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giovedì 13 settembre 2018

TRASLOGOS



- di Saso Bellantone

Chiuse di nuovo il portabagagli, salì a bordo della Fiat Kappa e, assicuratosi che tutte le cianfrusaglie poste dietro non impedissero la visuale dallo specchietto retrovisore, partì, per l'ennesima volta, direzione sottotetto. Era il secondo trasloco in due giorni. Aveva dormito una sola notte nell'appartamento di via Guglielmo Radio, dopo averlo pulito e ripulito per due giorni di fila, ma come previsto e anticipato a Federica, e naturalmente passato in sordina, non andava bene. Troppo frastuono notturno. La via Guglielmo Radio era una arteria principale della città e anche la domenica, perfino d'estate, era sempre frequentata da automobili, camion e moto talmente rumorose da credere di ritrovarsele nella camera da letto.
“E ora che facciamo?”aveva detto Federica, mettendosi a sedere sul letto, in lacrime, guardando la piccola Nicole che dormiva placidamente “Come facciamo a dormire?”.
Silvestro alzò la testa dal cuscino ancora avvolto dal sonno, guardò prima lei poi la figlia e rispose: “Intanto proviamo a dormire. Domani si vedrà”.
Ovviamente l'ultima parola toccò mille volte a Federica, che pensò di programmare un nuovo trasloco l'indomani, contattando agenzie, proprietari, santi e diavoli, malgrado gli occhi e la voce di Silvestro mostravano chiaramente la necessità, e l'urgenza, di riposare.
Così il giorno dopo, mentre Rossella, la cugina di Federica appena arrivata, liberava le camere e sistemava scatole e valigie, Silvestro faceva viaggi dall'appartamento in via Radio alla soffitta in via Evoluzione, chiedendosi cosa aveva fatto di male per ritrovarsi, da tre-quattro giorni sempre con la maglia sudata a tal punto che sembrava appena tolta dall'acqua. Non seppe rispondere, tutte le volte che se lo chiese, ebbe solo l'impressione che il suono del portabagagli che si richiudeva fosse qualcosa di più, che lo colpisse dentro, che chiudesse, qualcosa, dentro.
Con questa sensazione ogni volta si recava in via Evoluzione con la macchina carica, con la stessa sensazione si stava recando adesso, nell'ultimo viaggio, con a bordo, lato guida, Federica e la piccola Nicole, ignara e dormiente.
“Ti dovrebbero fare santo!” sorrise la compagna, con un'espressione di scusa.
“Lasciamo stare” rispose sarcastico “San Pietro mi ha mandato un whatsapp, dicendo che comunque ha cambiato di nuovo serratura”.
“Che sei scemo!”
“Sei sicura?” chiese, guardandola con occhi sorridenti “Potrei abbandonare la mia calma serafica e incazzarmi, per il nuovo trasferimento, per il fatto di avertelo detto che la casa era rumorosa, per il fatto che avevi deciso di cercare casa con più calma, come suggerito anche da Davide, e poi hai avuto di nuovo fretta, perché avevo la sensazione che saremmo tornati in via Evoluzione...”
“Ok ok! Sei un santo, sei bravo!”
“Limitiamoci a bravo, va” scoppiò a ridere, seguito dall'interlocutrice, “Lo faccio solo perché c'è anche Nicole. Ma adesso, anche se scoppiasse una bomba sotto casa, la nuova intendo, restiamo qui per almeno due-tre anni.”
“Concordo!” rispose Federica, scoppiando nuovamente a ridere “Ma Davide e Rossella che fine hanno fatto?”
“Hanno preso un'altra strada... eccoli lì che arrivano anche loro con la Ford.” disse Silvestro, notandoli dallo specchietto retrovisore.
Gli amici parcheggiarono di fianco alla Fiat Kappa e, scaricate le macchine, cominciarono a portare su tutto quanto.
In realtà, molta della roba era già stata portata in soffitta da Alessia e Roberta, le figlie di Davide e Teresa, mentre la madre si era già attivata nel fare le pulizie, una volta appresa la notizia da Silvestro che, in mattinata, sarebbero tornati in mansarda.
Davide, Teresa, Roberta e Alessia erano i vicini storici della casetta rosa di via Evoluzione. Abitavano al primo piano ed erano stati i primi a conoscere, alcuni anni prima, quando Silvestro e Federica si erano trasferiti per lavoro a Nuova Città. Una famiglia semplice, umile, pacifica e piena di amore e di sorrisi, che viveva assieme alla nonna. Poi, giunta la notizia di Nicole, Silvestro e Federica erano rientrati al paese natio, e adesso, dopo la pizzata della sera prima fatta in casa da Teresa, i due erano tornati nuovamente al sottotetto di via Evoluzione, nell'incredulità di Roberta e Alessia, nipotine doc, acquisite per il grande affetto provato nei loro confronti. È probabile che anziché il frastuono di via Guglielmo Radio fosse stata propria la pizzata di Teresa a convincere Federica a ritornare in via Evoluzione, una volta appreso che la mansarda era di nuovo libera. Forse era stata la birra con Davide a convincere Silvestro. O forse l'attenzione di Roberta e Alessia, come se non ci si vedesse soltanto dal giorno prima. Comunque sia, il trasloco era compiuto.
Una volta portato tutto in mansarda, Silvestro e Federica cenarono con Rossella, senza la quale sarebbe stato impossibile organizzare un trasloco nell'immediato, mentre Nicole dormiva. Avevano sistemato ogni cosa nello stesso posto in cui si trovava due anni prima e avevano commentato il rapido trasferimento continuando a sottolineare la follia dell'accaduto e a elogiare l'immensa pazienza di Silvestro, il quale rimarcava che per lui San Pietro non avrebbe neanche battuto le ciglia di un occhio solo e la santità se la poteva sognare.
Finito di cenare, Rossella si mise a lavare i piatti mentre Silvestro e Federica uscirono sul balconcino, per fumare una sigaretta. Chiusero la scorrevole e Silvestro ebbe la stessa sensazione che aveva ogni volta che, in giornata, aveva chiuso lo sportello del portabagagli. Sembrava che qualcosa si richiudesse anche dentro di lui. Si affacciò assieme a Federica e i due scrutarono il paesaggio circostante, lo stesso panorama che dava loro pace prima dell'arrivo di Nicole. Si guardarono e proprio nel momento in cui i due dissero contemporaneamente “Siamo a casa.”, l'orologio, il vecchio orologio che avevano lasciato appeso due anni prima, all'ingresso, non funzionante, cominciò a ticchettare.
Si guardarono di nuovo, meravigliati dell'accaduto, e rivedendo velocemente gli ultimi due anni della loro vita nella mente, insieme, dissero di nuovo: “Sì, siamo a casa!”.

