IN QUESTO BLOG NON SI PUBBLICANO COMMENTI ANONIMI.

lunedì 20 novembre 2023

GRUPPO 5 TFA

 


Io non so gli altri come vivono gli avvenimenti. Io so che li vivo, intensamente. Anzi, intensa-mente. Nell'oscuro scenario del post-moderno, immersi nella tabula rasa di volti, orizzonti e stelle fisse che è il qui ed ora, a me gli eventi e gli incontri parlano chiaramente, come fiore che nasce in mezzo al deserto. Ed è subito l'aurora.

Ho frequentato per mesi il TFA sostegno e sembrava di stare a Chongqing, in Cina, là dove c'è l'incrocio di strade più complicato del mondo. Cinque piani e quindici sopraelevate che moltiplicati per due (andata e ritorno), danno metaforicamente il numero dei colleghi frequentanti il mio corso di specializzazione. Gente proveniente da ogni regione d'Italia, ognuna con la propria storia, le proprie motivazioni, il proprio sguardo rivolto al domani. Tutti impegnati a seguire le lezioni dall'alba al tramonto, ogni giorno, e poi ogni fine settimana, per fare esami, in una irrefrenabile corsa contro il tempo, gli impegni e le varie scadenze personali, accademiche, lavorative e familiari.

È stato un viaggio sfiancante, lontano da sé e dai propri cari, in direzione della tanto auspicata meta qual è il titolo di specializzazione. Un itinerario fatto sempre dalle medesime tappe, tuttavia, sempre diverse, perché condiviso con un gruppo speciale, a bordo del pullman 5, con solo nove posti. Cambiava solo l'autista: il docente di turno, che ogni volta ci ha condotto in un nuovo territorio del mondo della conoscenza. Ma quei nove posti erano predestinati, come i numeri sulla scala di Fibonacci.

Con tali compagni, il crocevia si è trasformato in un sentiero nel bosco e la meta in una radura, in una consapevolezza altra: tutto è scritto con inchiostro simpatico sulle pagine invisibili dell'ignoto, e si può leggerle soltanto senza vedere.

Come viva musica di un vecchio vinile, ricorderò tali indimenticabili compagni sempre a bordo di quel pullman, unico e raro, ma stavolta verso nuove destinazioni: il Gruppo 5 TFA.

Buon proseguimento amici, allacciate le cinture...

venerdì 4 novembre 2022

Feo, Erasmo, Nietzsche e Bataille


- di Saso Bellantone

Un cane, un Folle, un nichilista e un antiutiliritarista.

Sembra già un accostamento folle ma in realtà tale avvicinamento è più dell'apparenza. È, Follia. Follia con la F maiuscola, di quella buona, Erasmo docet.

Crediamo ormai sia sempre un male, una colpa, un peccato a causa del quale vediamo sbarrata la porta per il paradiso, il valhalla o qualsiasi altra speranza le civiltà umane o singoli individui abbiano prodotto nel corso del tempo, con ragionamenti austeri o stupefatti. Eppure, al di là della latitudine e della longitudine, delle mode e delle abitudini, del dna e della cultura, della provenienza e delle chance, del potere e della sua povertà, del destino e del caso, la Follia può “anche” essere un bene, un pregio, una virtù. Dipende da quale lato e con quali occhi si guarda.

La società nella quale viviamo, a nostro piacere o meno, ci abitua, e ci impone, fin da piccoli, a impiegare soltanto una sguardo, un paio di occhiali, una sola prospettiva e per questo motivo non siamo mai necessariamente pronti, preparati – o predisposti, per quei pochi s/fortunati – a cambiare veduta, lenti o angolazione. Leggiamo gli eventi della vita, la nostra e, naturalmente, quella di chiunque altro passi al nostro fianco – sia quest'ultimo fisico, virtuale, ideale, patologico o mediatico – così come ci è stato insegnato a casa, nelle chiese, a lavoro o in qualsiasi altro luogo della società, sia un pub, la parrucchiera o un supermercato. Interpretiamo gli accadimenti nella maniera in cui siamo stati educati, allevati, cresciuti, ispirati e civilizzati, e lo facciamo per essere inconsapevolmente numerati, cifrati, micro-chippati e dunque essere pre-visti, calcolati, pronosticati, preventivati e catalogati, per essere tradotti, infine, in parti di equazioni inimmaginabili che ingrossano i conti di pochissimi; quei visibili/invisibili, in abito ying e yang, talmente divini da pagare altri per tirare i fili delle nostre scelte e del nostro eterno dannato presente, mentre bevono assieme a noi un drink o si riscaldano con noi al fuoco di una brace provvisoria e periferica.

