri ancora addirittura ne facevano manifesto programmatico di movimenti politici. L’invenzione della fotografia ha segnato una svolta sostanziale per l’arte figurativa. Dopo l’avvento della macchina fotografica la figura del pittore ha perso l’abitudine di interpretare la realtà per concentrarsi sull’analisi e la rappresentazione del proprio mondo interiore; non dipingeva quasi più ciò che provava guardando fuori dalla finestra ma ciò che sentiva leggendo le proprie emozioni. Così si sono alternati generi, stili e tecniche, e sperimentazione dopo sperimentazione la pittura è arrivata ai giorni nostri come un mezzo di comunicazione personale, un linguaggio artistico che spazia dalla mera rappresentazione decorativa di segni e motivi alla più profonda figurazione del proprio io, passando per la provocazione palese o sottesa fino ad arrivare alla sterile commercializzazione. Oggi la pittura non ha uno scopo unico né una tendenza o uno stile, si muove liberamente come uno strumento per parlare a se stessi e agli altri, vive come espressione dell’anima e dei sentimenti quanto come manifestazione grafica di una società che si muove tra evoluzioni tecnologiche e involuzioni sociali.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo si è trasformata di linguaggio in linguaggio fino a diventare, in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire i tuoi dipinti “poesie”, opere d’arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Quando dipingo o disegno trasferisco su una superficie immacolata ciò che la mia mente e il mio cuore percepiscono di un evento, di una situazione, di un sogno, di una sensazione. Questo semplice passaggio è un piccolo viaggio durante il quale riscopro me stesso e mi racconto una storia che mi ricorda chi sono e cosa voglio. Dipingo e mi sento vivo, cresco, mi trasformo e mi emoziono. Non so se questa possa essere definita poesia ma non mi dispiacerebbe se attraverso gli occhi di chi osserva i miei dipinti, i miei schizzi e i miei disegni, passassero tutte quelle minuscole emozioni che mi fanno vibrare l’anima; sarebbe proprio bello se ognuno riuscisse a intraprendere quello stesso piccolo viaggio raccontandosi una storia, sempre diversa per indole e umore, ma comunque emozionante.

Perché dipingi? Perché senti l’esigenza di comunicare mediante l’arte della pittura?
Non posso e non riesco a fare a meno di dipingere. È un gesto naturale che spesso neanche controllo. Chiedermi perché lo faccio è come chiedermi perché cammino! È un’azione totalmente spontanea, non è un’esigenza ma un’espressione innata. È come lasciare un’impronta: se ho davanti uno spazio bianco il mio istinto mi spinge a riempirlo di colori e segni. Mi muovo guidato dal mio stato d’animo, l’umore incide e trasforma il mio gesto pittorico a volte in momento ludico, altre in puro sfogo, altre ancora in conversazione intima e privata. Dipingo perché è la mia lingua madre, perché mi serve a crescere ed evolvere e mi fa stare bene.

Che cosa racconti nei tuoi dipinti?
Incastrato tra le linee e i colori dei miei dipinti c’è sempre un pensiero solo mio, personale e tanto intimo da essere volutamente celato con cura. Mi piace l’idea di racchiudere un segreto o semplicemente una parte di me dentro i miei disegni. Mi piace rileggermi nelle mie illustrazioni e riscoprire chi ero. E mi piace pensare che chi osserva le mie tavole trovi qualcosa di mio e lo interpreti facendolo proprio. Forse è un modo un po’ contorto per farsi conoscere nel profondo o forse al contrario è la scelta per rimanere sempre un misterioso sconosciuto… in ogni modo rimane comunque una storia tutta da scoprire.

Un artista può sentirsi tale senza i pubblici
Il confronto e la condivisione sono indispensabili nell’arte. Dipingere per me è felicità e la felicità è reale solo se è condivisa. Io comincio a raccontare le mie emozioni, le mie storie e i miei segreti appena traccio il primo segno sul foglio e la storia continua tratto dopo tratto, pennellata su pennellata, percorrendo tutta la strada della mia creatività e concludendo fin dove arriva la fantasia di chi osserva il dipinto. Se non si posassero altri occhi su ciò che ho creato sarebbe un racconto solo mio, una storia muta, un viaggio solitario: non avrei la possibilità di condividere le sensazioni che provo e confrontarmi con gli altri. L’arte è creare e ogni cosa creata cresce, si evolve, si trasforma, vive se diventa pensiero o ricordo comune.

Che cosa significa oggi vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Fare arte è una missione bellissima e difficile. Se da un lato ti appaga con il suo carico di emozioni, dall’altro troppo spesso non paga le spese materiali di tutti i giorni. Vivere d’arte, oggi, è un’utopia, una bella utopia, forse è meglio dire un sogno, per me che sono un inguaribile ottimista. L’arte non ti paga l’affitto e neanche tutto il resto, a meno che non si riesca ad arrivare in cima a quell’olimpo di privilegiati che possono permettersi il lusso di vivere esclusivamente delle proprie opere, senza scendere a compromessi né cedendo ai condizionamenti del mercato pagante. È raro, ma non impossibile, un sogno appunto. Ma come diceva Walt Disney: “Se puoi sognarlo puoi farlo”, allora perché non provarci?