venerdì 31 agosto 2018

Luoghi




- di Saso Bellantone

Si è destinati a certi luoghi o, forse, alcuni luoghi sono destinati a noi. Non si sa se sia davvero in un modo o in un altro, eppure vi è una stretta relazione tra io e luogo, tra coscienza e ambiente circostante. È un problema, quest'ultimo, ben chiaro già ai primi filosofi anche se, fino a Cartesio, si dava maggiore importanza alla conoscenza delle cose in maniera ultima e definitiva, entro la quale, molto probabilmente in termini mistico-sacrali e religiosi, si forniva un'interpretazione el singolo essere umano. Con Cartesio, e poi con Galileo e Kant, comincia quel processo di indagine della res cogitans e della res extensa che porterà a una visione scientifica del mondo e a partire da Freud della coscienza umana, allo scopo, così come facevano i primi pensatori, di tracciare una immagine certa di entrambi.
Al di là di ogni metodo e prospettiva con i quali giungere a una comprensione risolutiva dei due oggetti in esame, resta tuttavia il problema della loro relazione, ben più pesante e pressante per alcuni rispetto al possesso di una carta geografica completa che consenta di muoversi con sicurezza nell'universo e nella propria psiche. L'io, cioè, continua a sentirsi legato al luogo in cui si trova, la coscienza all'ambiente circostante nel quale è immersa, l'interiorità all'esteriorità nella quale è calata, la psiche alla corporeità, della quale, tra l'altro, fa parte. Perché vi è questa stretta relazione? A che pro? Vi è una ragione di essa? Uno scopo?
Domande, queste ultime, irrisolte e irrisolvibili, se non in chiave mistica, ascetica, teologica, religiosa, ossia per mezzo di prospettive egoistiche ed egocentriche, le cui risposte non assicurano nulla di vero in merito a quegli interrogativi ma soltanto un progetto di potere e di dominio sugli altri, sia per le cose futili e banali sia per quelle di portata più ampia. Mentre alcuni continuano a illudersi con tali fittizi responsi, altri invece sono consapevoli di essere soli con quegli stessi quesiti; soli e bramosi di chiarirli una volte per tutte. E anche se non ci riescono mai, permangono ciechi nel domandare.
La questione interno-esterno è uno dei pezzi galleggianti del relitto della filosofia, affondato nel mare del tempo e della secolarizzazione. Con Nietzsche, si è giunti alla scoperta che anche il pensiero filosofico è soggetto a una laicizzazione, per cui tutte le vecchie domande o crollano con la filosofia o sono poste in maniera nuova, compreso il dilemma interno-esterno. Se l'essere umano continua a porsi tale interrogativo, allora quest'ultimo merita ancora di essere indagato, concependo il problema però in forma nuova, a partire da altre cornici, presupposti e traiettorie.
Innanzitutto l'essere umano, come sintesi di mente e corpo, è già l'esterno di qualcos'altro, ossia dei processi biologici che alimentano e fanno funzionare il suo corpo. Questa esteriorità, tuttavia, è l'interno di qualcos'altro. Trovandosi all'interno dell'universo, dentro quella galassia, quel sistema, quel pianeta sulla cui superficie/ambiente/atmosfera abita, essa, e dunque l'essere umano, è parte di quell'interno. Dal momento che l'universo, nella sua struttura e composizione, è regolato da forze ed energie, la maggior parte delle quali sono ancora da scoprire e da capire, e dal momento che l'essere umano è (al)l'interno di esso, allora anche lui è ordinato nel medesimo modo ed è condizionato da esse, da forze ed energie che si manifestano in maniera macrocosmica, l'universo, e microcosmica, il corpo umano.
Lo stretto legame che l'essere umano percepisce con un determinato luogo non è altro che il segnale di quella stretta connessione tra lui, in quanto esteriorità e corporeità, e l'universo intero. La questione è che tale segnale è recepito e messo a fuoco per mezzo del pensiero, anche questo parte dell'essere umano, il quale però è astratto e invisibile, tranne nel caso in cui si concretizza per mezzo delle azioni corporee con cui raggiunge precisi scopi prefissati (alimentarsi, dormire, camminare e così via) ed è a sua volta condizionato dalla cultura che gli viene trasmessa, che eredita e che esercita quotidianamente. Proprio la cultura, infatti, è ciò che influenza e suggestiona l'essere umano, la sua psiche, la sua percezione dei luoghi e dello stretto legame che vi è con essi.
Guardando una nuvola, per esempio, si dovrebbe dire di vedere una nuvola ma a seconda della cultura ricevuta si dice di vedere forme geometriche, fantastiche, religiose e altro ancora. Lo stesso vale per i luoghi e i paesaggi.
La cultura è paragonabile a un elastico che può spingere lontano ma può anche tenere legati. Perciò, è lavorando su di essa che è possibile influire sulla psiche umana e aiutarla a percepire le cose, e i luoghi, per quello che sono. In questo senso, si potrebbe dire che un luogo è soltanto se stesso e che non vi è alcun legame con esso, ma secondo una prospettiva macrocosmica, cioè sul piano delle forze e delle energie, non è così. Infatti, se alcuni alimenti possono condizionare la nostra vita e il nostro pensiero, lo stesso vale per ciò che è e resta al di fuori di noi. Così come alcune sostanze ci fanno stare bene o male, allo stesso modo alcuni luoghi sortiscono su di noi lo stesso effetto. È risaputo che vivere in un ambiente degradato condiziona a tal punto da sviluppare un modo di pensare e di pensarsi simile, anche se in alcuni casi spinge a ricercare l'opposto, e viceversa. In questo senso i luoghi hanno un ruolo cruciale nella vita di ognuno, un'importanza tale da deciderne il destino anche sul piano biologico oltre che culturale. Chi vive per esempio in zone montane è abituato alla scarsa quantità di ossigeno presente nell'aria e ritrovandosi a una bassa altitudine soffrirebbe per la maggiore presenza di ossigeno nell'aria, e viceversa. Se tale è l'influenza fisica di un luogo, altrettanto è quella culturale (o la sua interpretazione).
I luoghi sono parte di noi e noi siamo parte di essi. Li vogliamo, li ricerchiamo, in maniera inspiegabile, perché con e per mezzo di essi viviamo grandi emozioni. Da ciò si spiega anche il fenomeno del turismo. Ma oltre che vissuti in maniera irrazionale, occorrerebbe vivere i luoghi in maniera misurata. Ci vorrebbe, cioè, un'educazione ai luoghi sul piano storico, artistico, scientifico e mediante le tante discipline utili per comprendere maggiormente la loro natura, struttura e il loro funzionamento. Ciò chiama in causa un'educazione all'abitare, che significa conoscere l'ambiente in cui ci si trova immersi e, dal momento che la psiche è già immersa in un altro ambiente, il corpo, occorrerebbe anche un'educazione alla propria corporeità.
L'educazione all'abitare, in questa prospettiva, si manifesta duplice, ambiente da un lato e corpo dall'altro lato, ed è possibile con una visione critica dei saperi e delle stesse discipline umane utili per una formulazione di essa. Per enunciarla e formalizzarla è necessario pensare, a partire dalla stretta relazione interno-esterno sopra espressa, e per comunicarla è necessario poi istruire.
Una sfida, perciò, di carattere filosofico, in quanto la relazione interno-esterno si espone al domandare e quest'ultimo, al di là della ruggine tradizionale e dei vuoti estetismi delle mode passeggere, cela sempre i grandi interrogativi sulla vita e sull'universo. In questo senso, nella relazione interno-esterno, io e luogo, coscienza e ambiente, res cogitans e res extensa, e nel fascino che tale mistero suscita ancora, non vi è altro che la domanda sul mistero dell'esistenza, accessibile a partire da qualsiasi luogo e, tuttavia, non ancora risolvibile, e poi quella sulla sua origine e la sua fine, ammesso che di essi di possa parlare, e anche sul nostro destino all'interno di essa.
I luoghi dunque ci parlano del nostro destino, anzi ci chiedono di esso e ci fanno interrogare su di esso. Ci ricordano che il destino è e non è nelle nostre mani, al pari di quello dello stesso domandare. Essere umano, luoghi, domandare sono infatti strettamente connessi in questa parola, il cui significato può morire o risorgere o trasmutarsi a seconda del rapporto che intratteniamo con essa e se lo intratteniamo oppure no.
Per quanto siano soltanto se stessi, da questo punto di vista i luoghi sono anche di più: l'accesso privilegiato a questa parola, sostando con la quale possiamo ancora emozionarci e pensare.

