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venerdì 30 luglio 2010

LA PANCHINA

- di Saso Bellantone
Un giorno, mentre passeggiavo sulle alture del pensiero e del tempo, assistetti a un fatto curioso. C’erano infatti, seduti su di una panchina, alcune figure che discorrevano animatamente attorno alla questione della verità e, interessato dell’argomento, mi fermai ad ascoltarli.
“La verità è il niente” diceva uno (Buddha).
“La verità è in Yaweh” diceva un altro (Mosé).
“La follia di Dio è sapienza agli occhi degli uomini” sosteneva un altro ancora (Paolo).
“So di non sapere” affermava un quarto (Socrate).
“La verità è in Allah” dichiarava un quinto (Maometto).
“Vero è ciò che è dimostrabile sperimentalmente” ribadiva un sesto (Galilei).
“La verità è l’errore” criticava l’ultimo (Nietzsche).
Quando l’ultimo pronunciò le sue parole, si avvicinò un anonimo passante del luogo e disse... continua a leggere

sabato 24 luglio 2010

RELIGIONE, RELIGIOSITA' E SENTIMENTO POPOLARE. PROPOSTA PER UNA PURIFICAZIONE DEL LINGUAGGIO

- di Saso Bellantone
Quando si affronta la questione religione e religiosità spesso si hanno le idee confuse. Ad esempio, si è soliti considerare la religione allo stesso modo della fede, intendere la religiosità un sinonimo della spiritualità o pensare che la religione coincida in toto con il sentimento popolare. Per evitare questi fraintendimenti, è opportuno conoscere a priori la differenza tra un termine e l’altro; se la si ignora, allora è necessario comprenderla.
Nella storia del genere umano è possibile individuare numerose religioni (oltre un centinaio) raggruppabili secondo tipologie: monoteiste, politeiste, enoteiste, panteiste e animiste. Queste – escluse quelle pagane, tribali e moderne – possono essere distinte a loro volta in tre famiglie: abramitiche, dharmiche, taoiche. Alcune religioni – l’ebraismo, il cristianesimo, l’islamismo – sono dette “rivelate” in quanto hanno origine in una rivelazione (miracolosa, divina, soprannaturale), la quale è codificata nei testi sacri adottati.
Il termine religione deriva dal latino relìgio, la cui etimologia proviene, secondo Cicerone, dal verbo relegere (rileggere), nel senso di una riconsiderazione diligente di ciò che riguarda il culto degli dèi; secondo Tertulliano e Lattanzio, deriva invece dal verbo religàre (legare, vincolare), nel senso di legare l’uomo alla divinità. Qualunque sia la derivazione etimologica, il vocabolo “religione” indica un fatto sociale che si basa su un sistema di idee, credenze, riti, dogmi, divieti, prescrizioni, condotte e strutture gerarchiche, con il quale un gruppo di persone instaura e mantiene un rapporto comune con il sacro. Mediante tale relazione con il divino – che spesso è mediata da sacerdoti, sciamani, pastori – il gruppo cerca (o trova, a seconda della prospettiva) un insieme di valori, di significati e di verità riguardanti la condizione umana e l’ordine cosmico, coi quali regolare la propria vita.
Il lemma “religiosità” misura la condotta – dunque il comportamento – di chi sostiene di appartenere a una precisa religione. Chi mette in opera in modo incondizionato il complesso sistema intellettual-dottrinario, etico, giuridico e rituale mediante il quale una religione assume la propria identità e si differenzia dalle altre, può essere definito “religioso”; chi invece viene meno a un solo fattore di tale sistema è, che lo voglia oppure no, un “irreligioso”. Ad esempio, per dirsi “cattolico”, un individuo deve dimostrare nei fatti di mettere in pratica l’impianto teorico, pratico, giuridico e rituale del cattolicesimo. Se ad esempio non segue messa, non accetta l’autorità dei preti e non aiuta l’altro in ogni momento della propria vita, pur credendo nei vangeli, dà prova di non essere un cattolico.
Si comprende, dunque, che non esiste religiosità al di fuori delle religioni esistenti. Chi afferma di essere un religioso ma non si riconosce in alcuna religione vivente e non ne pratica nessuna, è uno sciocco. Per essere religioso al di fuori delle religioni note, dovrebbe prima inventarsi una propria religione e avere un gruppo di credenti che ne formalizza l’esistenza.
