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giovedì 23 dicembre 2010

ADDIO ALLA LIBERA E AUTONOMA UNIVERSITA'

- di Saso Bellantone
Gli articoli 9 e 33 della Costituzione recitano rispettivamente che la Repubblica Italiana «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» e che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento […]. Le istituzioni di alta cultura, università e accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». In breve le arti, le scienze, i saperi non soltanto sono liberi ma il loro sviluppo è sostenuto dalla Repubblica. Almeno, prima dell’approvazione del DDL Gelmini era così. L’approvazione del disegno di legge, ormai della legge Gelmini sull’Università (161 i sì, 68 i no, 6 gli astenuti) dimostra che al Parlamento (per essere più precisi, alla maggioranza) non interessa rispettare quanto si afferma nella Costituzione né la volontà dei giovani studiosi.
I padri fondatori e firmatari della Costituzione della Repubblica, nonché i partigiani, i morti e i dimenticati, si rivoltano nella tomba come indemoniati. La legge Gelmini infatti stabilisce l’inaugurazione di un lento processo di manipolazione delle Università, allo scopo di togliere ai saperi, alle arti, alle scienze la linfa che occorre loro per essere se stesse: la libertà.
È svanito il tempo in cui un piccolo gruppo di studiosi, maestri e librai decisero di creare un luogo dove insegnare a tutti e studiare liberamente, per opporsi ai poteri temporale e papale mediante il libero sapere, la libera espressione e circolazione delle idee, della ricerca, dell’arte, della scienza, della cultura, in una parola del pensiero. Oggi, quel momento decisivo per la libera e civile formazione di milioni e milioni di coscienze future, svanisce in un baleno, con un semplice “sì”, cancellando oltre ottocento anni di storia. Da oggi, le arti, le scienze, i saperi, la ricerca, la cultura, il pensiero – questa è l’Università – non sono più liberi. Sono terre di confine delimitate dal filo spinato della politica da un lato e da quello dei capitalisti dall’altro lato (perché la legge Gelmini ne getta le basi)
L’ingresso di privati nel CdA (e anche altrove) dei singoli Atenei (termine che riecheggia il luogo d’origine di tutte le forme di pensiero, di scienza, di arte, di sapere occidentali), trasforma il mondo universitario in una grande azienda in cui vige la logica della fabbrica, della produzione cioè di beni “prezzabili e vendibili”; del pari in bilancio, qualora non si riesca ad essere in attivo; del lavoro. Tali privati potranno svolgere un ruolo determinante per direzionare tutta la produzione della grande macchina accademica verso obiettivi, soluzioni e progetti utili per le aziende che rappresentano.
Con la giustificazione di sedare l’orrenda epidemia del baronaggio e degli sprechi (e questo punto, così come alcune proposte di riorganizzazione amministrativa degli Atenei sono condivisibili), la legge Gelmini taglia i fondi agli studenti (ma anche ai ricercatori e ai dipartimenti), introducendo artificiosi “premi di produzione” gestiti su scala nazionale dal Ministero e finanziati “anche” da privati. Secondo criteri ancora oggi oscuri, (che saranno introdotti successivamente, come specifica il testo della legge in esame), gli studenti eccellenti e meritevoli avranno la possibilità di partecipare ad alcune prove nazionali standard per ottenere alcuni “bottini da cantiere” tratti da un “fondo speciale”, tra i quali, oltre ai premi di studio totalmente a fondo perduto (chissà chi li vincerà), buoni di studio e prestiti d’onore (chissà chi vincerà pure questi) di cui una parte è da restituire nel tempo durante la carriera lavorativa post-universitaria (chi avrà la fortuna di lavorare).
La legge Gelmini introduce un altro antipasto: la possibilità per le “fabbriche universitarie” più in difficoltà di “fondersi o federarsi” allo scopo di risolvere problemi di natura economica, amministrativa e dell’insegnamento;inoltre, istituisce un fondo triennale a rotazione per il riequilibrio economico degli Atenei (che esclude logicamente a priori quegli atenei che si fondono o si federano). In tale contesto, si propone ai dipendenti (qualsiasi sia la loro mansione) di segnalare al Ministero se si è disponibili oppure no a un possibile trasferimento futuro di sede e, qualora le liste di disponibilità relative non corrispondono alle aspettative del Ministero, quest’ultimo avoca a sé il potere di trasferire forzatamente chi preferisce.