martedì 21 agosto 2018

Chiedimi chi sono



- di Saso Bellantone

“Chi sono?” è una delle domande che l'essere umano ha iniziato a porsi – e in seguito altre quali “Dove sono?”, “Perché sono?”, “A che scopo?” – dal momento in cui ha preso coscienza di essere, esserci, esistere. Un enigma insolubile, la cui inesplicabilità spesso spinge alla resa, lasciandosi persuadere che la propria identità coincida perfettamente con il contingente, la società, la vita così come accade ed è vissuta.
Vi sono dei momenti, tuttavia, in cui la sicurezza radicata nell'evidenza dell'accadere e nella chiarezza della ripetizione va in frantumi e tutto ciò che finora è stato dato per scontato viene messo in discussione. Si vaga nel buio, si torna indietro sui propri passi e si cambia nuovamente rotta ma non si scorge traccia dell'uscita dal labirinto oscuro in cui si è finiti. Si sospende il giudizio, si torna alla vita di prima ma è tutto diverso, adesso. Non soltanto non c'è più la vita così come prima avveniva, non vi è proprio il prima né il dopo. Restano solo il qui ed ora e la domanda che riverbera nella coscienza con tutto il peso di ciò che costituisce l'esistente: “Chi sono?”.
Si potrebbe rispondere in molti modi, senza sapere, però, qual è l'opzione giusta:
  • in maniera mistico-religiosa, e cioè secondo una o più delle interpretazioni con cui gli essere umani traducono in forma rituale il loro istinto teologico e la ricerca del divino;
  • in maniera social-comunitaria, ossia sulla base dell'interpretazione della vita e dei ruoli all'interno dello specifico clan o gruppo cui si appartiene;
  • in maniera tecnico-economica, vale a dire per mezzo del lavoro che si pratica e dei guadagni di cui si dispone;
  • in maniera intellettual-letteraria, e cioè mediante uno o più dei tanti saperi cui si ha accesso;
  • in maniera web-mediatica, ossia tramite le informazioni che è possibile trarre da internet e dai media;
  • in maniera solipsistico-decadente, vale a dire mediante le convinzioni maturate nel tempo, espresse per monologhi, interiori o scritti, spesso accompagnati dall'uso e dall'abuso di sostanze stupefacenti, alcoliche, farmaci e psico-farmaci, consapevoli o no dei loro effetti.
Alcuni si accontentano di una delle precedenti alternative, spesso coscienti di non aver trovato risposta affatto al quesito, vivendo il resto della vita come spettri illusi in un paesaggio grigio fatto di sorrisi falsi e lacrime invisibili; altri non trovano ristoro in nessuna delle precedenti possibilità e continuano a ricercare senza sosta la risposta, in una continua partita a scacchi a tre, assieme alla follia e alla dama nera.
Il pensiero sistemico ed ecologico, d'altro canto, ha evidenziato come un determinato soggetto non sia altro che la risultante dell'ambiente in cui è immerso e vive, in un continuo scambio di influenze reciproche. Un processo di tira e molla, quest'ultimo, destinato a non avere fine e che, pur passando per momenti di apparente equilibrio, si evolve di continuo per mezzo di ogni novità di cui è informato il sistema soggetto-ambiente. In questo panorama, l'identità della persona facente parte di un determinato contesto sociale – a sua volta costituito da micro-sistemi quali la famiglia, il lavoro, la scuola, lo sport e così via – non può essere definita in maniera definitiva; si può pensare, invece, a identità temporanee, destinate a loro volta a essere abbandonate, superate, oltrepassate.
I totalitarismi, e in particolare quello nazional-socialista, protagonista della Seconda guerra mondiale e della Shoa, hanno messo in evidenza come l'identità della persona – si pensi al caso Eichmann –, all'interno di una interpretazione del mondo in chiave mistico-militare totalizzante, possa essere confinata alla mera esecuzione dei ordini ricevuti, senza spazio alcuno per un giudizio personale, figuriamoci morale, pena: la morte. Una parentesi agghiacciante, quest'ultima, della storia umana perché oltre a far luce su altre guerre passate e contemporanee, evidenzia anche il funzionamento del giudizio umano all'interno di un sistema politico-militare basato sull'accentramento del potere e sul terrore. L'identità singolare, in un contesto simile, non è altro che una pagina scritta a matita, perfettamente cancellata dalla gomma della violenza e riscritta dalla penna di chi possiede la sovranità; in altri termini, l'identità del singolo non è altro che quella collettiva, di ogni altro, simile a quella delle api, delle formiche, delle termiti, della catena di montaggio e delle varie tecnologie robotiche che ci circondano, presto sostituite dalle I.A.
Si potrebbe rispondere alla domanda sostenendo di essere carne e mente, hardware e software ma sarebbe troppo banale e si resterebbe all'interno di un circolo vizioso monologistico. L'essere umano non può essere soltanto il proprio corpo e le informazioni ricevute o impiantate nella propria testa, né il frutto di chirurgia estetica, invasiva e non, né le notizie con cui si aggiorna, non è la moda che sceglie di seguire tanto meno il linguaggio che decide di impiegare. Se non è nulla di tutto questo, allora come rispondere alla domanda?
Forse, “Chi sono?” non è un interrogativo a cui si può rispondere in maniera solitaria. Forse, è un quesito del quale si può rispondere a qualcun altro, ammesso che vi sia qualcuno ancora interessato non a sapere dell'altro nella forma del gossip ma a conoscere l'altro, ascoltando personalmente quanto ha dire, in qualsiasi modo egli si esprima.
La domanda “Chi sono?”, ammessa la resistenza di spazi di relazione con l'altro in maniera autentica, diventerebbe dunque “Chiedimi chi sono?”, una domanda completamente diversa dalla precedente in quanto, nella società attuale, figurerebbe anche come una richiesta, un'urgenza di ciò che non avviene più se non raramente e fortuitamente.
È probabile che la fatalità con cui tale domanda-richiesta si presenta, anche quando non è pronunciata palesemente, scandisca il tempo autentico di ognuno e lasci emergere le tracce di quella che potrebbe essere la propria identità ma non vi è certezza neanche in questo. Resta soltanto la speranza della relazione con l'altro in una società abitata da innumerabili cupole di vetro oscurato quali noi siamo.