In questo panorama, non siamo capaci di mettere assieme un cane, un Folle, un nichilista e un antiutiliritarista. Tantomeno di dichiararci, o ritrovarci, Folli. A meno che, non sperimentiamo, realmente, la loro intrinseca connessione.

1) Feo è stato il mio cane. Non c'è altro da dire – la sua storia, la nostra storia, i suoi bisogni, i miei bisogni. Era mio ed io ero suo. Probabilmente, io ero il suo cane.

2) Nel tempo della morte di Dio nietzscheana, la perdita è una delle parole chiave che caratterizzano la nostra esistenza e l'esistenza in generale.

3) La nozione di dépence batailliana è quel punto di vista che consente di mettere a fuoco l'impensabile e tale nozione è sempre un giudizio sintetico a posteriori.

Partiamo dal punto 2.

La morte di Dio nietzscheana, enunciata nel celebre aforisma 125 de La gaia Scienza, tra le tante cose, sottolinea, ricalca, mette a nudo il concetto di “perdita”: azzeramento dei vecchi valori, da un lato; possibilità/impossibilità di qualsiasi piramide valoriale, dall'altro lato. In ogni caso, quel che vien meno, è la certezza di qualcosa, di un punto fisso, di una stella polare che possa indirizzare il nostro vagare o le nostre scelte. Brancoliamo nel buio.

Eppure in questa cieca erranza, continuiamo a sperimentare nella carne e nelle ossa la perdita. Perdiamo il ventre materno, perdiamo l'infanzia, l'adolescenza e tutto quanto vi è connesso: amori, amicizie, speranze, sogni, prospettive, qualsiasi rapporto e relazione. Perdiamo l'importanza che diamo a un genitore, a un parente, un amico o una persona amata. Perdiamo le passioni, i piaceri, i modi di vivere e di pensare. Perdiamo le abitudini, gli usi, il modo di vestirci e la gente da frequentare. Perdiamo l'autobus, il pronostico, il treno che passa una volta sola, il senso dell'orientamento. Perdiamo continuamente la nostra identità e quella che diamo a qualsiasi altra cosa, avvenimento, persona ci sfiora. Viviamo, quindi, la perdita come un principio regolatore dell'esistenza pur essendone inconsapevoli, e proseguiamo il nostro incerto girovagare in direzione di un orizzonte che abbiamo perso già prima di averlo pensato, oltre che visto di sfuggita. Non facciamo altro, in estrema sintesi, che vivere perdendo tutto, nulla escluso, assuefatti dalla sensazione del perdersi per perdersi nuovamente e ancora, ancora... Per questo motivo, niente e nessuno può essere o rappresentare quella feritoia, quel battito d'ali o di ciglia utile per ritrovare se stessi. Perché ciò che perdi non è più tuo e perché ciò che perdi non sei più tu.

E così veniamo al punto 3.

Eppure c'è qualcuno, e non un qualcosa, che vive la perdita in maniera batailliana, come pura perdita, Pura con la P maiuscola, proprio come la Follia di Erasmo. Qualcuno per cui “perdita” non è che un altro modo per dire “dono”. Perché è un dono questo qualcuno e qualunque fatto si possa sperimentare, assistere, vivere assieme a questo qualcuno.

Per questo qualcuno, è un dono perdere il potere di decidere di sé, dei propri tempi, dei propri spazi, della propria vita in toto. È un dono perdere il potere del capobranco, di quel che c'è da fare, dei luoghi dove andare, così come delle persone da incontrare, delle regole da seguire e di quelle alle quali ribellarsi. È un dono perdere la propria natura, i propri istinti, la propria animalità. È un dono qualunque cosa faccia, bella o brutta che sia: starti vicino, quando non vuoi nessuno al tuo fianco, e riempirti di tante di quelle attenzioni innanzi alle quali un altro essere umano è cieco; romperti le scatole, in quei momenti in cui non desideri altro che non avere nulla a cui pensare, e darti tante di quelle responsabilità innanzi alle quali, se solo fossero di natura umana, passeresti dritto. È un dono, a ben vedere – avendo gli occhi per vedere, naturalmente –, anche soltanto avere questa possibilità, quella cioè di stare al fianco di questo qualcuno per il quale qualunque cosa accada è un momento di gioia di stare con te, è un attimo di difesa, di te, è un istante bello, semplicemente perché è con te.

Ma se questo qualcuno fosse umano, non sarebbe niente di quanto detto finora.