Gli studenti perdono le borse per il diritto allo studio e, in questo modo, perdono la propria umanità, trasformandosi in macchine da lavoro che riecheggiano vecchi campi da lavoro. Il loro operato, secondo le direttive stabilite “anche” dai privati (LEP), consente loro di ottenere l’ambito premio, la sopravvivenza, oggi trasformata in un fatto di quattrini.
I professori perdono da un lato la possibilità di accedere alle cattedre secondo i criteri e le modalità di valutazione un tempo riconosciuti ai singoli dipartimenti delle specifiche Università, dunque di mettere al più presto al servizio dei giovani e della comunità scientifica le proprie ricerche individuali; dall’altro lato, sono costretti a pagare per altri quattro anni per vedersi riconosciuto il diritto di partecipare ai concorsi abilitanti nazionali, i quali attribuiscono le cattedre ai più meritevoli (chissà chi vincerà anche tali concorsi).
I ricercatori perdono la possibilità di continuare nel tempo le proprie ricerche scorgendo a una distanza annuale che va, a seconda dei casi e degli assegni, dai 6 ai 10 anni dall’inaugurazione delle ricerche stesse, la porta d’uscita con su scritto “grazie e arrivederci”.
Si offre la possibilità, a quegli esperti di una specifica disciplina, di “guadagnarsi” una cattedra sulla base delle proprie doti oratorie, vale a dire di una “lezione orale” tenuta in presenza dei fantasmi, dei sedie vuote e di alcuni funzionari chiamati a decidere chi promuovere e chi bocciare tra tali esperti nell’arte oratoria (ma anche in questo caso, i criteri saranno stabiliti poi).
Si obbliga i professori, per esempio, a svolgere ogni tre anni un rendiconto scritto della propria attività, da inviare direttamente al Ministero mediante “letterina”, considerando il docente la persona adatta per svolgere tale bilancio, anziché istituire funzionari, organi o commissioni che si occupino di questo compito.
Si istituisce la leggendaria commissione paritetica composta da docenti-ricercatori-studenti, allo scopo di monitorare, verificare, revisionare e perfezionare lo studio delle singole discipline, sulla base del giudizio degli studenti che, in quanto tali, “sono già ultra-esperti della disciplina che hanno appena incominciato a studiare”.
Insomma (come si legge testo della legge, continueremo in altra occasione), è l’inizio della fine non soltanto delle Università ma del buon senso e del raziocinio. Perché con questa manomissione, con questo intrufolamento del Ministero (sia chiaro, previsto dall’art. 33 della Costituzione malgrado sia abusato con tale legge) muoiono il sapere, le arti, le scienze, in una parola la speranza che le nuove generazioni, i nascituri e i posteri ripongono già nella cultura tutta, rappresentata dalle Università.
Adesso, si studierà entro i confini che politici, capitalisti ed ecclesiastici stabiliranno, allo scopo di controllare meglio le masse, impedire loro di pensare liberamente, qualunque sia la disciplina di cui si occupano, e incarcerarli nella triste logica del produrre capitali, quattrini, spiccioli – tale è ormai considerata la cultura, un prodotto per fare quattrini.
Se questo è lo scenario che si profila, al quale il Parlamento si è detto favorevole, allora non basta più che gli studenti e gli studiosi protestino. Si è di fronte a un trivio: lasciare che la libera cultura (tutta) esali l’ultimo respiro; fare sopravvivere la cultura al di fuori delle terre di confine “aziendaccademiche”; oppure scegliere di “ribellarsi democraticamente e legalmente” a tale legge. Ossia: fare della libera cultura (tutta), simbolizzata dalla libera Università, una forza politica. Dal momento che i partiti e i loro leader non rispecchiano la volontà giovanile, e l’approvazione del DDL Gelmini ne è l’ennesima prova, forse bisogna cominciare a impiegare le stesse armi dei partiti, parlare il linguaggio della politica, giungere al Parlamento (ma anche altrove) con libere e democratiche elezioni per difendere, così come recita la Costituzione, non soltanto il diritto allo studio ma le risorse principali a partire dalle quali immaginare un futuro: i saperi, le arti, le scienze, il pensiero, sinonimi di libertà. La difesa della cultura (tutta), forse, ricomincia da questo compito.

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