mercoledì 16 maggio 2018

Niente eco dei tamburi stanotte



- di Saso Bellantone

Africa

I hear the drums echoing tonight
But she hears only whispers
of some quiet conversation
She’s coming in twelve-thirty flight
Her moonlit wings reflect the stars
that guide me towards salvation
I stopped an old man along the way
Hoping to find some old forgotten words
or ancient melodies
He turned to me as if to say:
Hurry boy, it’s waiting there for you
It’s gonna take a lot to drag me away from you
There’s nothing that a hundred men
or more could ever do
I bless the rains down in Africa
Gonna take some time
to do the things we never had
The wild dogs cry out in the night
As they grow restless,
longing for some solitary company
I know that I must do what’s right
As sure as Kilimanjaro rises
like Olympus above the Serengeti
I seek to cure what’s deep inside,
frightened of this thing that I’ve become
It’s gonna take a lot to drag me away from you
There’s nothing that a hundred men
or more could ever do
I bless the rains down in Africa
Gonna take some time
to do the things we never had
Hurry boy, she’s waiting there for you
It’s gonna take a lot to drag me away from you
There’s nothing that a hundred men
or more could ever do
I bless the rains down in Africa
I bless the rains down in Africa
I bless the rains down in Africa
I bless the rains down in Africa
Gonna take some time
to do the things we never had

traduzione

Africa

Sento l’eco dei tamburi stanotte
Lei sente solo dei sussurri
di una conversazione silenziosa
Lei sta arrivando con il volo delle 12:30
Le ali al chiaror di luna riflettono le stelle
Che mi guidano verso la salvezza
Ho fermato un anziano lungo la strada
Sperando di trovare alcune parole
o melodie dimenticate da tempo
Lui si è voltato verso di me come per dire
“Muoviti ragazzo, ti sta aspettando laggiù”
Sarà difficile trascinarmi lontano da te
Non c’è niente che cento uomini
o più potranno mai fare
Ho benedetto le piogge laggiù in Africa
Prenderò un pò di tempo
per fare le cose che non abbiamo mai fatto
Cani selvatici ululano nella notte
Mentre crescono irrequieti
desiderando qualche solitaria compagnia
So che devo fare la cosa giusta
Tanto sicuro quanto il Kilimanjaro si eleva
Come l’Olimpo sopra il Serangetti
Cerco di guarire ciò che è nel profondo
Impaurito da questa cosa che sono diventato
Sarà difficile trascinarmi lontano da te
Non c’è niente che cento uomini
o più potranno mai fare
Ho benedetto le piogge laggiù in Africa
Prenderò un pò di tempo
per fare le cose che non abbiamo mai fatto
Muoviti ragazzo, lei ti sta aspettando laggiù
Sarà difficile trascinarmi lontano da te
Non c’è niente che cento uomini
o più potranno mai fare
Ho benedetto le piogge laggiù in Africa
Ho benedetto le piogge laggiù in Africa
Ho benedetto le piogge laggiù in Africa
Ho benedetto le piogge laggiù in Africa
Prenderò un pò di tempo
per fare le cose che non abbiamo mai fatto.