E così veniamo al punto 1.

Feo era un dono e anche la sua perdita lo è. Te ne rendi conto solo a posteriori, perché il suo “non esserci più” mostra la sua essenza, e la tua. Ti fa capire di essere, di continuare a essere, “anche” ciò non hai più e di non essere più quel che eri prima. Ti fa rendere conto che tornerai a muoverti alla cieca, perché non era lui ad essere tuo ma tu ad essere suo. E adesso, non sei più la sua proprietà, non hai più una zavorra che ti tiene coi piedi per terra, non hai più stelle fisse.

Feo era un dono non umano, inumano, sovrumano. Se avesse avuto anche la minima parvenza umana non sarebbe stato un dono e non lo sarebbe neanche ora che non c'è più. Perché il dono che ti lascia è il pensiero: a lui, e a te. Così rivedi un'intera vita, da una parte, e l'ignoto, dall'altra.

Feo era la risposta alla morte di Dio nietzscheana, alla perdita cosmologica e antropologica dei valori, al nichilismo che palpita nella terra e nella carne. Era la dépence, la perdita, però in segno positivo: un dare continuo senza voler ricevere nulla in cambio. Un dare e basta che riempiva il niente, il vuoto di Dio. E adesso quel vuoto rischia di restare incolmabile, di nuovo, ancora, senza la Follia di Erasmo. La Follia che ha scandito il nostro percorso, fin che Feo c'è stato, la Follia che deve continuare a dare un senso al percorso, anche adesso che non c'è più. Quella Follia che manca alla società, e alle civiltà, per invertire la rotta e riscoprire, ricordare, rispolverare quanto di buono c'è, o è rimasto, nell'umanità e in ognuno di noi.



lunedì 16 dicembre 2019

SE TARDANO O NON ARRIVANO



- di Saso Bellantone


Restano e volano,
come piombo e piuma,
se le spingi permangono,
se le soffi si perdono,
come piombo e piuma,
le parole
uccidono e salvano,
se tardano,
o non arrivano,
lo stesso,
feriscono.

