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sabato 27 agosto 2011

Mastru Cicciu, Micu 'u Palazzu e 'u carrittu

- di Saso Bellantone
C’era una volta, in un paesino sperduto nel Sud Italia, di nome Granaba, un uomo anziano conosciuto da tutti come Mastru Cicciu. Viveva da solo, non si era mai sposato né aveva figli. Ogni giorno, amava sedersi innanzi alla sua casetta diroccata e comporre i cesti, di ogni grandezza e forma. Mentre lavorava, era solito soffermarsi a chiacchierare con gli abitanti del paese, che passavano regolarmente a trovarlo, per parlare di qualsiasi argomento. A parte comprare qualche cesto, la gente amava passare un po’ di tempo con lui. Mastru Cicciu era infatti una persona pacifica, dotata di grande esperienza e saggezza. Ma la qualità che la gente più apprezzava di lui, era il sorriso... continua a leggere

venerdì 26 agosto 2011

GNOSIS: intervista a Tito Puntillo

- di Saso Bellantone
Ricercatore e storico Bagnarese, Tito Puntillo (Bagnara 1944), trascorre l’infanzia e i suoi primi studi a Bagnara Calabra, per poi prestare servizio militare come sottotenente fra Bolzano e Sequals in Friuli. Dopo aver lavorato con l’ingegnere Musella e col ragioniere Marchese, grazie alle conoscenze in seno all’Associazione Nazionale Artiglieri d’Italia, torna a Bolzano ove trova un lavoro come operaio carrellista alla Lancia Veicoli Industriali. Trasferitosi l’anno dopo a Torino, sempre in Lancia, percorre la trafila amministrativa per poi approdare alla Direzione Commerciale della Fiat/Mercato Italia. Negli stessi anni, frequenta come studente-lavoratore dei corsi serali presso l’Università di Torino, studiando con docenti quali Bobbio, Firpo, Ricuperati, Ettore Passerin, Galante Garrone, Zagrebelsky, Massimo L. Salvadori e altri, laureandosi prima in Scienze Politiche con indirizzo Storico-Economico e poi in Lettere, sempre a indirizzo Storico. Specializzatosi nel tempo in Analisi del Bilancio ed Economia d’Impresa, tiene corsi serali in un Istituto Superiore di Organizzazione, dove nel sabato, tra l’altro, svolge seminari specifici per gli studenti del Politecnico. Nei momenti liberi, spostandosi in lungo e in largo per l’Italia, tra biblioteche, emeroteche, librerie e bancarelle di mercatini antiquari, raccoglie una vasta documentazione sulla Calabria e su Bagnara, intorno alle quali concentra il suo lavoro di ricerca storica. Tutte le sue pubblicazioni, come per esempio Cronache Bagnaresi, 5 Saggi su Bagnara, Il caso Bagnara, sono rinvenibili gratuitamente nel Web presso l’Archivio Storico Fotografico Bagnarese, altre nel blog Ragioni e Opinioni. Assieme alla ricerca storica, Puntillo ha pubblicato alcuni articoli su Economia d’Impresa e Analisi del Bilancio, per alcune riviste tecniche della Franco Angeli edizioni e altri per il periodico bagnarese l’Obiettivo. Attualmente, vive a Torino.

Come nasce la tua passione per la storia?
È un sentimento che per me è stato naturale. Da ragazzino leggevo i libri di storia come se fossero romanzi, e accompagnavo la lettura con una fantasia galoppante, immaginando le scene nel loro svolgersi, i personaggi implicati e i risultati di azioni e metodi di comportamento. In questo senso, la prima lettura che mi aprì questi scenari, fu il Compendio Storico (3 voll.) di Giorgio Spini. Il mio entusiasmo si scatenò poi definitivamente ascoltando le lezioni sull’Odissea e l’Iliade che il Maestro Leonardis teneva agli studenti più grandi, durante le ore di doposcuola. Ulisse fu la mia prima passione, Ettore il mio eroe insieme ad Aiace Telamonio. Col tempo, mi sono sempre più concentrato sulla Storia Moderna e la bellezza del Settecento. Ho studiato intensamente quanto più possibile sull’Imperatore Bonaparte, i suoi Marescialli (soprattutto Andrea Massena duca di Rivoli), le grandi battaglie, le innovazioni politiche e sociali che in pratica furono la risultante ultima della Rivoluzione Francese e dei suoi grandi dibattiti: dagli esponenti della Montagna ai Giacobini e gli Arrabbiati (in Italia abbiamo avuto Vincenzo Russo).