Niente eco di tamburi stanotte, malgrado Africa, brano dei Toto, reciti il contrario. Niente eco perché la musica all'interno dell'abitacolo della Uno Turbo Blu è perfetta. Il volume dello stereo Pioneer è a palla. L'equalizzatore, anch'esso rigorosamente della medesima marca, è ben regolato. Le casse, sia quelle sugli sportelli anteriori sia quelle poste sulla mensola posteriore, pompano decibel come concerto di piazza. È una sensazione stupenda. Sergio non ha mai ascoltato una musica talmente limpida. Mai in macchina. Mai oltre le 23:00. È in netto ritardo. Ha soli 15 anni, non gli è consentito stare fuori così tardi, specialmente nei giorni infrasettimanali, dal momento che l'indomani deve andare a scuola ma quella, è un'esperienza bellissima: ascoltare la musica con Mauro, a bordo della sua Uno Turbo, di notte, con lo stereo a palla, lo fa sentire un adulto.
I capelli “a spina”, rasati ai lati e ben ingellati sopra, pelle nera e fisico scolpito tanto da guadagnarsi il nomignolo “Divu niru”, un sorriso coinvolgente, genuino, Mauro, 21 anni, è una persona talmente pacifica che un santone indiano sembrerebbe un diavolo al suo confronto. Fa parte di una bella comitiva, che tra moto e macchine, conquistano tutte le ragazze del paese. Anche le coetanee di Sergio. Così, stare con Mauro fino a tarda ora fa sperare Sergio: prima o poi, qualche ragazza avrebbe notato anche lui.
Di ragazze infatti si parla stanotte, oltre che di musica. Ma anche di sé e di quei segreti della vita che nessuno conosce fino in fondo. Perché a 15, a 21 o a 1521 anni, tutti sono esperti della vita ma ognuno a modo suo, senza sapere, davvero, come stanno le cose. In questa consapevolezza, tuttavia, è bello chiacchierare. Hai l'occasione di confrontarti, di sapere com'è che vede le cose qualcun altro, di imparare da altri, specialmente se l'altro è uno dei tuoi simboli, dei tuoi punti di riferimento e, stanotte, sei proprio al suo fianco. Non c'è nessun altro in giro per il paese. Soltanto Mauro, Sergio, la Uno Turbo e i Toto a palla.
Sergio si sente pago di tutto, sazio. Non vuole altro. Ha un amico più grande di lui, è in pace con se stesso e crede, in quelle ore passate con “Divu niru”, di essere il re della notte. Ci si scambia sorrisi, consigli e battutacce. Non volgari ma freddure, quelle battute con l'ironia di una volta, senza malizia né doppi sensi, che ti fanno ridere spontaneamente, delle quali Mauro è un maestro.
Ogni momento della vita, però, è destinato ad approdare al suo contrario. Dal sorriso, infatti, i due amici passano alla serietà più profonda e alla paura in un attimo. Il rombo di una Alfa 33 Blue, proprio nel momento in cui Africa è finita, riecheggia nella notte, sul corso. È la madre di Sergio, sicuramente in cerca di lui, incazzata nera, più del colore della pelle dell'amico.
«Cazzo, mia madre!»
«Beh, che c'è? Non stiamo mica facendo nulla di male. Stiamo solo ascoltando un po' di musica.»
«Non è questo, Mauro! Se ci pesca assieme, le prendi anche tu! Non conosci mia madre!»
«Bene, allora ti porto a casa.»
«Sbrigati, fammi scendere e corri via!»
Mauro accelera, accompagna Sergio e se ne va sfrecciando, sperando di non incontrare la madre dell'amico. Sergio tira fuori le chiavi, apre il portone, corre in camera sua e si infila sotto nel coperte con abiti e scarpe.
«Ce l'ho fatta.» pensa.
Un minuto dopo, sente il portone aprirsi e chiudersi di nuovo, e il suono di passi che si avvicinano.
«Si può sapere dov'eri? È da due ore che ti cerco...» la madre entra in camera, accende la luce e inizia a sgridarlo.
Sergio, invano, fa finta di svegliarsi in quel momento ma la ramanzina va avanti, con un tono paragonabile soltanto al volume dei Toto, a bordo della Uno Turbo Blu, di poco prima. Si prende tutti i rimproveri Sergio, se li merita, ma dentro di sé è felice di aver passato del tempo con Mauro, di aver ascoltato la musica a tutto volume e di aver chiacchierato con lui. È sicuro che non dimenticherà mai quel momento. Non soltanto per via dei rimproveri, ma perché, ripensando ai suoi 15 anni, non si è mai sentito bene così come è accaduto con Mauro stanotte.
L'indomani racconta tutto ai suoi coetanei ma nessuno gli crede, finché usciti da scuola, da lontano, si sente una musica assordante avvicinarsi. È ancora Africa dei Toto, è una Uno Turbo Blu, è Mauro, e si ferma davanti al liceo, proprio vicino a Sergio.
«Allora com'è andata con tua madre?» abbassato il volume, con i suoi soliti occhiali da sole neri, Mauro gli sorride.
«Non hai idea di quante me ne ha dette!»
«Sali e racconta. Facciamo un giro.»
Sergio saluta i suoi compagni e sale a bordo dell'auto. I compagni lo guardano increduli, le ragazze con interesse. Mauro riparte e Sergio sorride. Sì, adesso tutti lo tratteranno come un adulto, perché Sergio esce coi ragazzi più grandi della sua età.

