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martedì 27 ottobre 2015

Versieri: L'UNIVERSO-SOLITUDINE di Paul Éluard


- di Saso Bellantone

I miei occhi si sono chiusi dietro a me
la luce è riarsa decapitata la notte
uccelli più smisurati dei venti
non sanno più dove posarsi.

Nei mutili tormenti nelle grinze delle risate
non cerco più il mio simile
si è accasciata la vita sono sorde le mie immagini
tutte le ripulse del mondo hanno avuto la meglio
non si vanno più incontro s'ignorano
io sono solo sono solo tutto solo
non sono mai mutato.

A volte la realtà non piace. La società, la gente, gli accadimenti non piacciono. Sembra tutto assurdo, fuori di testa, incredibile. Ci si sente come dei pesci fuor d'acqua, mentre tutti gli altri nuotano indifferenti, affrontano le correnti con le storpie pinne che si ritrovano, saltano sulla schiuma dell'adesso e delle mode, riempiendosi le branchie dell'aria che corre, senza fare smorfia alcuna. Neanche innanzi ai predatori, alle tormente, ai cracken che divorano la loro esistenza in un solo istante, battono ciglio. Arrivismo, iperestetismo, delirio di onnipotenza e di onnisapienza muovono le correnti della storia e chiunque si lascia trasportare da esse senza ancora né timone, senz'anima né dignità, nel disperato bisogno di esserci, nelle modalità dell'avere e dell'apparire. Anche i pirati. Preferiscono tramutarsi in corsari e ammiragli, scegliendo la sicurezza all'instabilità, la schiavitù alla libertà, i dobloni ai tesori nascosti nelle profondità del mare dell'essere. Perdono il coraggio della curiositas e l'ardore della resistenza, della perseveranza, alzando la bandiera bianca e dipingendola con i colori del potente di turno, sia quest'ultimo un altro uomo, una comunità, un regno o un dato di fatto.
Niente speranza, niente sogni, niente voglia di riscatto. Non resta altro che la certezza del respiro e la monotonia dell'avere, della sopravvivenza sistemata.
Innanzi alla caduta di ogni albero maestro e all'evirazione di ogni nave della propria anima è la nausea. La perdizione. La follia. Ci si sente come un'isola sperduta nell'oceano del tempo. Come un'energia accerchiata da monadi. Come un osservatore circondato da attori, da maschere, da volti fotocopiati dal potere e dalla rassegnazione, dall'odio e dalla disperazione, dall'egoismo e dal vuoto tornaconto personale. Non c'è più niente da vedere. È buio. Tutto uguale. Ripetitivo. Identico. La luce è impotente e la notte senza fine. Come la tempesta, entro la quale noi, alcioni più giganteschi degli stessi venti che trasformano tutto, non troviamo più un porto sicuro né lo cerchiamo più, neanche nelle sofferenze mozzate o nelle arricciature di un sorriso. Ormai la vita stessa si è lasciata andare, non c'è visione alcuna capace di parlare alla nostra interiorità perché tutto il peggio del mondo ha vinto. Anche quello che è in noi. Non ci si incontra più, ci si ignora, e ci si sente dannatamente soli, perché a differenza di tutti quanti, non si è mai cambiati. Non un capello o uno strato di pelle ha perso la o identità.
Ne L'universo-solitudine, Paul Éluard racconta lo strazio silente di quel lottatore che ha estremamente presente la metamorfosi generale nella quale vive. Narra la tragica sensazione di isolamento provata da chi vede esattamente la realtà. Una dimensione senza speranza né via d'uscita alcuna, nella quale lo spirito libero non trova più un luogo nel quale ristorarsi. Una società nella quale tutti, nella scelta individuale di restare soli, sono uguali. Non si ha più il desiderio di incontrare altri o di fidarsi di altri. Neanche i dolori e le gioie sono motivo, ormai, della relazione con altri. Ognuno pensa per sé. La vita stessa ha perso la propria vitalità e niente lascia immaginare a qualcosa di diverso, a una novità capace di infrangere le muraglie umane che si muovono per le strade, senza incontrarsi mai, perché ormai ha vinto il peggio dell'essere umano. Il suo lato oscuro.
Ma in tutto questo, il lottatore è doppiamente dilaniato. Perché nel ravvisare l'uguale solitudine di tutti quanti, scorge anche la sua. Unica, solitaria, esclusiva perché non si è lasciato coinvolgere da quell'altra che infettato tutti. E questa solitudine squarcia ancor più della prima, perché restando un lottatore, uno spirito libero, un pirata, un gabbiano, è l'unico rimasto a combattere il peggio e l'oscurità, l'ultimo, anche per tutti gli altri, cercatore della luce splendente, della fine della notte, di eden in terra, che non è altro se non la relazione con l'altro. Un nuovo inizio.