Che cos'è la storia?
Personalmente resto fermo a due principi: la Metodologia della Ricerca Storica e la Storia come Pensiero e come Azione. La prima definizione si dà per il comportamento che lo storico deve assumere durante la ricerca, per cui i fatti devono essere asseverati e si enunciano “fino a prova contraria”, che è (semplifico) principio fondamentale di tutta la Scienza oltreché di vera e palpitante democrazia. La seconda si dà perché la Storia non è terreno sterile, ha un fine sociale, soprattutto nella formazione delle coscienze. Io sono un salveminiano convinto e dunque per me la storia, anche alla luce di quanto appena detto, è lo svolgersi della condizione dell’uomo nel tempo, identificata dai fatti che egli stesso produce, veri e quindi giustificati, interconnessi gli uni con gli altri fino a formare una sequenza logica (perché spiegabile nella sua relazione continua causa-effetto). Poi vi sono «scuole» filosofiche e scientifiche diverse che qui sarebbe impossibile enunciare, ma nella sostanza ritengo che i due principi siano calzanti per comprendere la sostanza della storia e il suo significato. Proprio per quanto cennato, la Storia differisce di molto dalla Cronaca. La Cronaca è la mera elencazione di fatti, talvolta esposti in senso cronologico, per lo più concentrati su una realtà assolutamente topica e quindi priva di contenuto sociale. Io ritengo, per esempio, che la Storia di Bagnara di Cardone e quella del Gioffré, siano in realtà delle Cronache peraltro concentrate su un aspetto della variegata società bagnarese e cioè quello religioso. Certamente non il determinante. Insomma vale per la differenza fra Storia e Cronaca quella fra Giornalismo e Cronaca. Dove Giornalismo è l’analisi del fatto una volta ricercate le cause e spiegate le conseguenze. Mentre la Cronaca resta la narrazione del fatto, asetticamente esposto. A Bagnara abbiamo avuto esempi significativi in tal senso.

Chi è lo storico?
Lo storico è il ricercatore che scrive di storia applicando un metodo di ricerca, rubricazione e spiegazione dei fatti così come si verificarono ed evitando di interpretarli in chiave attualizzata. Anche qui non è possibile esporre il comportamento degli storici delle varie epoche, da quella Classica a tutto il Rinascimento e soprattutto l’Età Moderna. Posso solo affermare che per me il punto di riferimento fu senz’altro il saggio di Pietro Giannone Della Istoria Civile del Regno di Napoli, che vide la luce nel 1723 e aprì in Italia la discussione sulle Istituzioni Politiche, il loro ruolo nella Società, la giustificazione del loro essere ed operare per gli interessi collettivi e l’efficacia delle azioni stesse. Fu anche l’inizio della Scuola Giuridica e dell’idea delle “Nazioni” sviluppata da Giambattista Vico (Principi di una Scienza Nuova, metodo poi ripreso da Vincenzo Cuoco: Saggio Storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799, col quale contrappose la coscienza di essere singoli nella comunità, al razionalismo di principio e per questo astratto, inconcludente). Così anche Machiavelli sulla “fortuna” delle Nazioni, verso la quale molto scrisse efficacemente Montesquieu. Si potrebbe scrivere molto altro, passando dal Materialismo Storico marxiano (coi dirompenti lavori su Il Capitale e Il colpo di stato del 18 Brumaio) al “primato” della Società sulla Politica, così come dimostrato dall’osservazione storica, e cavallo di battaglia di Auguste Comte.

Quali fonti è possibile definire “storiche”?
Si dice che un fatto fu vero perché storicamente determinato. “È un fatto storico”, cioè certo. Io adopero metodologicamente diverse fonti: gli atti notarili che si trovano in genere negli Archivi di Stato (per la mia attività: Napoli, Torino e Reggio), i documenti diplomatici, le serie di leggi e regolamenti applicativi, le relazioni ufficiali sui fatti di guerra (sono importanti i documenti pubblicati dallo Stato Maggiore dopo aver studiato le grandi battaglie), le memorie e i diari, le storie coeve, il pensiero politico, sociologico ed economico anch’esso coevo. In questo ultimo caso mi attengo scrupolosamente a un dettato scientifico che ritengo fondamentale: prima leggere la produzione del pensatore che mi interessa, in modo da formarmi un’idea di prima mano sulle sue posizioni, e solo dopo esaminare la storiografia sul personaggio. È errore grave comportarsi al contrario. Mettere assieme le varie tessere, è poi compito specifico dello storico, come cennato. Ma sono importanti (e qualche volta determinanti) anche le osservazioni sugli usi e le consuetudini, la spiritualità e i riti connessi, il folklore e i proverbi. Lombardi Satriani in questo senso è stato un maestro e in questi ultimi tempi si sono moltiplicate in Calabria le pubblicazioni su questi temi.