domenica 3 novembre 2019

TRASPARENZA



- di Saso Bellantone

La trasparenza è limpida, come acqua sorgiva. Chiara, come la luce. Nitida, come paesaggio senza nebbia. Non ha sfumature né imprecisioni. Brilla, senza macchie e imperfezioni.
La trasparenza è pulita, come isola sperduta nell'oceano. Cristallina, come oasi nel deserto. Innocente, come stella remota. Non conosce polvere né inquinamento. È pura, mai infetta e senza contaminazioni.
La trasparenza è sana, come albero da frutto. Dolce, come il sorriso di un fanciullo. Delicata, come i sogni degli adolescenti. Resiste, desiderosa di vita. Vuole se stessa, oltre le cadute e le ferite.
La trasparenza ha cura di sé. Si rialza, si ristabilisce. Cerca l'armonia, con tutto ciò che la circonda. È attenta, a chi le sta attorno. È buona, affettuosa. È soffice, come il cotone e le nuvole.
La trasparenza conforta, calma, rassicura. Guarisce e incoraggia. Dà la pace, stimola. Dà fiato, come l'aria. Lava, come l'acqua. Rinvigorisce, come il fuoco. Fortifica, come la terra.
La trasparenza è il contesto, l'ambiente, l'habitat proprio dell'essere umano. È in essa che quest'ultimo entra e resta in contatto con la propria essenza. Con ciò che è veramente. Con la propria identità.
Essere e realtà sono due facce della stessa medaglia. Sono trasparenti, manifesti, palesi, e l'essere umano per essere tale non può evitare di trapelare, mostrare, rivelare se stesso.
Il “chi” dell'essere umano si diluisce, si amalgama nel “che cosa” emerge, si presenta, si esibisce di lui stesso. L'essere umano è tutto ciò che ostenta, espone, mette in mostra. È ciò che fa vedere, che sbandiera, che sfoggia e che vanta e, tuttavia, è convinto di essere anche tutto ciò che nasconde, eclissa, insabbia e, per questo motivo, è frainteso, travisato, non è capito.
Dagli altri.
Questo è il nodo cruciale della questione, il problema di Aladino, il labirinto in cui ci si perde. L'oblio di essere inevitabilmente immersi in un luogo, spazio-tempo, ecosistema regolato dalla trasparenza, in cui ci sono anche “gli” altri. In cui “si è con” gli altri.
“Io giudico gli altri in base a quel che vedo e a quel che gli altri mettono in mostra”, è così che l'essere umano giudica senza esitazione. Dimentica a priori, però, che lo stesso, all'inverso, vale per lui, e cioè che oltre ad essere colui che giudica è, nel contempo, anche colui che è giudicato dagli altri “in base a quel che loro vedono e a quel che lui mostra di sé”. Dunque, in un caso e nell'altro, si permane nelle lande della trasparenza, di ciò che è visibile, osservabile, toccabile con mano: a partire da questa sfera ed entro tale dimensione si giudica e si è giudicati.
Il fraintendimento, il malinteso, l'equivoco, in questo quadro, non è altro che un'illusione, una giustificazione, una farsa. Convivendo nello stesso habitat con gli altri, tutti al di sotto della fatale legge della trasparenza, non si può pretendere di giudicare in base a quel che si vede e di essere mal interpretati perché non si è manifestato quel che si cela, si camuffa, si occulta. Si è, e quindi si giudica e si è giudicati, per mezzo di quel si vede/si mostra nel contesto comune. Si è mediante i fatti osservati/compiuti e se si dimentica, o si sceglie consapevolmente, di svelare ciò che si custodisce nel segreto non si può poi sostenere di non essere capiti in toto e di essere stati travisati. Si è sempre la trasparenza manifesta, sia nel caso in cui si vesta i panni dell'io, sia nel caso in cui si vesta i panni degli altri.
L'ironia della sorte, o meglio della legge della trasparenza, è che in quest'ultima non esistono equivoci né abbagli, neanche se si decide di nascondere agli altri “parte di sé”, ossia tutto quello che può essere definito come “segreto”. Quest'ultimo infatti, e cioè la scelta di celare ad altri la pienezza di sé, traspare, trapela, emerge lo stesso come “ciò che non è reso manifesto”, che non è stato palesato, mostrato; affiora come “ciò che è stato occultato”, che è stato mascherato, velato. Malgrado sé, il segreto spunta fuori come sudore, aria espirata, energia emanata. Come ciò che c'è nonostante si scelga volontariamente di non mostrarlo. Il segreto filtra, gocciola da sé come l'invisibile che è visibile. È trasparente, ed evidente. Indubbio.
Non ha senso dunque alcuna pagliacciata, maschera e autocommiserazione. Splende anche quel che si lascia nell'invisibile, nell'immateriale, perché tutto è traslucido, opalescente, incontaminato.
Si è sempre trasparenti e la trasparenza che si è resta sempre esposta all'alterità nella sua fattualità. Si è i fatti compiuti e non compiuti, narrati entrambi dalla propria presenza, e il linguaggio può fare poco se si è scevri di tale consapevolezza o si tenta di aggirarla. Il linguaggio ha potere soltanto se si abbraccia la consapevolezza di essere trasparenti, esposti, fattuali, soltanto se si comprende che l'habitat nel quale si vive può essere abitato esclusivamente secondo questa regola inevitabile: tutto traspare, tutto è evidente, tutto è fattuale, concreto, tangibile.
Bisogna avvinghiare questa fatalità, vivere pienamente coscienti di essa.
Se la si evita, o si fa finta di nulla, traspare.
E traspaiono anche le ragioni.
E quando queste ultime non ci sono, o sono superflue, emerge la verità.
Nient'altro.

venerdì 25 ottobre 2019

IO NON GIOCO A DADI



- di Saso Bellantone


La luna tace
eppure parla la sua luce;
il sole sembra una lumaca,
cammina piano, con le antenne tese.
Si fa giorno
eppure resta ancora notte,
dilaga il frastuono
ma divampa il silenzio nei suoi intermezzi.
I piedi senza stasi,
le ombre fuggono all'indietro,
l'aria non picca,
la bandiera è bianca.
Chiarisce tutto la luce
ma l'ignoto sogghigna,
una spalla mi tocca
ma sa già che non gioco a dadi.