venerdì 30 marzo 2018

QUALE DIO? di Antonio Signori


- di Saso Bellantone

Si è soliti esclamare “Quanto è piccolo il mondo!” quando ci si reca dall'altra parte del pianeta e si incontra, per caso o per destino, chi lo sa, un amico o un conoscente, ma è quello che ho pensato quando ho incontrato Antonio Signori. Dialogando con lui, è emerso che abbiamo in comune due caratteristiche:
  • entrambi abbiamo scritto dei libri;
  • uno di questi ha il medesimo oggetto, lo stesso interrogativo.
Pur partendo da esperienze e posizioni differenti, l'uno per via filosofica e l'altro per via scientifica, entrambi ci siamo posti la medesima domanda, rintracciabile a partire dal titolo del libro di Antonio Signori: Quale Dio? Di quale Dio stiamo parlando, dunque?
Il testo, pubblicato nell'ottobre 2012, è confortante innanzitutto, perché emerge che c'è ancora qualcuno che si pone l'interrogativo sopra citato, su posizioni e prospettive che vanno al di là degli schemi, popolari, metafisici e teologici tradizionali; è divertente, perché è accompagnato da alcune vignette di Stefano Arzuffi, ognuna delle quali riassume in maniera visiva, ribaltandolo su un piano ironico, il nucleo del capitolo appena trattato; è brillante, perché senza panegirici e “giri del mondo in 80 giorni”, come sono soliti fare gli accademici, ogni capitolo entra nel cuore della questione proposta nel titolo del capitolo stesso e fornisce rapidamente, a partire da una costellazione bibliografica di riferimento, il punto di vista sostenuto dall'autore, come già detto, al di là degli schemi e delle confezioni precostituite che si impara, generalmente, sui banchi di scuola, dell'accademia e nella società.
La “carta bibliografica” presente nelle note a piè di pagina del testo, là dove l'argomento lo richiede, evidenzia già come l'autore, così come è spiegato nell'introduzione Il senso di questo libro, non affronti in maniera banale la questione bensì sulla base delle proprie esperienze e delle proprie domande inquadrate all'interno della “cartina” appena citata. Ciò vuol dire che Antonio Signori, diversamente da quanto fa la maggior parte, prima di scrivere questo libro su questo argomento innanzitutto “legge” a proposito di tale questione, per conoscere i pareri di altri e confrontarsi con essi, dal momento che di questi temi non se ne parla facilmente o, meglio, non se ne parla affatto nella quotidianità. Per questo motivo, ci si ritrova di fronte ad alcuni pareri, opinioni, prospettive affiorate da questi “dialoghi letterari” svolti, non senza, naturalmente, i quesiti proposti dalla vita e dall'esperienza.
Sì, chi scrive ha usato consapevolmente i termini “pareri, opinioni, prospettive” perché il testo, stilisticamente, si presenta in un certo modo: non è aforismatico, se lo fosse stato avrebbe fatto parte del genere delle massime e delle sentenze, ma somiglia più a un diario, senza date e indicazioni di luoghi, certamente, però gli somiglia perché nel tempo di poche pagine testuali si condensano gli svariati quesiti provenienti da quello iniziale e perché tali questioni, specialmente oggigiorno, non hanno bisogno di quelle coordinate per essere maggiormente comprese, soprattutto alla luce della scrittura dell'autore, chiara, precisa, “pesata” in ogni singolo termine, affinché il nodo di ogni problema sia accessibile a tutti, ai più.
Lo scopo di questo libro, come scrive Antonio Signori nella già citata Introduzione, non è quello di «dare le mie risposte, ma per stimolare ognuno a trovare le proprie e, soprattutto, ancor prima di trovare le risposte, a porsi delle domande» (p. 5); in altri termini, è di fare pensare gli altri sulla/e stessa/e questione/i.
Oggigiorno, infatti, la domanda su Dio non è posta più. Si preferisce indossare la maglia della squadra del cuore, sia quest'ultima una delle tante religioni e sette esistenti o uno dei tanti ateismi, e ci si è tolti il pensiero. Dio è per la maggior parte nient'altro che diverse scatole preconfezionate e preferibili, così come la sua negazione, issando a divinità la medesima, è una scelta tra le tante irreligiosità.
Per Antonio Signori, invece, Dio è una domanda ancora aperta, non solo al di là delle “opzioni del volgo” ma anche oltre le strade finora seguite sul piano filosofico, scientifico e teologico-religioso; un interrogativo che merita di essere posto, malgrado sia impossibile indagarlo (come vedremo), perché è a partire da questo dilemma che l'essere umano può definire, storicamente e anche oggigiorno, seppur in maniera precaria, in che cosa consiste la sua umanità e in quale maniera può regolare la propria condotta.
E allora, chiediamoci: in quale maniera l'autore scioglie “il nodo di Gordio” presentato nel titolo?
Antonio Signori si confronta di pagina in pagina con le scelte e le intuizioni operate dalla tradizione filosofica, scientifica e teologica, dalle quali naturalmente scaturiscono quelle popolari e in voga; ogni volta, mettendo a fuoco alcuni punti cruciali, già dibattuti storicamente o attualmente dati per scontato, propone una via alternativa, una risposta altra, utile, come chiarito all'inizio di questa recensione, per fare pensare. A tal fine, le sue risposte si palesano, appunto, come dei “suggerimenti di riflessione”.
Che cosa emerge da tali suggerimenti? Di quale Dio parla Antonio Signori?
Operando una attenta spettrografia del libro, ci si accorge che l'autore presenta due tipologie, due idee di Dio:
  • quello delle religioni e della tradizione biblica;
  • un Dio “altro”.
Il Dio delle religioni e della tradizione biblica sarebbe, agli occhi di Antonio Signori, un “idolo”, un Dio reificato, scambiato per qualcos'altro, ridotto a mera cosa dall'essere umano in vari modi: con statue, simboli, teorie, immagini, con la sua stessa professione di fede, la quale, nel convincersi di aver compreso, afferrato Dio, lo perde istantaneamente. Ciò dipende dallo stesso sguardo umano che, con la sua prospettiva e il suo relativismo, frutto della cultura, dell'informazione e del tipo di società/comunità in cui vive, tende, in maniera antropologica, antropomorfica e antropocentrica, a umanizzare tutto, persino Dio. In questo senso, quando si parla di questo Dio non si fa altro che parlare delle “proiezioni” che l'essere umano, o meglio le civiltà, a effettuato nel corso della propria storia.
Dal momento che Dio è una proiezione “umana, troppo umana”, anche la morale e i valori, solitamente associati a questa o quell'idea di Dio, promossi da tale o tal altra religione, non sono altro che delle “invenzioni” umane, dei fenomeni storico-sociali derivanti dalla creatività umana. Da questo punto di vista, l'idea di Dio che incarna una precisa morale e dei precisi valori – così come un'altra ma tutte provenienti dall'uomo – è “sufficiente” per svolgere, soltanto, una chiara funzione: regolare e limitare le condotte umane. Così infatti si mostra la storia delle civiltà, secondo una prospettiva secolarizzata, ossia come la narrazione degli eventi che hanno riguardato i popoli, aventi, ognuno, delle ben definite idee di Dio mediante le quali hanno dato una misura e dei limiti al proprio agire.
A partire da questa visione disincantata della questione di Dio, appare chiaro, secondo l'autore, che occorre prendere con le pinze anche i testi sacri perché, pur essendo stati compilati sulla base di una “ispirazione divina”, i compilatori/redattori erano comunque degli esseri umani, soggetti all'errore; i testi dunque vanno letti e indagati, per non dire in maniera scientifica, con criterio e secondo uno sguardo multidisciplinare, allo scopo di individuare i possibili errori umani presenti in essi e, inoltre, le possibili ed esclusive matrici umane.
Tutto questo non vuol dire per Antonio Signori bocciare in toto le religioni. Se nelle idee di Dio è possibile riconoscere le morali e i valori stabiliti nel tempo dall'uomo, nelle religioni è possibile individuare quei movimenti storico-concreti grazie ai quali quelle morali e quei valori – e quelle fonti sacre – sono giunti a noi. Le religioni hanno il pregio – e in ciò consiste la fortuna di esse – di parlare alle masse, all'interiorità dei cosiddetti “fedeli” e di stabilire norme, riti e simboli resistenti al tempo, con le quali, comunque, avviene una forma di comunicazione interiore, con le quali, in ogni caso, si tenta di mantenere vivo il rapporto di Dio – pur idolatrandolo e reificandolo. Il problema delle religioni è quando a regolare il loro operare sono “i se e i ma”, i secondi fini, spesso e volentieri lontani dalle stesse norme e professioni di fede che le costituiscono, distanti dal messaggio rivoluzionario annunciato da Gesù “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
Se si esclude la Shoa, tragico evento in cui il Dio delle religioni, non interviene e non si manifesta – così come miracolosamente aveva fatto in passato (non dimentichiamo di trovarci all'interno di una visione secolarizzata della questione, secondo la quale l'interventismo divino è un'altra proiezione/invenzione umana) – secondo l'autore le religioni, oltre che mantenere “aperto” lo spazio dell'interiorità, seppur in maniera monopolistica e per secondi fini, hanno un altro merito: propongono in chiave secolarizzata un concetto di Bene molto somigliante a quella che oggi chiameremmo una “cultura della non violenza, della solidarietà e del rispetto altrui”, concetto e cultura mediante i quali è possibile essere uomini, “umani” in maniera autentica.
Se il Dio delle religioni e della tradizione è soltanto un idolo, una proiezione umana, un'invenzione, allora come pensare Dio?
Secondo Antonio Signori, «Dio è in quello che rappresenta lo sguardo incredulo di Isacco» (p. 25), va ricercato da un'altra parte, da un altro punto di vista. Per essere più precisi, Dio non va più reificato, ridotto a mero oggetto o idolo, non va più sottoposto e condizionato alla prospettiva umana, relativa. In questo senso, va inteso come ciò che è indicibile, indimostrabile e su questo sentiero occorre abbandonare le vecchie idee, quella creazionista classica o quella quinziana secondo cui Dio avrebbe creato il tutto, sottraendosi, perché in tal modo non faremmo altro che tornare a pensare e a immaginare Dio alla vecchia maniera. Stesso dicasi per la Cristologia. Persino la presunzione di entrare in relazione con Dio è una visione antropologica, scorretta, illusoria, reificante, di Dio. Dio va inteso come un “mistero impenetrabile”.
Se proprio si vuol salvare qualcosa delle vecchie religioni, per intendere Dio in maniera nuova, ciò consiste, secondo l'autore, nell'idea di Spirito Santo, il quale, nella sua invisibilità, è l'unico Dio accettabile (della tradizione).
Intendere Dio come un mistero impenetrabile non significa per Antonio Signori interpretarlo come un qualcosa di totalmente inaccessibile. Ai suoi occhi, infatti, Gesù, oltre che passare alla storia come un modello da imitare per vivere nel “Bene”, «è l'esempio di come di possa essere in contatto con Dio», colui che ha insegnato la possibilità «di essere portatori di messaggio divino pur essendo uomini».
Finora, Dio è stato immaginato con occhi umani ma, secondo l'autore, per cominciare a immaginarlo in maniera nuova si dovrebbe intenderlo come «natura relazionale di tutte le cose» (p. 29), come lo spinoziano deus sive natura, un Dio cioè che è la natura stessa nell'insieme delle sue relazioni, entro la quale vi è anche l'essere umano.
Quest'ultimo, in quanto parte della natura e partecipe delle molteplici relazioni che costituiscono la natura stessa, dunque Dio, è «la dimostrazione vivente dell'intelligenza cosmica» (p. 46), esprime la presenza di Dio malgrado questi sia altrove, in uno spazio autonomo e impenetrabile. In questo senso, nella preghiera di ringraziamento – altro elemento delle religioni che l'autore salva – l'essere umano può sentire, ascoltare, accettare una voce che non è la sua, egoistica ed egocentrica, e poco conta se tale voce è di Dio o del cosmo o soltanto la sua.
Immaginando Dio come insieme di relazioni naturali, come «tutto in tutto» (pp. 74-75), potremmo spingerci oltre, riconoscendone le tracce nel bello matematico, nella bellezza dei teoremi e dei calcoli legati ai numeri. Da questo punto di vista, tra l'altro, anche la religione e la scienza potrebbero procedere nel rispetto reciproco, perché – scartata la teoria evolutiva, incapace di rispondere definitivamente alla domanda se il tutto sia un caso o un disegno – la questione escatologica, alla luce della fisica quantistica, potrebbe essere posta su altri piani e la stessa morte potrebbe essere pensata come una “mutazione della vita” (p. 74), una fusione di logos e kosmos.
Alla luce della differenza tra il Dio dicibile (delle religioni e della tradizione) e il Dio indicibile (quello nuovo, ossia quello che, sulla base delle considerazioni precedenti, non è stato mai considerato), ecco che cambia, anche, l'idea di fede o, meglio, “la” fede e la ricerca di questo nuovo Dio.
Al di là di ogni idolatria e presunzione, fede e ricerca coesistono, convivono, l'una con l'altra e nessuna delle due è possibile senza l'altra. Entrambe sono, oltre ogni certezza e ansia, «una continua vigilanza a mantenere viva la nostra tensione verso la ricerca di senso» (p. 8); entrambe sono attesa, non egocentrica non egoistica, la cui vitalità è esperibile nel dubbio: il dubbio di aver trovato la fede, il dubbio di aver concluso la ricerca.
Si tratta, in definitiva, di un'opera piacevole da leggere, mai banale mai pesante, ma che nella brevità e densità delle sue trattazioni stimola davvero a pensare criticamente la domanda su Dio e a ripensarsi, oltre che come uomo, come umanità.
Forse il messaggio celato da Antonio Signori tra le pagine di questo scritto è che la speranza in una società migliore rispetto a quella attuale, non prescinde dal porsi, ancora, questo interrogativo e dal pensare diversamente, razionalmente e in maniera spiritualmente altra – che cos'è la spiritualità se non una razionalità altra, quasi invisibile, alla quale però abbiamo accesso – i nodi cruciali della fede e dell'interiorità.