Con quale metodo, o metodi, è possibile fare storia?
La ricerca delle cause che producono un effetto, in una catenaria continua, cercando di assiemare condizioni sociali, economiche, politiche del tempo che si studia, applicandole allo spazio osservato. L’esempio calzante resta ancora oggi il lavoro di Tocqueville, che dimostrò come la causa della Rivoluzione Francese fu la precedente riorganizzazione amministrativa dello Stato, con la centralizzazione della Burocrazia. Si determinò così la nuova idea di “Stato” unitario entro il quale si sviluppò l’uguaglianza giuridica e procedurale-burocratica (poi rafforzata con la celeberrima La democrazia in America). Fu il primo innesco per il formarsi dell’idea rivoluzionaria. Proprio per questo ad esempio, se è inutile associare Bagnara con, diciamo, Lodi nel ‘700, perché diverse furono le condizioni geografiche entro le quali si svilupparono i due contesti sociali, è un errore grave esporre la Storia di Bagnara senza farla interagire con le comunità circostanti, omettendo così di evidenziare pregi e difetti di una area economica o potenzialmente tale. Questo perché Bagnara non visse da sola, ma insieme alle comunità vicine ed è proprio lo sviluppo di questo rapporto che determinò la fortuna e la decadenza di Bagnara, così come di Seminara, Scilla, Palmi, Oppido ecc. Perché? Come mai? Cingari, Borzomatri, Valente, Placanica, il nostro indimenticato Marzotti, Guarna Logoteta, eccetera, sono stati dei veri maestri in tal senso.

Quale metodo preferisci impiegare per le tue ricerche?
Il mio modello di riferimento resta quello che si può riscontrare in Le siècle de Louis XIV di Voltaire, che uscì nel 1751 e che si pose come innovazione nella storia delle istituzioni di uno Stato, inteso finalmente nella sua complessa interezza. Secondo me è da queste posizioni fondanti, che si svilupperà la dialettica della storia di Hegel, con l’evoluzione conflittuale delle idee. Non più la Provvidenza a reggere le sorti dell’Umanità, ma la stessa Umanità nel suo essere “immanente”.

Quale utilità ricava il singolo essere umano dalla storia?
La consapevolezza nell’uomo dell’essere nel presente per come si è, sapendo così discernere il bene dal male ed operare per il proprio miglioramento spirituale oltreché materiale, cercando di comprendere appieno la Società che lo circonda.

Quale invece una civiltà?
Io distinguo “Civiltà” da “Progresso”. La Civiltà è il modo di essere e pensare in collettivo di una vasta comunità. Ove essere e pensare si basano su un patrimonio che conservando le radici nel passato, si rinnova e adegua alle condizioni del presente, ma sempre e comunque sulla scia di un patrimonio morale, spirituale, artistico, intellettuale, sociale, costruiti nei secoli. Il progresso è invece lo sviluppo tecnologico della società e non sempre le due categorie viaggiano in parallelo purtroppo!

Nell'era della globalizzazione, le civiltà terrestri possono fare a meno della storia?
Per me è una classica nemesi storica. Oggi la globalizzazione pare voler divorare tutti i particolari a vantaggio dell’universale. In primis abbiamo la comunicazione nazionale che oscura quella locale e quindi i dialetti che prima si trasformano e poi scompaiono del tutto, e successivamente la lingua italiana sempre più corrotta da inglesismi, francesismi e tecnicismi vari, e quindi il soggiacere degli interessi nazionali agli interessi neo-imperialistici determinati dalla globalizzazione. Sarà il desiderio di recupero di spazi territoriali, l’elemento correttivo di questo processo, nel senso che avremo alla fine una sintonia fra micro realtà e macro processi economici. Con questa logica, il «senso della Storia» carissimo all’Omodeo, avrà una funzione determinante.

Dalla scuola all'università, come faresti studiare la storia?
I bambini hanno bisogno di acquisire sensibilità, di emozionarsi e quindi entusiasmarsi. L’ideale è dunque raccontare loro i fatti della microstoria, in modo che loro possano toccare con mano i reperti del passato e farlo rivivere nella loro fantasia attraverso la narrazione storica. Una vecchia chiesa, vecchie alabarde e spade, un diploma antico, una strada lastricata con ancora vecchie botteghe, i nomi degli eroi incisi sulle lapidi dei monumenti, una statua, un ostensorio ecc. Col passare del tempo e l’affinamento dell’intuizione e del senso critico, la narrazione storica si allargherà ai fatti determinanti della realtà sempre locale: cosa fu la Calabria – che ruolo ebbe in quei fatti specifici nazionali – perché adesso non è più così nel senso di spiegare cosa è accaduto, ecc. Nel ragazzo che invece si avvicina alla vita sociale attiva, lo sviluppo della Storia si dipana in orizzonti più larghi, sempre più larghi ma che saranno recepiti magnificamente se il bambino avrà avuta la possibilità di emozionarsi ed entusiasmarsi a reperti a lui vicini, rivissuti nella sua fantasia scatenata.