Che cosa ti spinge ogni anno a tornare alla tua terra natia?
Il senso di appartenenza. La mia famiglia mi appartiene e io appartengo a loro qualunque sia il luogo che mi ospita. Vivo lontano dal paese che m’ha visto nascere e crescere ma soprattutto lontano dai miei genitori e i miei fratelli; sento il bisogno, l’esigenza, la necessità di ritrovarli e abbracciarli oltre quel ponte di comunicazioni telefoniche che ci tengono uniti a distanza per troppo tempo durante l’anno. Ritrovare la mia casa e le mie abitudini familiari è sempre come rinascere.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Mi nutro di sogni e i sogni mi nutrono. Vivo la mia vita sempre sospeso tra quello che faccio e quello che sogno di fare. Il legame tra realtà e onirico è spesso così sottile da farmi perdere la percezione effettiva delle cose e degli eventi. Nonostante questo tengo i piedi ben saldati a terra e riesco a vivere tutto con praticità e concretezza. In questo sono contraddittorio: sogno per esorcizzare le difficoltà della vita e supero gli imprevisti per non smettere di sognare. Forse il mio sogno più grande è proprio quello di continuare a sognare sempre.

Qual è l’ultimo lavoro di cui ti stai occupando?
Nell’attesa che vengano pubblicati gli altri due volumi del progetto “Le Fatine Dispettose” (Edigiò), sto illustrando altri brevi racconti scritti dalla scrittrice Simona Barè Neighbors, che saranno raccolti in un unico volume cha ha come filo conduttore l’amicizia. Inoltre sto realizzando un calendario illustrato che racconta una piccola favola sul passaggio delle stagioni mese dopo mese. E per non smettere di sognare sto preparando le illustrazioni per due importanti concorsi di illustrazione internazionale. Incrociamo le dita…

Alcune parole per i giovani.
La stranezza della società odierna impone troppo spesso modelli negativi che vincono e trascinano folle nonostante siano palesemente sbagliati e portino a cattive conseguenze. Portare avanti onesti propositi, valori semplici e genuini, idee buone e lavorare con impegno, fatica e devozione, sembra ormai una marcia controcorrente quando dovrebbe essere la normalità. C’è tanto di bello in ognuno di noi che potrebbe venir fuori se si smettesse di inseguire povere mete e facili successi. Il potere dei sogni dovrebbe spingerci a realizzarli con calma e tenacia e non con fretta e pressappochismo. Bisognerebbe cominciare a guardare e a portare avanti il lato buono e positivo delle cose e smettere di vedere solo quello che non funziona perdendosi in sterili lamentele. Studiate, sognate, create e siate semplicemente positivi.

LE FATINE DISPETTOSE

- di Saso Bellantone
Che cosa può fare un genitore quando occorre fare le pulizie di casa ma ci sono di mezzo i bambini? E quando questi la mettono a soqquadro e bisogna riordinarla? Come deve comportarsi un padre o una madre quando i bambini sono ammalati e non vogliono bere una buona tazza di latte caldo con il miele, utile per rimettersi in salute? E quando hanno perso un oggetto e si lagnano in continuazione finché non lo trovano? Quale atteggiamento deve assumere un educatore quando due bambini bisticciano per avere ragione su qualcosa che hanno appena imparato e non vogliono darla per vinta all’altro? Per tutte queste domande c’è un’unica risposta: basta ricorrere alla fantasia.
Le fatine dispettose (Edigiò 2010), il primo dei tre volumi di favole scritti da Simona Baré Neighbors e illustrato da Benedetto Demaio, dimostra che la fantasia può riuscire laddove i rimproveri, le punizioni e l’uso delle “mani” falliscono. L’opera si compone di cinque favole, ognuna delle quali, oltre che rispondere alle domande sopra elencate, racconta l’esperienza fatta dall’autrice Simona Baré Neighbors con i propri figli. In questa prospettiva, Le fatine dispettose non è soltanto un libro di favole utile per l’educazione dei bambini ma anche una proposta formativa per gli adulti, specie per i genitori del nostro tempo.
L’attivismo moderno ha prodotto infatti un profondo cambiamento della vita, che ha smaterializzato da ogni sfera della società gli antichi valori (amore, amicizia, famiglia, giustizia, lealtà, fiducia ecc.). Tale svanimento ha favorito la comparsa e l’impennata tuttora vertiginosa di una tipologia di vita eternamente proiettata all’egoistica conquista del potere, della ricchezza, della popolarità, del piacere, che alimenta ogni giorno una generale spersonalizzazione, omologazione e mercificazione del mondo. Si vive, insomma, come innumerevoli corridori, ognuno sulla propria corsia della pista per la gara di salto agli ostacoli, e si è totalmente privi di rapporti con l’altro perché si è omologati a un’esistenza fredda e robotizzata, cronometrata dall’esclusivo valore della merce e del profitto. In questo scenario, l’essere umano moderno è sempre triste, solo, annoiato, disperato, arrabbiato, violento, dissoluto, brutale nella propria automatica apatia e follia, e il più delle volte si sgrava di tutto ciò riversandolo sui bambini, futuri custodi della sorte della società e della specie umana assieme a tutte le altre specie viventi (e non) della Terra.
Le fatine dispettose offre agli adulti la possibilità di intraprendere un esperimento, ossia di guardare a se stessi, alla società, al pianeta, alla vita in generale e ai problemi della quotidianità con altri occhi: quelli dei bambini. È un modo per spezzare il tempo omogeneo e vuoto della quotidianità moderna e per distrarsi da sé, ponendo al centro della propria attenzione i bambini, che sono il fulcro della vitalità del futuro e il motore del cambiamento; una maniera per cominciare a vivere diversamente dall’attivismo sfrenato e individualistico della modernità (sopra descritto) mediante la fantasia. È una forma per imparare nuovamente gli antichi valori (e i nuovi) passando il tempo con i bambini; per educare, educandosi; per sorridere, facendo sorridere con le parole e le immagini che introducono nel mondo delle fate di Baré Neighbors e Demaio. E una volta entrati in questo mondo, ci si accorge che le fate non sono altro che i bambini stessi e, forse, in alcuni casi, anche gli adulti, i quali necessitano di un po’ di fantasia per riscoprire i principi di una umile, sincera e costruttiva umana convivenza.