lunedì 14 ottobre 2019

L'APNEA È UN CAPITOLO CHIUSO



- di Saso Bellantone

Riemergere.
Respirare.
Non si può trattenere il fiato per sempre.
È una legge naturale, malgrado si continui a credere che si un'opzione. Si è sicuri, anzi, che l'apnea sia il proprio modo d'essere, la propria natura, e, forti di questa certezza, pur incrociando grandi intuizioni, passioni o scoperte rivoluzionarie, alla fine, o si torna a galla o si muore.
È sempre così.
In qualsiasi sfera della conoscenza o della vita decida di fare la sua nuotata, l'essere umano deve decidere se abbandonarsi all'istinto di riprendere fiato o inabissarsi.
Sceglie sempre, tuttavia, di sprofondare, intontito dalla mancanza d'aria, scambiando involontariamente poli e stelle fisse: la follia gli appare come ragionevolezza, l'artificiosità come naturalezza, l'egoismo come altruismo, il male come bene, l'odo come amore, l'orrore come il sublime.
E si perde.
Perennemente in balia delle maree abissali, sbattendo tra gli scogli, incastrandosi tra le alghe e azzannato dagli squali, l'essere umano tenta ancora un'ultima bracciata e un ultimo colpo di pinne nella speranza di raggiungere il relitto che custodisce il forziere.
Eccolo.
Finalmente gli si trova innanzi.
Ancora una bracciata.
Lo tocca.
Prende la chiave che è nella sua anima.
La inserisce.
Gira.
Apre lentamente...
...e un turbinio di onde e flutti lo strappa dagli abissi del mare, riportandolo alla luce del sole, all'aria, contro la sua volontà.
La rabbia e la delusione rendono ciechi.
Poi, però, subentra il respiro.
L'essere umano comincia a riempirsi d'aria.
E ancora e ancora.
E il bagliore comincia ad affievolirsi finché si abitua nuovamente a vedere.
E vede che niente è come prima.
Tutto è all'inverso rispetto a come lo ricordava.
Anzi, forse adesso tutto sta dove deve.
Al proprio posto.
In ordine, chiaro, senza sfumature né sbavature.
Respira ancora l'essere umano.
Se ne rende conto e adesso vuole continuare a farlo.
Avidamente.
Senza sosta.
Ancora.
E ancora.
Perché ogni respiro chiarisce le cose...
Tutto era capovolto, prima, illuminato male, privo d'aria, stantio.
E adesso niente è come credeva.
Neanche lui.
Ma ora l'essere umano lo sa.
Sa chi è e sa bene che l'apnea non è la sua natura.
Sa di essere fatto soltanto di aria e che l'aria stessa simbioticamente è intrisa della sua essenza.
Adesso, sa che il forziere non esiste e che il tesoro, in realtà, è il respiro.
L'apnea è un capitolo chiuso.

martedì 5 febbraio 2019

DOVE FINISCE IL MARE



- di Saso Bellantone

Il mare non finisce sulla battigia né all'orizzonte. Finisce altrove, in un luogo cioè dove il mare non è più e, al contempo, non è ancora.
Malgrado possa sembrare continuamente identico a se stesso, anche il mare infatti è soggetto al tempo e al cambiamento. Sono i nostri occhi a non riuscire a vedere le cose in maniera essenziale.
Il mare si muove, si altera, va verso la sua fine, in quell'ambiente che, contemporaneamente, custodisce la possibilità del suo rinnovamento, del suo ricominciare. Finisce, perché là dove c'è la sua fine c'è, anche, il suo inizio.
Il mare appartiene a questo spazio che salvaguarda la sua fine e il suo inizio. Gli è legato perché senza di esso, nel suo assiduo mutare, non potrebbe tornare a essere se stesso.
Questo luogo che completa il mare, che lo rifinisce, è molto vicino eppure è anche molto lontano. È invisibile ad occhio nudo, non si può toccare con mano e tuttavia c'è, là, nei pressi del mare, e anche qua, distante da esso. È un ambiente ignoto, afono e inodore, per certi versi miracoloso, che là e qua fa sentire la voce e il profumo del mare, il suo richiamo.
Il mare chiama, convoca a sé per mezzo di questo spazio che lo ritocca, che nel farlo finire cioè lo fa iniziare di nuovo; attira l'attenzione, perché nel suo andare e tornare ha sempre qualcosa da dire.
Il mare non ha linguaggio umano eppure parla con le sue onde, le sue maree, la sua apparente stasi, la sua fragranza e si fa capire. Da tutti. Solo che tutti, poi, dimenticano quello che ha detto.
Il mare racconta del suo legame, della sua appartenenza a questo luogo che non lo fa essere più e non lo fa essere ancora, narra di questo ambiente invisibile e intoccabile che lo trasforma e che in questo modo trasmette il suo richiamo.
Il mare parla del tempo e del cambiamento, al di là di un'apparenza eternamente identica a se stessa; parla del finire e del ricominciare. Ecco perché non finisce sulla battigia né all'orizzonte, perché la sua fine, e cioè la possibilità del suo nuovo inizio, non si trova su di un piano, appunto, orizzontale.
Il mare finisce nell'aria, in ciò che è immateriale e intangibile e che, tuttavia, è percepibile. Ma l'aria è anche l'atmosfera e lo spazio profondo.
Il mare finisce nel mistero dell'universo ma è proprio là, così come qua, nell'essere umano, che, perfino, comincia.