Che vuol dire vivere come uno storico? Di quali responsabilità occorre farsi carico?
La storia è per me scienza, è da considerarsi come una branca della scienza e quindi lo storico si sottomette alla rigida disciplina della metodologia della ricerca scientifica. Non credo vi sia molto altro da aggiungere se non rimandare, per tutti, alla Logica della scoperta scientifica di Popper.

Alcune parole per i giovani.
Non abbiate paura di formarvi una coscienza su come siamo e invece potremmo essere. La nostra è una realtà sociale difficilissima perché dominata dai poteri forti che sono variegati, taluni prevaricanti, altri violenti a causa di una Ndrangheta attiva, vigile, indisponibile a lasciare un minimo spazio al dialogo fra le persone. Tutto questo ha prodotto alla fine una società civile chiusa, incapace di riflettere e discutere dialetticamente. E come la nostra Bagnara, è così la Calabria. Ma quello che in questa fase è importante, è formarsi una coscienza individuale, autoconvincendosi che essa è condivisa e quindi può divenire coscienza collettiva. Sarà allora che il popolo calabrese comprenderà appieno quali siano le enormi possibilità della Calabria, la sua gente, la sua Civiltà. Avrà pienamente coscienza di cosa significhi essere una Società Aperta e quali sono realmente i suoi nemici.

mercoledì 24 agosto 2011

Bagnara: L'AMURI, la poesia, la musica

- di Saso Bellantone
Si è svolta sabato 20 agosto, presso la Villa Comunale di Bagnara Calabra, la serata poetico musicale intitolata “L’AMURI”, organizzata dal circolo “Unione”, in collaborazione con l’IRC (Insieme per riaprire la città) e l’Associazione “Capo Marturano”, con il patrocinio del Comune di Bagnara Calabra. I numerosi presenti hanno passato alcune ore in compagnia dei versi vernacolari dei poeti Rocco Nassi e Franco Zumbo, Pino Sergi, Mimmo Fadani, Gian Domenico Gatto e tanti altri, intramezzati dai musicisti Adele La Face e Bruno Bagalà, i quali hanno proposto alcuni dei brani dei rispettivi album, “L’amuri” e “Oasi”.
Durante la serata, si è cantato l’amore per una terra, la Calabria, la cui antica bellezza resta celata agli occhi di chi si lascia travolgere dai tempi bui e nefasti nei quali viviamo, caratterizzati da crisi economica, mancanza di lavoro, disperazione per il futuro. I poeti e gli artisti intervenuti si sono fatti cantori di questo amore che, anziché render ciechi, consente di riconoscere le risorse, le potenzialità, la speranza ancora insite in questa terra, che non tutti i suoi abitanti sanno valorizzare e incentivare. Una terra che, invece di esalare l’ultimo respiro, tramite i poeti e i musicisti emette un nuovo sospiro fatto di versi e di spartiti, di dialetto e di note. Un sospiro rivolto ai giovani nel corpo e nell’animo, desiderosi ancora di trasformare con il loro amore la crisalide Calabria, in una farfalla che vola bella e leggera in un nuovo domani.



lunedì 22 agosto 2011

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Giuseppe Pietropaolo, regista della "Compagnia teatrale Argos"


- di Saso Bellantone
Originario di Bagnara Calabra, Giuseppe Pietropaolo è il regista della Compagnia teatrale A.R.G.O.S. (Associazione Ragazzi e Giovani Orientati al Sociale), con la quale a partire dal 1999 svolge numerose iniziative rivolte al sociale e mette in scena diversi spettacoli tra la Calabria e la Sicilia, tra i quali: U’ cortili ra paci (Eduardo De Filippo), Fiat voluntas dei (Giuseppe Macrì), L’area del Continente (Nino Martoglio), Non ti pago (Eduardo De Filippo), U’ figghiu masculu (Pippo Scammacca), San Giovanni decullatu (Nino Martoglio), L’amico del cuore (Vincenzo Salemme), Smalirittu u’ telefoninu (Rocco Chinnici), Pe’ virtù ru spiritu santu (Rocco Chinnici). Dal 2005 Pietropaolo e l’Argos organizzano a Bagnara la “Rassegna Teatrale Porellese”, un evento teatrale dedicato alle compagnie teatrali del Sud, e negli anni successivi la sua compagnia ottiene i primi riconoscimenti. Nel 2009, durante la “Rassegna teatrale Deliese”, l’attore dell’Argos Enzo Carbone riceve il “Premio miglior attore”. Nel 2011, durante l’ “8° Rassegna di Teatro popolare” svoltasi a Caraffa del Bianco, l’Argos riceve il “Premio miglior gruppo”, con la motivazione “Per la varietà di interpreti, che hanno animato una vicenda scenica di forte coinvolgimento attuato con una combinazione opportuna di linguaggi e buon livello attoriale”.

