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giovedì 24 dicembre 2015

Natale Meridiano


- di Saso Bellantone

I fiocchi di neve ondulavano nel cielo come miriadi di altalene appese a fili invisibili. Si muovevano all'unisono, come un'orchestra di fate e folletti svolazzanti in ogni luogo, strumento alla mano. Scendevano lentamente, come il playback di un film non ancora cominciato, e si andavano a depositare sulle case, sulle strade, sulle montagne e sul mare di una Calabria tutta avvolta dall'atmosfera natalizia.
Alberi, luci, palle colorate e stelle ricoprivano per intero i paesi. Presepi semplici o meccanici ornavano gli angoli più in vista o più nascosti dell'interno delle abitazioni, residuo di un sacro ormai scemato nell'ordinario. Panettoni, torroni, cioccolate e bottiglie di spumante occupavano le vetrine dei negozi o le tavolate della gente in attesa della mezzanotte.
Non c'era nessuno per le strade. A parte il ghiaccio, ammassato ai bordi dei marciapiedi, sui davanzali delle finestre o sui balconi, oltre che sui tetti delle case e delle automobili, sui picchi delle montagne e sulla spiaggia.
Era bianca, sì, tutta bianca come una distesa di panna ben spalmata sul pan di Spagna. Non accadeva da quindici anni una nevicata così. Lo stesso mare sembrava un lago calmo attorniato da sponde di neve. Il soffice suono dell'acqua sulla candida battigia ghiacciata spezzava delicatamente il silenzio circostante, evocando quei sogni, quelle visioni, quegli incantesimi e quei desideri che balzano al cuore soltanto questa notte e che soltanto una persona può realizzare, se lo vuole. Quel vecchio dalle universali fattezze, con barba bianca e abbigliamento rosso.
Davanti alla grande luna all'orizzonte, sospesa tra cielo e mare, passò un'ombra. Un suono, prima lontano e quasi impercettibile come il ronzio di una zanzara e poi sempre più vicino e più potente come il rombo di un propulsore, si diffuse tra l'onda e la neve. Poi si udì un fragore e lo scivolare di qualcosa di pesante, molto pesante, lungo la lattea costa.
Era una Harley Davidson. Tutta marrone, lo sterzo grandissimo, sul serbatoio era disegnata una renna. Dietro, attaccata a una staffa introvabile, c'era una slitta, talmente piena di pacchi e buste dai colori inimmaginabili da sembrare una montagna incantata.
Guardò l'orologio da taschino. Era quasi mezzanotte. Doveva affrettarsi, altrimenti avrebbe saltato l'appuntamento. Prese un pacco dalla slitta, diede una carezza alla moto e la renna aerografata sul serbatoio parve muoversi in segno di saluto. Poi si voltò e cominciò a camminare lungo la spiaggia immacolata in direzione del fumo che si alzava, più in alto, sulla strada.