Religiosità e spiritualità non sono dei sinonimi. Dire di essere un religioso non è lo stesso che dire di essere uno spirituale. Se religioso è chi testimonia mediante la propria condotta di appartenere a una religione precisa, “spirituale” è invece chi interpreta l’intera esistenza – fin nelle realtà, negli enti e negli eventi più piccoli e invisibili – all’inverso rispetto a chi la giudica in modo esclusivamente materiale. Diversamente dal termine religioso che riguarda le condotte umane, la parola “spirituale” riguarda il giudizio del singolo individuo. Che vuol dire, però, giudicare l’esistenza secondo una prospettiva materiale? Significa pensare che la verità, il senso, lo scopo della vita si riduca nella fisicità, nell’apparenza, nella corporeità dell’esistenza stessa. Significa escludere dall’interpretazione generale del mondo tutto ciò che non è corpo, non è concreto, tangibile, visibile. Vuol dire estromettere dio. Al contrario, chi è spirituale pensa che la verità, il senso, lo scopo dell’esistenza non si ferma alla sua fisicità, apparenza, corporeità ma riguarda anche l’incorporeo, l’inconsistente, l’intangibile, l’invisibile. In questo senso, chi è spirituale crede che esistano spiriti, anime, forze, angeli, demoni, divinità e simili.
La dimensione del religioso e quella dello spirituale possono toccarsi, nel senso che chi regola la propria condotta così come una religione prescrive, a un tempo vive credendo che dietro gli avvenimenti della propria vita si celi un disegno divino o vi sia l’intervento di spiriti (di cari e amici defunti oppure di angeli o di diavoli). Dal momento che il credere riguarda non la condotta umana bensì il giudizio, è chiaro che le dimensione del religioso e dello spirituale possono sfiorarsi esclusivamente nel mondo interiore (o nella mente) della singola persona. Per questo motivo, sarebbe più opportuno considerare la spiritualità qualcosa di diverso dalla religiosità.
Malgrado il vocabolario della lingua italiana possa sostenere l’inverso, neanche religiosità e fede possono essere considerati dei sinonimi. Se la religiosità riguarda la condotta di una o più persone nei confronti di una religione, la fede ha a che fare invece con il giudizio e il mondo interiore del singolo individuo. In altre parole, mentre la religiosità misura i fatti, la fede certifica “nel pensiero” l’appartenenza o la non appartenenza a una religione. La dimensione dello spirituale, in quanto tendenza a interpretare la verità, il senso, lo scopo del visibile anche alla luce dell’invisibile, è il presupposto di ogni fede religiosa. Chi crede che tutto si riduca alla materia, non potrà mai credere in una religione. Chi invece tende a interpretare la propria vita anche in base alle influenze di ciò che è intangibile, è predisposto ad aver fede in una religione.
La fede è il sentimento soggettivo, mediato dalla ragione (questo è il dilemma), che si ripone nei confronti di una religione. Ogni religione infatti, prima di ogni regola, rito e condotta, è costituita da una precisa visione del mondo in relazione alla quale le regole, i riti e le condotte umane acquisiscono significato. Tale visione del mondo non è altro che la dottrina, cioè una sapienza basata sui dogmi, sulle rivelazioni miracolose e sulle tradizioni codificate sia nei testi sacri sia nei corollari di carattere letterario, giuridico, etico e via dicendo, a sfondo religioso. Chi si dice fedele a una religione, deve dimostrare la propria fedeltà a questo apparato scritto e codificato concernente quella religione. Dal momento che le condotte umane sono ispirate al giudizio (o almeno così dovrebbe accadere), chi ritiene di essere un religioso deve altresì essere un fedele. Non si può essere fedeli nel giudizio e non essere religiosi nei fatti. Né viceversa. Se ciò si verificasse, si darebbe alla luce un controsenso.