Come Nasce la compagnia teatrale Argos?
La compagnia teatrale nasce nel 1999 da un gruppo di giovani frequentanti la medesima parrocchia, Santa Maria degli Angeli, che ha sempre amato il teatro. Il nome Argos (Associazione Ragazzi e Giovani Orientati al Sociale) la dice tutta sulle nostre intenzioni. Il nostro scopo era quello di organizzare più iniziative possibili, tutte, però, orientate al sociale. Così ci siamo mossi in questi anni. Per esempio, abbiamo creato la “Sagra dello Zibibbo”, il “Natale nel borgo”, una “Raccolta fondi per le vittime dello tzunami del 2004”, ma soprattutto la “Compagnia Teatrale”, con la quale abbiamo svolto numerosi spettacoli. Da due anni curiamo anche la “Compagnia Teatrale Bambini”, nella quale partecipano i bambini dalla quarta elementare alla seconda media, e per i quali, ogni anno, organizziamo uno spettacolo tutto loro. Quest’anno abbiamo anche collaborato con la cooperativa Girasole, con la quale in giugno abbiamo creato e messo in scena uno spettacolo dove hanno recitato anche i ragazzi diversamente abili. Da alcuni anni svolgiamo la “rassegna teatrale porellese”, nella quale partecipano compagnie teatrali esterne, provenienti da Salerno, dalla Sicilia, dalla provincia di Reggio o di Cosenza, e alla quale partecipano anche i bambini. Da 4-5 anni siamo entrati in circuito teatrale regionale e interregionali affidandoci alla UILT (Unione Italiana Libero Teatro), con la quale organizziamo la nostra “Rassegna” e partecipiamo alle altre, facendo questi scambi culturali. Due anni fa abbiamo preso il primo premio come “miglior attore protagonista” a Delianova (Rassegna teatrale deliese), conferito a Enzo Carbone, mentre pochi giorni fa a Caraffa del Bianco abbiamo preso il “premio miglior gruppo”. Quest’ultima è stata una bellissima soddisfazione, tenendo presente che noi prepariamo ogni commedia a partire dal 7 gennaio, la sera, per consentire a tutti di lavorare e di curare i propri figli.