Lazzaro teneva in mano un cartone. Scuoteva ripetutamente l'aria, affinché il carbone ardente non si spegnesse a causa del freddo e della neve. Aveva messo delle castagne sulla griglia di un vecchio barbecue arrugginito. Un taglio di piatto e niente sale, perché non ce l'aveva. Quella sarebbe stata la sua cena.
La barba e i capelli lunghi, indossava degli abiti e un giubbotto logorati, trovati vicino a un cassonetto della spazzatura. Di giorno vagava per le strade del paese, nella vana speranza che qualcuno gli desse quel lavoro che quel suo aspetto trasandato gli negava. Di notte, dormiva dentro una vecchia Ritmo abbandonata sulla sponda di un antico fiume reggino, del quale era ormai rimasto un rigagnolo, ghiacciato dalla bassa temperatura.
Era solo, al freddo, come tutti gli altri giorni, dimenticato da una società fatta a misura di tasse, di teatrini, di potere e di intrallazzi. Ma preferiva così anziché vendere la propria anima a quel diavolo travestito di santo che si chiama conformismo. Vivere di raccomandazioni, di imbrogli, di mutui per ostentare una ricchezza che non si avrà mai nella vita, non ha mai fatto al caso suo. Preferiva essere se stesso, raggiungere gli obiettivi con le sue sole forze, onestamente e con quel niente che aveva. Per questo motivo, forse, oltre che con l'aiuto dei falsi profeti che siedono sulle poltrone decisionali del pubblico e del privato, si ritrovava là, solitario sulla sponda del fiume, a riscaldare delle castagne raccolte da un albero abbandonato e dimenticato come lui, in una terra in cui non ci andava più nessuno.
Pur avendo una famiglia numerosa, nessuno si era mai preoccupato di lui né lo aveva cercato. Da quando aveva l'aspetto di uno straccione, anzi, se qualcuno lo incontrava improvvisamente evitava finanche di salutarlo e cambiava strada. Il padre, pensionato a quarant'anni presso una celebre azienda nazionale di trasporti, era diventato un ubriacone da quando la moglie, sua madre, era morta al pronto soccorso, per ragioni ancora ignote, perché non c'era abbastanza personale per tutti. I nonni felicemente anziani, dicevano che ai loro tempi “C'era lavoro per tutti! Si usciva da un'azienda e si entrava in un'altra, nonostante la fame e la povertà e la ricostruzione post-bellica! Oggi, invece che c'è tutto quello che a noi mancava, è impossibile non trovare lavoro! Throviti nu lavuru!”.
“Throviti nu lavuru!” la stessa frase che gli ripetevano gli zii e i cugini e gli amici e gli sconosciuti, tutti sistemati ai tempi del boom economico e della rivolta universitaria. Era lì che doveva cambiare tutto... in meglio. E invece, scambiando la dignità con un posto di lavoro o un pezzo di carta, è tutto peggiorato. Se a questo si aggiungono le sottili e introvabili trame tessute da oscure organizzazioni per ridisegnare la carta internazionale degli Stati, si capisce che dal peggio alla fine ultima del mondo che è stato il passo è breve.
“Il passo è breve...” si disse Lazzaro, continuando a rinvigorire il fuoco “Ma perché non accade mai?! Perché non finisce tutto?! Possibile che la gente non si renda conto che non c'è altro modo per vivere? Tabula rasa! Cominciare da capo! Non pensano nemmeno ai figli! Preferiscono augurare loro la stessa sopravvivenza a stento, anzi di più, che avviene oggi! Come si può essere così ciechi...”
Riflettendo su questi pensieri, Lazzaro sentì il rumore di passi avvicinarsi nella fredda oscurità. Gli passò un brivido nella schiena e si voltò in direzione del suono, spaventato, dal momento che non era solito ricevere visite, in quel luogo e a quell'ora e, per giunta, nel giorno di Natale. “Dovrebbero essere tutti a festeggiare al caldo delle proprie case e davanti a portate infinite...” si disse “A meno che non si tratti di qualche cane randagio, affamato anche lui, che ha sentito il profumo delle caldarroste e ne vuole un po'”.
Continuò a guardare le buio, stringendo il coltello con cui aveva tagliato le castagne, nell'attesa di scoprire di chi si trattava, quando tra i fiocchi di neve apparve una strana figura che continuò ad avvicinarsi a lui. Era un omone. Indossava un giubbotto di pelle, un pantalone e degli anfibi neri, un cappello di lana rosso, portava un paio di occhiali a goccia, trasparenti, appoggiati sopra un grande naso. La pelle giovane e vellutata come seta, aveva un orecchino e un pizzetto bianco perfettamente curato. Teneva in mano un pacco colorato e la sua espressione era talmente severa da mettere paura persino ai fantasmi.
Ma Lazzaro non provò paura, anzi, per la meraviglia lasciò cadere il coltello e continuò a fissarlo a bocca aperta.