mercoledì 21 febbraio 2018

DISsonoria: RAGAZZO dei Litfiba



- di Saso Bellantone

“Io vorrei sapere
chi governa il mondo
e cosa gli direbbe
uno che è senza lavoro.
Vorrei sapere
come si fa a cadere
e come puoi risalire
senza farti male.
Sono un ragazzo
ricordatevi che esisto
sono il re del Nulla
mentre il Nulla ruba i migliori.

Vorrei sapere
perché non è reato
fare la puttana di stato
ed abusare ogni potere.
E sono senza un letto
ma mi basterebbe un tetto
almeno fino a domani
prima che la marea cresca.
Sono un ragazzo
ricordatevi che esisto
sono il re del Nulla
mentre il Nulla ruba i migliori.

Lavorare per contare
Non si può dire che sia godere
Meglio impazzire
Che stare qui a vegetare
E sono senza un letto
Ma mi basterebbe un tetto
Almeno fino a domani
Prima che la marea cresca”.

Il mondo è retto da forze oscure transnazionali, pubbliche e private, societarie e individuali, che decidono tutto. Giocano al potere, con lo spread, la guerra, i colpi di Stato, le leggi, per puro piacere. Per godere della invasante e gradevole sensazione di essere tra i pochi, se non gli unici, a poter stabilire qualsiasi cosa, a proprio profitto, a scapito di tutti gli altri: la vita e la morte, le mode e i consumi, la salute e la malattia, il lavoro e la disoccupazione, la fortuna e la disfatta di aziende, persone, servizi, idee, sogni e incubi. A causa di questa oscura volontà, la società è ridotta a un mero programma che si ripete all'infinito sempre nel medesimo modo, pur cambiando le sfumature, in cui miliardi di burattini sono illusi di essere liberi, anche nelle inutili proteste. Il risultato, è una realtà fittizia in cui ognuno conta per nessuno. E quando si è nessuno, vuol dire che non si conta affatto. Neanche nel caso in cui si ha la fortuna di lavorare.
Sì, perché il lavoro è una questione di fortuna, di amicizie, di raccomandazioni. O si è dei geni, di cui non si può fare a meno per quella specifica mansione o disciplina; o va avanti l'amico dell'amico. E in entrambi i casi, a condizione di accrescere il potere e la ricchezza di quella o quell'altra azienda, Spa, multinazionale.
Ci si ritrova, di conseguenza, in un mondo orientato al ribasso, alla mediocrità, all'ignoranza, dominato da un'etica violenta e parassitaria, ispirata da una morale inversa e perversa, che costringe all'uniformità, all'omologazione, all'uguaglianza e alla somiglianza. O si è una fotocopia di tutti gli altri o non si ha diritto alcuno.
Il capitalismo non è altro che la carta d'identità di quelle forze che si impiantano nel presente a scapito del futuro e delle generazioni a venire. Interessa solo moltiplicare la ricchezza, qui ed ora, con l'uso della forza, della cattiveria, del male. O si è parte di questo meccanismo che arricchisce i pochi, secondo le loro regole naturalmente, o si è sacrificabili, senza speranza alcuna.
In questo brano dei Litfiba, emerge la ripetuta critica nei confronti delle multinazionali e dei governi, che alimentano questo circuito nero del potere a svantaggio dei giovani. I sogni, le competenze, i buoni propositi non valgono in una società marchiata dalle monete. Bisogna adeguarsi, obbedire, se si è fortunati lavorare così come viene imposto, senza emozioni né rimpianti. Al contrario, si resta senza lavoro senza un tetto, si rimane privi dello stesso diritto di esistere.
Ma è davvero così che si deve andare avanti? È davvero questa società il risultato dei sacrifici dei nostri antenati?
“Prima che la marea cresca”, bisognerebbe invertire la corrente.