Che cos’è il teatro?
Credo che il teatro presenti e rappresenti le scene di vita vissuta. Nel nostro caso sicuramente sono molto marchiate per far ridere la gente, però se ci si sofferma bene ci si accorge che sono fatti che avvengono realmente. Noi rappresentiamo commedie brillanti per far ridere la gente, ma nello stesso tempo cerchiamo di lanciare un messaggio. In Smarilittu u’ telefoninu ci riferiamo al nostro paese, al passeggio, alle macchine, alle battutine: questo serve per far riflettere le persone. Nella comicità cerchiamo di lanciare messaggi. Questo per quanto riguarda il teatro, inteso a spettacolo finito. Per noi, il teatro è anche momento di unione. Ci vediamo tutto l’anno, ogni settimana, sia con i bambini sia con i grandi. Quindi il teatro è unione, momento d’incontro, di socializzazione. Guardando a questa esperienza che ho vissuto con alcuni ragazzi che conosco da tempo, posso affermare che con il teatro difficilmente i ragazzi prendono delle strade sbagliate. Per questo motivo, credo che si dovrebbero creare tante occasioni simili alla nostra: il teatro è una forma di salvezza. L’Argos è un punto di riferimento per molti giovani ma il merito è anche del parroco che ci ha dato a disposizione i locali della parrocchia per svolgere queste iniziative. È uno spazio aperto a tutti. L’ultima serata della Rassegna chiedo sempre se c’è qualcuno che vuole unirsi a noi. Per esempio negli ultimi anni alcune mamme di famiglia, vedendo le precedenti commedie, hanno deciso di entrare a far parte dell’Argos non soltanto per le commedie, ma perché ci hanno visto come un gruppo unito, solido. E questo la dice lunga sul tempo che stiamo vivendo. Il teatro dà la possibilità di combattere la solitudine: sia quella di ognuno degli appartenenti alla compagnia teatrale, sia quella degli spettatori quando ci esibiamo le nostre commedie e facciamo compagnia alla gente. Quando facciamo la rassegna, incontriamo persone che non escono mai di casa eppure il teatro ha il potere di farle uscire fuori e farle stare con gli altri. Il teatro, insomma, è una forma di unione, lotta contro la solitudine.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi del teatro, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Come ho appena detto, il teatro è principalmente unione, compagnia. Inoltre, nel corso di questi anni, ci siamo accorti che la gente vuole ridere, che non vuole opere pesanti. Forse è il periodo della crisi economica, dei problemi che ognuno di noi deve affrontare: ma la gente in quelle due ore vuole staccarsi dal mondo e ridere. E noi, per il momento, siamo felici di accontentarli. In quelle ore cerchiamo di fargli dimenticare tutti i problemi. Il teatro è un immenso veicolo di sorriso. L’unità, la compagnia non avrebbero senso senza la gioia del sorriso. È dal sorriso che nasce il piacere di stare assieme agli altri e noi miriamo a questo con le nostre commedie e, a quanto pare, sembra che ci riusciamo. Ma non ci sentiamo mai arrivati, anzi finito lo spettacolo riporto i miei ragazzi con i piedi per terra e li faccio pensare al prossimo spettacolo o alla prossima commedia. Quando abbiamo ricevuto il “ Premio miglior gruppo” mi trovato a casa, per motivi di lavoro. In tarda notte, i ragazzi mi hanno telefonato entusiasti dicendomi che siamo stati premiati. Questo mi ha fatto piacere, sia chiaro, ma ho inteso il premio come una crescita del gruppo. L’Argos è una famiglia, una comunità: si passa molto tempo assieme e spesso si cerca di risolvere i problemi extra-teatrali di ognuno, assieme. Questo è lo scopo del teatro. Quando ci esibiamo, noi stiamo anche assieme al pubblico. I nostri ragazzi spesso e volentieri si rivolgono al pubblico, per non farlo sentire distaccato rispetto alla commedia. Il teatro è anche questo coinvolgimento. Uno dei nostri scopi è anche quello di fare pensare, di prendersi alla leggera, ma ciò dipende dal pubblico. Viviamo in una società troppo “seria”, caotica, nervosa, ed è necessario tornare a prendersi meno sul serio, tornare a sorridere e ad affrontare le cose con più serenità. Le Rassegne sono un’altra forma per stare assieme non soltanto tra di noi o con il pubblico, bensì noi assieme agli altri gruppi teatrali. Servono per conoscersi, scambiarsi le idee, per sorridere assieme. Non partecipiamo alle gare esclusivamente per vincere, ma per il piacere di conoscere altra gente, altri gruppi come il nostro. Ogni premio che riceviamo, alla fine, parla della nostra unità. Questo è il premio che preferisco.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire le commedie dell’Argos delle opere d'arte, delle creazioni nel senso pieno del termine?
Credo che una sola persona non può stabilire quando si trova innanzi a un’opera d’arte e quando no. Il parametro di misura, nel caso del teatro, è il pubblico, le sue risate, i suoi applausi. I copioni non li scriviamo noi. Noi li modifichiamo e tentiamo di calare le commedie nel nostro tempo, nel nostro dialetto e nelle nostre tradizioni. Le personalizziamo. Quindi in un certo senso le ricreiamo. Ma non sta a me giudicare se tutto quello che facciamo è arte vera e propria oppure no. Dovremmo chiederlo al pubblico. Se sorride e ci applaude, allora vuol dire che siamo sulla buona strada.

Perché recitate? Perché sentite l’esigenza di comunicare mediante l’arte della teatro?
Oltre che per i motivi che ho detto prima, perché il teatro è una preparazione continua ed è molto impegnativo. Il teatro fa sociale, ci unisce, ovviamente perché ne siamo tutti appassionati. Spesso il pubblico pensa che il teatro sia soltanto lo spettacolo ma non è così. Ci sono le prove. Mentre durante lo spettacolo si assiste alla commedia pienamente realizzata, durante le prove non si è sempre perfetti. Si sbaglia ed occorre ripetere centinaia di volte la stessa frase, la stessa scena. Durante le prove ci si confronta su come svolgere le scene, sulle movenze, i toni della voce eccetera. Personalmente, amo confrontarmi con i miei ragazzi e chiedo loro di dirmi come la pensano, quando non sono d’accordo con le miei proposte. Parto sempre dall’idea che tutti, io per primo, possono sbagliare. I ragazzi poi sono molto inventivi nella preparazione della commedia e questo mi è molto d’aiuto. Credo che un gruppo si fa in questo modo. Non mi piace ordinare che cosa si deve fare. Il teatro dà la possibilità di capire, specie ai più giovani, che nella vita non esiste nulla di perfetto bensì di perfettibile. La vita è un susseguirsi di errori. Soltanto partendo da questi è possibile migliorare, proprio come quando si sbaglia una battuta, una postura, una movenza, un’espressione scenica. Ci piace recitare, perché il teatro ci offre la possibilità di migliorarci e di trasmettere questo messaggio alla gente.