Vi è uno spazio tuttavia nel quale religiosità e fede possono incontrarsi: la parola. Il Credo cattolico, in quanto è una professione di fede – vale a dire un farsi avanti nella totalità del proprio essere nei confronti della fede – ne è un esempio. Recitando il Credo, il cattolico traduce in una pratica quel che pensa, trasforma in un fatto la propria fede e la rende tangibile agli altri. Se venisse meno alla propria religiosità, ad esempio non frequentando le funzioni religiose, costui dimostrerebbe agli altri non solo di essere un irreligioso ma anche di essere un infedele.
In estrema sintesi, chi si dimostra fedele alla dottrina di una religione – e cioè accetta pienamente l’apparato codificato sul quale si basa una religione – e a un tempo testimonia di essere religioso – vale a dire regola la propria condotta così come la stessa religione prescrive – vive nella sicurezza di essere in rapporto con il dio (o le divinità) della religione accettata, professata e praticata. Chi invece viene meno alla propria fede o alla propria religiosità rischia di perdere tale rapporto.
Per concludere, chiediamoci: il sentimento popolare può incontrare la dimensione della fede, del religioso e della spiritualità? Che cos’è il sentimento popolare?
La locuzione “sentimento popolare” indica la partecipazione emotiva del popolo riferita a qualcosa: ad esempio un evento politico, culturale, sportivo, pirotecnico, gastronomico, artistico, musicale, televisivo, teatrale e chi più ne ha più ne metta. Tale coinvolgimento emotivo può riguardare anche un avvenimento importante per la storia e la dottrina di una religione, ad esempio il Natale, la Pasqua o i festeggiamenti svolti in onore di un santo o di una madonna. Premesso che è necessario distinguere tra ricorrenze di carattere religioso – approvate, decise e regolarmente ufficializzate dai ministri di dio – e usanze e tradizioni locali, al fine di distinguere le festività riconosciute ad esempio dalla Chiesa cattolica e quelle non accettate, quando ci si riferisce al sentimento popolare connesso a questa fattispecie di commemorazioni, si rischia di fare una gaffe. Il problema sta a monte ed è proprio il concetto stesso di sentimento popolare.
Chi parla di sentimento popolare ad esempio in relazione alla festività di “Santana”, inconsapevolmente oppure no, si ritiene dotato di super-poteri grazie ai quali entra nella testa e nel cuore di ogni persona, ne legge le emozioni ed è capace di ricavare una stima generale. Svolta questa misurazione, si comincia a sostenere che la festa di “Santana” è particolarmente sentita dalla popolazione oppure si dichiara il contrario. È evidente che questa capacità di leggere l’animo della gente è una follia ma facciamo un altro esempio. Una cosa è dire che tutti sono emotivamente coinvolti dall’arrivo del periodo natalizio; un’altra è affermare che tutti sono emotivamente interessati al significato religioso, dunque cattolico, del Natale.
Quando si parla di sentimento popolare relativo a una qualche festività religiosa, bisogna fare attenzione a non sentirsi degli “indovini dell’animo popolare”; definire in modo più preciso possibile l’argomento considerato; impiegare delle osservazioni/misurazioni sensibili, tangibili, concrete. Facciamo un esempio. Immaginiamo che giorno X si svolgerà presso il palco di via Y, sito nella cittadina Z avente 10000 abitanti, la festività di “Santana” (il chitarrista). Non è possibile sostenere a priori che tale evento coinvolge emotivamente la popolazione di Z: la ragione è che ancora non si è verificato. Dopo lo svolgimento della festività, è possibile svolgere delle stime. Se su 10000 abitanti, 1000 hanno partecipato all’evento e 9000 no, non si può sostenere che la festività di “Santana” coinvolge emotivamente (tutta) la popolazione di Z. La ragione è che 1000 persone hanno aderito alla festa ma 9000 no. Questo semplice esempio serve per sottolineare che quando avviene o si avvicina una festività religiosa, si è soliti affermare che il sentimento popolare è particolarmente preso da tale festività. Il sentimento popolare è un miraggio perché chi svolge la stima della partecipazione popolare a un evento, non è capace di leggere l’animo di tutti gli abitanti di un paese o di una città (il popolo); non esegue tale stima sulla base di dati concreti, vale a dire possibili partecipanti/partecipanti effettivi. Pur svolgendo la misurazione in questo modo, non si riuscirebbe a individuare il sentimento di ogni singola persona, di ognuna delle quali il sentimento popolare dovrebbe rappresentare la somma. Per questi motivi, sarebbe opportuno dimenticare il termine "sentimento popolare" e impiegare la locuzione "partecipazione fisica" dei cittadini a festività religiose o a usanze e tradizioni accettate oppure no da una religione.