mercoledì 14 febbraio 2018

From de sabbatical year (ben ritrovati)



- di Saso Bellantone

Ne è passato di tempo. A parte qualche sporadico post, è trascorso un anno, senza scrivere e con tanto pensare ma, soprattutto, con tanto da fare. La vita, non quella virtuale che abbindola dietro gli schermi delle nuove tecnologie, bensì quella vera, in carne e ossa, chiama e non puoi voltarle le spalle. Pena: la perdita totale della propria identità, ammesso di averne una o di essere convinti di averla.
L'identità è la Sfinge, il lago di Narciso, l'Urlo di Munch dell'essere umano. Sulla base dell'epoca, della civiltà, del continente, della regione, della città in cui vive e sulla base della comunità, della famiglia, dello status sociale a cui appartiene, della formazione ricevuta, degli incontri avvenuti, dei sogni infranti e delle sconfitte incassate, ma soprattutto sulla base della sensibilità posseduta, dell'apertura (o della chiusura) mentale che ha, degli amori e dei dolori patiti, dei maestri e dei ciarlatani con cui si è confrontato e di un'incalcolabile ventaglio di incognite che sconquassano la vita come bandiera strappata alla sua asta e in balia del vento, l'essere umano traccia e cancella sulla tela invisibile del suo animo uno schizzo confuso di quella che ritiene la propria identità. Un'immagine effimera, precaria, che dura il tempo di essere depennata dalle persone che ha conosciuto e conosce (in realtà, non le conosce affatto), che costituiscono, rappresentandola, la società e dunque anche la regola, il giusto, il buono, il bello di essa. E così è per tutti.
Arriva il momento in cui ci si sente depennati, archiviati, esclusi, eterei e quello che si è sempre stati e che si è sempre fatto non ha più valore del tempo misurato da un orologio qualsiasi. Bisogna fermarsi, staccare, isolarsi negli abissi più bui e nelle vette più fredde alla ricerca di una qualche certezza di esserci davvero, concretamente, materialmente, di essere vivi in un mondo di zombie. Sì, perché è così che appare il mondo quando si sceglie (o non si può fare a meno) di vivere al contrario della società e di manifestarsi, agli occhi degli altri, come l'irregolarità, l'ingiusto, il cattivo, il brutto. Agli occhi degli altri.
“L'inferno sono gli altri” dice Sartre. Parafrasandolo: “Gli altri sono l'inferno”. E ha ragione. Specie quando si scrive (la penna o i tasti sono il prolungamento del propria essere pensante e senziente) per qualcun altro. La scrittura dovrebbe migliorare, se non il mondo, almeno qualcun altro e, invece, ognuno non resta che tale e quale a prima, anzi peggiora, degenera nella sua regressione, mostrando quello che è sempre stato dietro le belle facce e le belle parole. Il bello degli altri, appunto.
Questo, naturalmente, toglie tutte le forze, fa crollare ogni speranza, smantella ogni sacrificio svolto. È inutile, ci si dice, continuare a scrivere. Tanto non cambierà nulla e nessuno. Così ci si autosospende da questo regno del sottosopra, si posa la penna, si chiude la tastiera dentro il cassetto e si attende un segnale, un indizio o anche un presagio che qualcosa, adesso, stia cambiando veramente e che qualcuno, ora, mostri chiaramente di essere sempre stato quello che ha manifestato. E così è stato.
In questo anno sabbatico pochissimi hanno avuto il coraggio (perché in un mondo di zombie e pecore è l'ardimento che è scomparso) di bussare alla porta, di suonare il campanello e di attendere una risposta o, per chi era fisicamente lontano, di prendere il tracciatore istantaneo (il cellulare), di selezionare il numero e di telefonare (o soltanto di mandare un messaggio). Nessuna sorpresa, lo si sapeva già che per la maggior parte non si è mai esistiti se non per interessi personali, di qualsiasi natura siano. Questo è stato determinante per distinguere i vivi e i leoni dagli zombie e dalle pecore. E lo è ancora, adesso che, forse, l'anno sabbatico è sul finire e sta per iniziare un anno nuovo. Un nuovo inizio che, per essere tale, deve necessariamente portare con sé le orme del vecchio percorso: sia quelle profonde, cariche di dolore e gravità, sia quelle più superficiali, piene di amore e leggerezza.
Chi è stato tra quei coraggiosi, sa benissimo le gioie e i dolori provati in questo anno sabbatico e anche prima di esso, e non ha bisogno di vederseli elencati; chi, invece, non lo è stato, non troverà catalogo alcuno in questo post, se non il biasimo di saperlo parte della società, della sua regola, del suo giusto, del suo buono, del suo bello, e che l'ha rovinata e continua a rovinarla, egoisticamente, fregandosene non soltanto dei maledetti altri ma anche dei propri cari e di coloro che verranno.
Alla luce di queste considerazioni e sull'impotenza della scrittura per cambiare, almeno, qualcun altro, mi è stato detto: scrivi per te stesso. Ci ho pensato ma la scrittura è per natura comunicazione, evento, apertura, ricerca, dialogo; è fatta di parole e, in quanto tale, è sempre rivolta a qualcun altro. Questa convinzione è tra i pochi detriti rimasti del vecchio viaggio, con i quali intraprendere il nuovo, e con essa ho ritrovato tanti altri detriti, ancora solidi e, anzi, più resistenti di prima, con i quali tracciare un'altra bozza nel mio animo.
È a voi, pochissimi coraggiosi, che dedico questo post e, anche, a chi ancora, naturalmente, non può sapere di questa dedica.
Ben ritrovati!