sabato 3 ottobre 2015

giovedì 1 ottobre 2015

Versieri: CAMMINI SUI MIEI SOGNI di William Butler Yeats


- di Saso Bellantone*

Se avessi il drappo ricamato del cielo,
Intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,
I drappi dai colori chiari e scuri del giorno e della notte
Dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,
Stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:
Invece, essendo povero, ho soltanto sogni;
E i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
Cammina leggera, perché cammini sui miei sogni.

I sogni sono le orme non ancora tracciate sul sentiero della vita. Sono invisibili, perché non sono ancora, e immediatamente inutili, perché appunto non sono adesso. Eppure, sono, già, ed è possibile vederli a occhi aperti qui e ora anche se la loro consistenza è immateriale, perché li si considera massimamente utili nonostante la loro inutilizzabilità.
I sogni sono, tutto, per chi il tutto appunto non ce l'ha.
Chi ha, infatti, è privo di sogni perché vede il mondo così com'è e non come potrebbe essere. Scorge l'utile ovunque e in chiunque, perdendosi ogni particolare. È solo, cieco, morto, si muove per inerzia. Chi ha è sempre in apnea, mai pervaso dal senso del bello. È spensierato, impassibile, avvilito; è chiuso, orgoglioso, assetato di odio. È un monologo, nel proprio monolite. È senza tempo, può soltanto calcolare.
Chi non ha, invece, è fatto di sogni. È, i sogni che egli stesso possiede o da cui è posseduto e strutturato. La sua sostanza è di sogni, così come la sua identità o la sua intera vita. Chi non ha considera i sogni degli inseparabili compagni, nell'insicuro viaggio dell'esistenza; dei fari, nelle cupe onde dell'essere. Il sangue, che scorre nelle vene; l'energia, che zampilla dalla carne. L'aria che respira, il profumo di un fiore non ancora sbocciato; i pensieri che angosciano come demoni, le emozioni ancora da provare. Chi non ha considera i sogni dei sorrisi non ancora espressi, delle carezze da cui non è stato ancora sfiorato, delle mani non ancora strette, degli abbracci da cui non è stato ancora attorniato. Le parole non ancora dette, gli incontri non ancora avvenuti, il tempo dentro il tempo, il possibile nell'impossibile, come l'amore.
Ama davvero chi non ha nulla fuorché i sogni che ha e che è. E all'amata, come scrive William Butler Yeats nella poesia Cammini sui miei sogni, può dare soltanto i suoi sogni, cioè se stesso, perché non possiede nient'altro da poter dare a lei se non l'amore.
Chi ha, avendo tutto quanto, darebbe alla propria amata soltanto tutto quello che possiede ma non le darebbe ciò che è più importante nell'amore, e cioè l'amore stesso, che è un sogno ed è costituito di tutto quello che non si ha già.
Non ci sono parole più belle per esprimere all'amata il proprio amore. “Avendo il tessuto di cui è costituito il cielo, ricamato d'oro, d'argento e di luce, o i tessuti dei colori chiari e scuri del giorno e della notte o quelli dai mezzi colori dell'alba e del tramonto, li distenderei sotto ai tuoi piedi perché la tua purezza è tale che, per evitare che si contamini con altro, smettendo così di essere pura, meriti di camminare su di essi. Ma essendo povero, potendo soltanto sognare di fare quanto detto prima, è questo che stendo sotto ai tuoi piedi, ciò che farei se avessi il potere di farlo e invece posso soltanto sognarlo. Cammina delicatamente sulla mia vita, perché è questa che ho steso al di sotto dei tuoi piedi”.
L'amore, anche se è invisibile e inutile, c'è soltanto per chi sogna a occhi aperti, soltanto per chi sa sognare perché non sa, né ha, nient'altro che i sogni che è.

* Fotografia di Linda Fassari