giovedì 13 settembre 2018

TRASLOGOS



- di Saso Bellantone

Chiuse di nuovo il portabagagli, salì a bordo della Fiat Kappa e, assicuratosi che tutte le cianfrusaglie poste dietro non impedissero la visuale dallo specchietto retrovisore, partì, per l'ennesima volta, direzione sottotetto. Era il secondo trasloco in due giorni. Aveva dormito una sola notte nell'appartamento di via Guglielmo Radio, dopo averlo pulito e ripulito per due giorni di fila, ma come previsto e anticipato a Federica, e naturalmente passato in sordina, non andava bene. Troppo frastuono notturno. La via Guglielmo Radio era una arteria principale della città e anche la domenica, perfino d'estate, era sempre frequentata da automobili, camion e moto talmente rumorose da credere di ritrovarsele nella camera da letto.
“E ora che facciamo?”aveva detto Federica, mettendosi a sedere sul letto, in lacrime, guardando la piccola Nicole che dormiva placidamente “Come facciamo a dormire?”.
Silvestro alzò la testa dal cuscino ancora avvolto dal sonno, guardò prima lei poi la figlia e rispose: “Intanto proviamo a dormire. Domani si vedrà”.
Ovviamente l'ultima parola toccò mille volte a Federica, che pensò di programmare un nuovo trasloco l'indomani, contattando agenzie, proprietari, santi e diavoli, malgrado gli occhi e la voce di Silvestro mostravano chiaramente la necessità, e l'urgenza, di riposare.
Così il giorno dopo, mentre Rossella, la cugina di Federica appena arrivata, liberava le camere e sistemava scatole e valigie, Silvestro faceva viaggi dall'appartamento in via Radio alla soffitta in via Evoluzione, chiedendosi cosa aveva fatto di male per ritrovarsi, da tre-quattro giorni sempre con la maglia sudata a tal punto che sembrava appena tolta dall'acqua. Non seppe rispondere, tutte le volte che se lo chiese, ebbe solo l'impressione che il suono del portabagagli che si richiudeva fosse qualcosa di più, che lo colpisse dentro, che chiudesse, qualcosa, dentro.
Con questa sensazione ogni volta si recava in via Evoluzione con la macchina carica, con la stessa sensazione si stava recando adesso, nell'ultimo viaggio, con a bordo, lato guida, Federica e la piccola Nicole, ignara e dormiente.
“Ti dovrebbero fare santo!” sorrise la compagna, con un'espressione di scusa.
“Lasciamo stare” rispose sarcastico “San Pietro mi ha mandato un whatsapp, dicendo che comunque ha cambiato di nuovo serratura”.
“Che sei scemo!”
“Sei sicura?” chiese, guardandola con occhi sorridenti “Potrei abbandonare la mia calma serafica e incazzarmi, per il nuovo trasferimento, per il fatto di avertelo detto che la casa era rumorosa, per il fatto che avevi deciso di cercare casa con più calma, come suggerito anche da Davide, e poi hai avuto di nuovo fretta, perché avevo la sensazione che saremmo tornati in via Evoluzione...”
“Ok ok! Sei un santo, sei bravo!”
“Limitiamoci a bravo, va” scoppiò a ridere, seguito dall'interlocutrice, “Lo faccio solo perché c'è anche Nicole. Ma adesso, anche se scoppiasse una bomba sotto casa, la nuova intendo, restiamo qui per almeno due-tre anni.”