Che cosa racconta l’Argos con le sue commedie?
Per il momento non abbiamo ancora scritto e messo in scena una commedia nostra, che ci consentirebbe di esprimerci totalmente come compagnia teatrale, ma ne abbiamo una nel cantiere che speriamo di ultimare al più presto. Finora abbiamo rappresentato “Fiat voluntas dei”, “Non ti pagu”, “San Giovanni decollatu” e tanti altri copioni meno famosi rispetto ad altri. La scelta di rappresentare questi copioni meno conosciuti ci è stata più volte criticata, tuttavia noi preferiamo continuare su questa strada. Questi copioni meno famosi, infatti, ci danno la possibilità di lavorare di fantasia, di aggiungere, di togliere, di personalizzare i copioni al nostro paese, al nostro dialetto, alle nostre tradizioni. Nella nostra ultima commedia, “Smalirittu u’ telefoninu” di Rocco Chinnici, c’è molto di nostro. Pur essendo poco conosciute, tutte le commedie che rappresentiamo sono molto apprezzate nelle piazze. Perché parliamo di noi, degli stessi spettatori, del nostro tempo. Se il teatro non racconta il tempo nel quale si vive, allora non è teatro.

L’Argos può sentirsi tale senza i pubblici?
La compagnia teatrale Argos è anche il pubblico che segue le nostre commedie. Senza il pubblico, non puoi fare teatro. Sicuramente la bellezza dell’Argos è l’unità, lo stare assieme per tutto l’anno, il fare le cose assieme ma tutto questo deve anche essere manifestato al pubblico, agli altri. Il teatro lancia quei messaggi di cui ti ho appena parlato. Se non ci fosse il pubblico a recepire quei messaggi, tutto il nostro lavoro non avrebbe senso. Quindi l’Argos è l’Argos quando è assieme al pubblico. Se poi lavori bene, se reciti bene, allora il pubblico sa anche darti i giusti riconoscimenti.

Che cosa significa oggi vivere come attori e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Innanzitutto devo ringraziare mia moglie, perché sono sposato, ho quattro figli, ho un’attività da mandare avanti. Le prove posso svolgerle soltanto dalle 21:30 in poi e per tre volte alla settimana tolgo spazio alla mia famiglia, il che non è un sacrificio da poco. Il teatro è una passione, certamente, ma se non avessi al fianco una persona intelligente, comprensiva e stimolante quale è mia moglie, non sarei riuscito in tutti questi anni a realizzare tutto quello che ho fatto assieme ai ragazzi dell’Argos. Mia moglie sa che l’Argos è un punto di riferimento positivo, più che per me, per i giovani. Per questo motivo mi invoglia sempre ad andare avanti. Quindi, il teatro comporta primariamente dei sacrifici affettivi, ma anche di carattere economico. Nessuno ci aiuta economicamente e tutto quello che abbiamo realizzato lo abbiamo fatto esclusivamente con le nostre forze, salvo quegli spettacoli nei quali il Comune ci ha pagato le spese, pur pagandoci qualcosa in meno rispetto alle compagnie teatrali provenienti da altri paesi. Per carità, sono felice che chi fa teatro, tutte le altre compagnie teatrali, sia apprezzato e riconosciuto per il lavoro che fa, visto il sudore che c’è nel mandare avanti una compagnia teatrale. Però i premi che abbiamo ottenuto, specie quest’ultimo, dimostrano che non siamo meno rispetto alle altre compagnie. Oltre a Caraffa, siamo stati a Pellaro, a Melito, a Scilla, a Piale e abbiamo altri spettacoli per la Calabria: insomma, i riconoscimenti ci sono ovunque mentre scarseggiano nel nostro paese nativo. E questo molto spesso ci lascia con l’amaro in bocca. Però andremo avanti lo stesso.