“Posso?” si pronunciò l'omone, indicando la vecchia ruota posta vicino a quella in cui sedeva Lazzaro.
“E tu chi sei?” chiese il giovane sbalordito come innanzi a un miraggio.
“Mi hanno dato molti nomi nel tempo, Lazzaro, ma preferirei che chiamassi N”.
“Enne? Ma che nome Enne? E che ci fai qua? E poi come fai a conoscere il mio...”
“Non importa... Alcune cose sono irrilevanti, Lazzaro. È ben altro che a noi interessa...” rispose l'omone, mostrando il pacco colorato che aveva tra le mani.
“È per me?” chiese il giovane, osservando l'oggetto “Non ho mai ricevuto un regalo...”
“Lo so...” sorrise l'altro “È per questo che mi trovo qui... Posso?” domandò ancora, porgendo il pacco regalo a Lazzaro.
“Ehm... certo!” il giovane passò una mano sul pneumatico e fece accomodare lo strano ospite.
Enne si sedette al suo fianco, gli porse nuovamente il regalo e Lazzaro stavolta lo accettò, non credendo ancora ai suoi occhi. Poi Enne alzò le mani per riscaldarle davanti al fuoco e disse: “Stanotte mi aspettano tante persone, bambini e adulti, ma... credo che per una volta farà loro bene se noteranno che non sono passato... Direi che sono cotte!”
“Che cosa?”
“Le caldarroste!”
“Ah sì, le caldarroste!” sorrise Lazzaro, pensando ancora alle parole dell'altro “Perché non ne prendi una?”
“Volentieri!”.
Enne afferrò una castagna, la schiacciò tra le mani coperte da guanti di pelle neri, e dopo averci soffiato sopra un paio di volte la addentò.
“Buona!” disse “Non lo apri?”
“Cosa dovrei aprire?” chiese Lazzaro, guardandolo con un'aria mista tra lo stupore e la curiosità.
“Il regalo.” sorrise l'altro, sfregandosi le mani sul fuoco.
“Ah già il regalo! L'avevo già dimenticato... Prendine quante ne vuoi!” esclamò Lazzaro, ridendo.
Enne, osservando divertito la scena e mangiando un'altra castagna, diceva:
“Sono davvero deliziose... Buon Natale Lazzaro.”
“Buon Natale anche a te... Come hai detto di chiamarti? Ah sì, Enne! Buon Natale Enne!” disse Lazzaro, guardandolo con riconoscenza.
Dietro quegli occhiali trasparenti, c'erano due occhi grandi e antichi come le fondamenta della Terra. Lazzaro si sentì talmente rapito che all'interno di essi gli sembrò di vedere la storia dell'intero universo, di tutte le cose esistenti, di tutte le civiltà e anche la sua. Provò una pace indescrivibile, come non la provava da tantissimo tempo, e per un attimo ebbe la sensazione di conoscere il perché la sua vita era andata così com'era andata e il perché si trovava là, alle sponde del fiume, davanti alle caldarroste assieme allo sconosciuto di nome Enne.
Poi, come tornato da un viaggio lunghissimo senza mai spostarsi da dov'era seduto, si ricordò del regalo che aveva tra le mani. Così distolse lo sguardo dall'uomo e concentrò la sua attenzione sull'oggetto. Tolse il filo dorato con cura e fece la stessa cosa con la carta. In realtà, i regali erano due: una penna e un diario.
Non ne vedeva da anni e l'emozione fu talmente tanta che il suo viso fu rigato da lacrime di gioia.
“Grazie!” esclamò, asciugandosi con la mano e volgendo lo sguardo all'altro ma l'altro non c'era più. Si guardò intorno, stringendo i regali, ma dello strano omone non vi era traccia. A ben vedere, per terra, vicino al pneumatico su cui l'uomo si era seduto, non c'erano nemmeno le bucce delle castagne che aveva mangiato.
Si chiese se avesse immaginato tutto o se avesse sognato a occhi aperti, eppure la prova che quell'incontro era avvenuto davvero era proprio nelle sue mani ed era costituita dalla penna e dal diario che aveva ricevuto in dono.
“Grazie Enne!” urlò nel buio, le lacrime ancora agli occhi, rendendosi conto che aveva appena finito di nevicare.

Enne salì bordo della motocicletta e girò la chiave del quadro di accensione. La luce del faro anteriore si accese e illuminò le orme appena lasciate dall'uomo sulla bianca spiaggia. Nel silenzio circostante, disturbato dal soffice suono delle onde che finivano sulla battigia immacolata, un'eco si diffuse nell'aria. Qualcuno aveva urlato qualcosa al cielo e lui sapeva di chi si trattava.
Si fermò, e sorrise, pensando a Lazzaro.
“Erano davvero gustose quelle castagne!” pensò.
“Potevi portarmene una, Nicolaus!” disse la renna aerografata sul serbatoio della motocicletta “Sei sempre il solito egoista!”.
“Tanto a te non piacciono le caldarroste!” rispose Nicolaus “Quando arriviamo a casa ti darò delle noci!”
“Noci! Sempre noci! Uno di questi giorni mi licenzio!”
“Ma smettila Erre! Dove lo trovi un impiego migliore di questo! Lavori un giorno e il resto dell'anno sei libero!”
“Vero... però una castagna me la potevi portare, capo!”
“Il prossimo anno... Dai, piuttosto, metti in moto e andiamo!”
“Agli ordini!” la renna accese la motocicletta e il motore cominciò a sbuffare “Ho sentito cosa ha i detto al giovane... Davvero non vuoi portare regali a nessuno quest'anno?”
“Sì. Stavolta ho deciso così. Sono troppo legati alle cose e meno tra loro. È bene che imparino quanto è importante stare insieme e riflettano su come vanno avanti le cose... Questo mondo ha bisogno di una raddrizzata.”
“Anche questo è vero... Ma così non farai piangere i bambini?”
La motocicletta partì veloce e si alzò subito nell'aria, facendo un ampio giro nel cielo. Le voci disperate di tanti bambini in lacrime, davanti all'albero di Natale completamente privo di regali, si alzavano da ogni parte del paese raggiungendo la moto-slitta.
“Che ti avevo detto?” disse la renna, guardando di sbieco il motociclista “Stavolta l'hai fatta grossa Nicolaus!”
“Le lacrime non fanno sempre male...” rispose Nicolaus, sorridendo “Guarda quaggiù piuttosto, Erre!” aggiunse, indicando il fuocherello sul fiume, vicino alla vecchia Ritmo.
Lazzaro, seduto davanti alle caldarroste, aveva cominciato a scrivere.

lunedì 7 dicembre 2015

L'illusione della meta


- di Saso Bellantone

"La vita è l'eterno attraversamento di una tempesta in mare aperto, illusi di poter raggiungere porti sicuri".