“Concordo!” rispose Federica, scoppiando nuovamente a ridere “Ma Davide e Rossella che fine hanno fatto?”
“Hanno preso un'altra strada... eccoli lì che arrivano anche loro con la Ford.” disse Silvestro, notandoli dallo specchietto retrovisore.
Gli amici parcheggiarono di fianco alla Fiat Kappa e, scaricate le macchine, cominciarono a portare su tutto quanto.
In realtà, molta della roba era già stata portata in soffitta da Alessia e Roberta, le figlie di Davide e Teresa, mentre la madre si era già attivata nel fare le pulizie, una volta appresa la notizia da Silvestro che, in mattinata, sarebbero tornati in mansarda.
Davide, Teresa, Roberta e Alessia erano i vicini storici della casetta rosa di via Evoluzione. Abitavano al primo piano ed erano stati i primi a conoscere, alcuni anni prima, quando Silvestro e Federica si erano trasferiti per lavoro a Nuova Città. Una famiglia semplice, umile, pacifica e piena di amore e di sorrisi, che viveva assieme alla nonna. Poi, giunta la notizia di Nicole, Silvestro e Federica erano rientrati al paese natio, e adesso, dopo la pizzata della sera prima fatta in casa da Teresa, i due erano tornati nuovamente al sottotetto di via Evoluzione, nell'incredulità di Roberta e Alessia, nipotine doc, acquisite per il grande affetto provato nei loro confronti. È probabile che anziché il frastuono di via Guglielmo Radio fosse stata propria la pizzata di Teresa a convincere Federica a ritornare in via Evoluzione, una volta appreso che la mansarda era di nuovo libera. Forse era stata la birra con Davide a convincere Silvestro. O forse l'attenzione di Roberta e Alessia, come se non ci si vedesse soltanto dal giorno prima. Comunque sia, il trasloco era compiuto.
Una volta portato tutto in mansarda, Silvestro e Federica cenarono con Rossella, senza la quale sarebbe stato impossibile organizzare un trasloco nell'immediato, mentre Nicole dormiva. Avevano sistemato ogni cosa nello stesso posto in cui si trovava due anni prima e avevano commentato il rapido trasferimento continuando a sottolineare la follia dell'accaduto e a elogiare l'immensa pazienza di Silvestro, il quale rimarcava che per lui San Pietro non avrebbe neanche battuto le ciglia di un occhio solo e la santità se la poteva sognare.
Finito di cenare, Rossella si mise a lavare i piatti mentre Silvestro e Federica uscirono sul balconcino, per fumare una sigaretta. Chiusero la scorrevole e Silvestro ebbe la stessa sensazione che aveva ogni volta che, in giornata, aveva chiuso lo sportello del portabagagli. Sembrava che qualcosa si richiudesse anche dentro di lui. Si affacciò assieme a Federica e i due scrutarono il paesaggio circostante, lo stesso panorama che dava loro pace prima dell'arrivo di Nicole. Si guardarono e proprio nel momento in cui i due dissero contemporaneamente “Siamo a casa.”, l'orologio, il vecchio orologio che avevano lasciato appeso due anni prima, all'ingresso, non funzionante, cominciò a ticchettare.
Si guardarono di nuovo, meravigliati dell'accaduto, e rivedendo velocemente gli ultimi due anni della loro vita nella mente, insieme, dissero di nuovo: “Sì, siamo a casa!”.