giovedì 15 luglio 2010

LA MALATTIA DELLA SAPIENZA VOL. 1

- di Saso Bellantone
Per natura, l’essere umano è un animale sociale, comunicativo ma soprattutto incazzoso. Ciò è ravvisabile in particolar modo nelle conversazioni che svolge con i propri simili nelle quali, ogni volta – indifferentemente dall’argomento trattato, sia il calcio, il gossip, la politica, la fede, l’alimentazione o il carico a bastoni con la briscola a coppe – sembra vi sia in ballo la verità assoluta del mondo.
Quando si dialoga con altri a proposito di qualcosa, ognuno tende a mostrarsi iper-sapiente, vale a dire unico possessore della sapienza assoluta, svelata da un dio o da un demone, dunque unica voce della verità. Questa inclinazione spinge ognuno a esibirsi in monologhi interminabili per prevalere sull’altro. In questo modo, anziché generare uno scambio di idee, capace di produrre in entrambi non solo un ampliamento degli orizzonti ma anche reciproco rispetto e stima, spesso si finisce nel mandare l’altro a quel paese, nel prenderlo a botte e nell’odiarlo per il resto della vita. Finite le zuffe, ci si accorge – forse – che nel discutere a suon di mazzate con altri a proposito di questo e quello, non ci si interessa dell’argomento considerato ma soltanto di imporre le proprie opinioni, pardon, verità.
L’inclinazione a ritenersi dei super-sapienti può essere causata da shock infantili, traumi, complessi psicologici, difetti fisici e disturbi mentali; dall’indole naturale ed ereditaria; dalle abitudini, dall’educazione, dalla formazione scolastica, dalle amicizie e dai contesti sociali nei quali e coi quali si cresce, si lavora, si vive; a volte, e questo è paradossale, dalla ingenuità, dall’ignoranza e dall’ottusità. Quale che sia la sua provenienza, tale attitudine provoca una degenerazione della personalità, del raziocinio, del buon senso e istiga all’aggressività, all’arroganza, alla perfidia. Qualora si è posseduti dal demone della sapienza assoluta – e di indemoniati ce n’è abbastanza nella nostra società, basta guardarsi allo specchio – tutte le nostre conversazioni sono destinate a fallire e le nostre opinioni, da meri e gratuiti ragionamenti disputati intellettualmente con altri, si trasformano in verità assolute dimostrate e imposte con la forza fisica, con la voce più alta e con la mossa di karate vincente.
Se tutti si abbandonano a questa possessione, è evidente che la nostra società subirà presto una metamorfosi: o diverrà il regno dei solitari incazzati; o giungerà alla propria fine, a causa di una guerra di tutti contro tutti. Per queste ragioni, sembra necessario riflettere su tale possessione diabolica, definibile con l’espressione “malattia della sapienza”.
Non tutti sono in condizioni di comprendere di esserne infettati. Per i fortunati, invece, questo potrebbe segnare l’inizio di una guarigione non solo mentale ma anche fisica e spirituale. Le seguenti considerazioni, sia chiaro, costituiscono una proposta terapeutica, perfezionabile con i contributi di chi fosse interessato.