Che cosa spinge l’Argos a restare nel Sud?
Anche se ci offrissero tutto l’oro del mondo noi resteremmo qua, a Bagnara e nel Sud. Perché l’Argos nasce per i giovani, per aiutarli ad affrontare i loro problemi ed evitare loro di prendere brutte strade, quali la droga, l’alcool e via dicendo. Inoltre, noi recitiamo in dialetto, il quale, se non sta svanendo, viene modificato e italianizzato. Noi puntiamo al mantenimento del dialetto, che è la lingua delle nostre tradizioni, specie di quelle più antiche, che non dobbiamo dimenticare. L’Argos si è aperto ai più piccoli perché vuole dare loro un sentiero diverso dalla strada. Spero, in questo senso, che altri facciano come noi, nel teatro, nella musica, nella danza, in qualsiasi arte. Queste arti portano unità, comunità, salvezza. Mi spiace molto che le altre compagnie teatrali che erano nate in questi anni nel nostro paese siano svanite. Mi auguro tuttavia che nascano delle altre, magari più numerose di prima. In questo modo, più ragazzi avranno la possibilità di salvarsi.
Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Sicuramente, ma il mio sogno è quello che sto già vivendo con i ragazzi dell’Argos nei locali della parrocchia, negli spettacoli bagnaresi, calabresi, siciliani, dentro e fuori la compagnia teatrale. Se proprio devo dirne uno, credo che il mio sogno sia soltanto questo: quello di non smettere di sognare con i miei ragazzi.

Il titolo della vostra ultima commedia è “Smalirittu u’ telefoninu”. Di che cosa parla?
“Smalirittu u’ telefoninu” è una vicenda divertente. Parla di Jacopo, un personaggio un po’ anziano, impacciato, che si fissa nell’idea di acquistare il telefonino, dal momento ce l’hanno tutti. La storia di Jacopo non è così lontana dalla realtà. La moglie per esempio, Loreta, lo richiama perché spende tutti i soldi per il telefonino. Oggi molti fanno così. Già a 7-8 anni i bambini hanno il telefonino, la playstation, l’i-pod eccetera. Tutti fanno salti mortali per avere questi oggetti e poi, di fatto, non arrivano a fine mese. “Smalirittu u’ telefoninu” affronta con il sorriso questo problema. Poi mette in evidenza come questi strumenti non soltanto svuotino le tasche ma soprattutto creino guai e incomprensioni, situazioni assurde che noi, naturalmente, marchiamo molto per far ridere la gente, ma che nella vita reale sono molto incresciose.

Oltre a seguire i vostri spettacoli, chi desidera saperne un po’ di più sull’Argos, dove può rivolgersi?
In questi giorni stiamo lavorando alla creazione di un sito tutto nostro, che presto comunicheremo al pubblico. Per il momento, chi vuole può contattarci al numero 349/5860318 oppure su Facebook:

Alcune parole per i giovani.
Non chiudetevi in voi stessi. Cercate di trovare un’iniziativa sociale, non necessariamente il teatro, qualunque, qualsiasi arte, perché vi aiuta molto a vivere, a crescere e a stare assieme agli altri.

sabato 6 agosto 2011

PELLEGRINA: la piazza gremita per Mimmo Cavallaro


- di Saso Bellantone
Ieri sera, in piazza Maria SS. Annunziata a Pellegrina, musiche e strumenti tradizionali fusi con suoni ed effetti moderni, canti e proverbi antichi misti alla poesia e al sentimento calabresi hanno dato vita a uno show unico: quello di una piazza stracolma di danzatori provenienti da ogni dove, che ha danzato per circa tre ore la danza tradizionale di questa terra: la tarantella. Lo spettacolo di Mimmo Cavallaro, Cosimo Papandrea e dei TaranProject ha dimostrato come la musica popolare, la tarantella e i canti tradizionali possano giungere laddove altre dimensioni della vita comunitaria falliscono. Vale a dire, quello di unire tutti abbattendo qualsiasi differenza sociale, di genere o di qualsiasi altra natura, portando un po’ di serenità, di sorriso e di sana leggerezza in un’esistenza che oggigiorno grava su ognuno con i problemi economici, lavorativi e relazionali che caratterizzano questo tempo.
La musica di Mimmo Cavallaro, Cosimo Papandrea e dei TaranProject si fa portatrice di questo messaggio di unità e uguaglianza tra le genti di qualsiasi provenienza ed estrazione sociale, e anche del messaggio di speranza nella creazione di un futuro diverso. Un futuro che comincia nelle parole del nostro dialetto cariche di sentimenti e di antica saggezza; nei movimenti colmi di passione e di grazia a un tempo della nostra tarantella, nei suoni e negli strumenti tradizionali che, cantando ognuno la propria voce, all’unisono, scuotono fin nelle ossa, ricordando a tutti chi siamo, da dove veniamo, dov’è la salvezza del presente: nel calore del nostro passato.