La malattia della sapienza è antica quanto l’uomo, è un morbo cronico del genere umano, che infetta l’uomo nella sua soggettività, per mezzo dei suoi istinti ancestrali. Darwin sostiene che l’essere umano è una scimmia evoluta, un essere istintivo che grazie all’assunzione della postura eretta e alla libertà delle mani ha iniziato a creare manufatti, a porsi degli scopi, a pensare. Già Aristotele, prima del teorico dell’evoluzionismo, definisce l’uomo un animale razionale, ossia un essere abitato da due forze contrastanti: l’impulsività (lato ferino); il ragionamento (lato pensante). Nel corso della propria evoluzione, l’uomo è soggetto allo scontro tra queste due potenze che lo caratterizzano: il lato pulsionale tende a sopraffare quello razionale, e viceversa. Per questo motivo, ritenere che essere dotati del pensiero sia un argomento utile per dimostrare che non si è più animali, è una sciocchezza. Il pensiero è influenzato dagli istinti selvaggi che abitano il corpo umano: essere progrediti, vuol dire dimostrare nei fatti di essere capaci di frenare queste inclinazioni. Ma il più delle volte non è così. Gli animali tendono a imporre il proprio dominio sugli altri, dunque a diventare capo-branco, con la contesa e la forza fisica. In quanto animali, gli uomini fanno lo stesso anche nel terreno del pensiero e, qualora non ci riescono, ricorrono alla forza fisica.
Se quest’analisi ha qualcosa di sensato, si comprende che la malattia della sapienza non è altro che la trasformazione delle antiche contese basate sulla forza fisica, in controversie basate su opinioni, idee e convincimenti. In questa metamorfosi, resta uguale lo scopo: diventare il capo-branco, dominare gli altri. A ben vedere, chi è ammalato di sapienza, di fatto, soffre di un’altra malattia congenita all’essere umano, nella sua radice animale: il dominio. Perché nelle conversazioni l’uomo è incline a mostrarsi super-sapiente? Perché usa la forza fisica, quando non riesce a esibirsi all’altro in questo modo? L’unica risposta a queste domande è: per il dominio. La malattia della sapienza, nel suo volto oscuro, celato, rimosso, è una malattia del dominio.
In termini politici, il dominio si indica con la parola “potere”; in termini filosofici, con la parola “sapere”; in termini teologici, con la parola “dio”. Dire che nelle conversazioni, per indole, ognuno è incline a instaurare il proprio dominio su altri – e lo fa prima mediante la ragione, poi con l’uso della forza fisica – significa che ognuno vuole mostrarsi potente, sapiente, dio. Dominare gli altri nel terreno della ragione significa imporre la propria visione del mondo, la propria personale interpretazione dell’accadere, svolta sia con l’ausilio delle fonti sia senza di esse. Se in piccolo ciò vuol dire dominio di un individuo o di un gruppo di persone, amplificando questo procedimento su scala planetaria ciò significa dominio assoluto.
L’immagine del mondo dipende da ciò, dalla capacità soggettiva di imporre agli altri la propria interpretazione generale della vita, vale a dire di dominarli con l’uso della ragione (e insieme con le discipline, le dimensioni, le arti, le tecniche, i saperi da essa partorite). Quando la ragione (e i suoi mezzi) non riesce da sola a ottenere questo obiettivo, si passa all’uso della forza: le guerre, le proteste, le insurrezioni, i disordini vari, gli omicidi devono essere intesi in questo senso.
Se è vero che la malattia della sapienza è una malattia del dominio, ossia governo del branco grande o piccolo che sia, allora che altro è dominare il branco se non appagare senza impedimento alcuno tutti i propri impulsi naturali? Che altro è tale appagamento incontrastato dei propri istinti se non la libertà assoluta? Che altro è tale libertà se non il dispiegamento illimitato della propria volontà? Chi s’impone all’altro – al di là del tema discusso – mira consapevolmente oppure no all’ottenimento di questa libertà assoluta, ossia di una condizione privilegiata nella quale si è svincolati da ogni impedimento e, per questo motivo, si è capaci di concretizzare in modo smisurato la propria volontà.
C’è da chiedersi se tutto ciò sia possibile non tanto in uno stato di diritto quale il nostro, bensì in un gruppo di persone che decidono di vivere insieme, vale a dire di fare comunità. L’uomo è dunque condannato alla malattia del dominio? Se dietro ogni conversazione si cela questo scopo, allora l’unico modo per guarire da questa piaga corrosiva della volontà è astenersi dalle discussioni per tutta la vita? O forse è necessario incominciare a chiedersi se esiste uno scopo alternativo al dominio, da ricercare nei dialoghi con altri? Questo implica una metamorfosi onnilaterale dell’essere umano: questa trasfigurazione comincia con l’auto-dignosticarsi la malattia della sapienza, forma razionale del flagello che logora il nostro lato animale: il dominio.