venerdì 31 agosto 2018

Luoghi




- di Saso Bellantone

Si è destinati a certi luoghi o, forse, alcuni luoghi sono destinati a noi. Non si sa se sia davvero in un modo o in un altro, eppure vi è una stretta relazione tra io e luogo, tra coscienza e ambiente circostante. È un problema, quest'ultimo, ben chiaro già ai primi filosofi anche se, fino a Cartesio, si dava maggiore importanza alla conoscenza delle cose in maniera ultima e definitiva, entro la quale, molto probabilmente in termini mistico-sacrali e religiosi, si forniva un'interpretazione el singolo essere umano. Con Cartesio, e poi con Galileo e Kant, comincia quel processo di indagine della res cogitans e della res extensa che porterà a una visione scientifica del mondo e a partire da Freud della coscienza umana, allo scopo, così come facevano i primi pensatori, di tracciare una immagine certa di entrambi.
Al di là di ogni metodo e prospettiva con i quali giungere a una comprensione risolutiva dei due oggetti in esame, resta tuttavia il problema della loro relazione, ben più pesante e pressante per alcuni rispetto al possesso di una carta geografica completa che consenta di muoversi con sicurezza nell'universo e nella propria psiche. L'io, cioè, continua a sentirsi legato al luogo in cui si trova, la coscienza all'ambiente circostante nel quale è immersa, l'interiorità all'esteriorità nella quale è calata, la psiche alla corporeità, della quale, tra l'altro, fa parte. Perché vi è questa stretta relazione? A che pro? Vi è una ragione di essa? Uno scopo?
Domande, queste ultime, irrisolte e irrisolvibili, se non in chiave mistica, ascetica, teologica, religiosa, ossia per mezzo di prospettive egoistiche ed egocentriche, le cui risposte non assicurano nulla di vero in merito a quegli interrogativi ma soltanto un progetto di potere e di dominio sugli altri, sia per le cose futili e banali sia per quelle di portata più ampia. Mentre alcuni continuano a illudersi con tali fittizi responsi, altri invece sono consapevoli di essere soli con quegli stessi quesiti; soli e bramosi di chiarirli una volte per tutte. E anche se non ci riescono mai, permangono ciechi nel domandare.
La questione interno-esterno è uno dei pezzi galleggianti del relitto della filosofia, affondato nel mare del tempo e della secolarizzazione. Con Nietzsche, si è giunti alla scoperta che anche il pensiero filosofico è soggetto a una laicizzazione, per cui tutte le vecchie domande o crollano con la filosofia o sono poste in maniera nuova, compreso il dilemma interno-esterno. Se l'essere umano continua a porsi tale interrogativo, allora quest'ultimo merita ancora di essere indagato, concependo il problema però in forma nuova, a partire da altre cornici, presupposti e traiettorie.
Innanzitutto l'essere umano, come sintesi di mente e corpo, è già l'esterno di qualcos'altro, ossia dei processi biologici che alimentano e fanno funzionare il suo corpo. Questa esteriorità, tuttavia, è l'interno di qualcos'altro. Trovandosi all'interno dell'universo, dentro quella galassia, quel sistema, quel pianeta sulla cui superficie/ambiente/atmosfera abita, essa, e dunque l'essere umano, è parte di quell'interno. Dal momento che l'universo, nella sua struttura e composizione, è regolato da forze ed energie, la maggior parte delle quali sono ancora da scoprire e da capire, e dal momento che l'essere umano è (al)l'interno di esso, allora anche lui è ordinato nel medesimo modo ed è condizionato da esse, da forze ed energie che si manifestano in maniera macrocosmica, l'universo, e microcosmica, il corpo umano.
Lo stretto legame che l'essere umano percepisce con un determinato luogo non è altro che il segnale di quella stretta connessione tra lui, in quanto esteriorità e corporeità, e l'universo intero. La questione è che tale segnale è recepito e messo a fuoco per mezzo del pensiero, anche questo parte dell'essere umano, il quale però è astratto e invisibile, tranne nel caso in cui si concretizza per mezzo delle azioni corporee con cui raggiunge precisi scopi prefissati (alimentarsi, dormire, camminare e così via) ed è a sua volta condizionato dalla cultura che gli viene trasmessa, che eredita e che esercita quotidianamente. Proprio la cultura, infatti, è ciò che influenza e suggestiona l'essere umano, la sua psiche, la sua percezione dei luoghi e dello stretto legame che vi è con essi.
Guardando una nuvola, per esempio, si dovrebbe dire di vedere una nuvola ma a seconda della cultura ricevuta si dice di vedere forme geometriche, fantastiche, religiose e altro ancora. Lo stesso vale per i luoghi e i paesaggi.
La cultura è paragonabile a un elastico che può spingere lontano ma può anche tenere legati. Perciò, è lavorando su di essa che è possibile influire sulla psiche umana e aiutarla a percepire le cose, e i luoghi, per quello che sono. In questo senso, si potrebbe dire che un luogo è soltanto se stesso e che non vi è alcun legame con esso, ma secondo una prospettiva macrocosmica, cioè sul piano delle forze e delle energie, non è così. Infatti, se alcuni alimenti possono condizionare la nostra vita e il nostro pensiero, lo stesso vale per ciò che è e resta al di fuori di noi. Così come alcune sostanze ci fanno stare bene o male, allo stesso modo alcuni luoghi sortiscono su di noi lo stesso effetto. È risaputo che vivere in un ambiente degradato condiziona a tal punto da sviluppare un modo di pensare e di pensarsi simile, anche se in alcuni casi spinge a ricercare l'opposto, e viceversa. In questo senso i luoghi hanno un ruolo cruciale nella vita di ognuno, un'importanza tale da deciderne il destino anche sul piano biologico oltre che culturale. Chi vive per esempio in zone montane è abituato alla scarsa quantità di ossigeno presente nell'aria e ritrovandosi a una bassa altitudine soffrirebbe per la maggiore presenza di ossigeno nell'aria, e viceversa. Se tale è l'influenza fisica di un luogo, altrettanto è quella culturale (o la sua interpretazione).
I luoghi sono parte di noi e noi siamo parte di essi. Li vogliamo, li ricerchiamo, in maniera inspiegabile, perché con e per mezzo di essi viviamo grandi emozioni. Da ciò si spiega anche il fenomeno del turismo. Ma oltre che vissuti in maniera irrazionale, occorrerebbe vivere i luoghi in maniera misurata. Ci vorrebbe, cioè, un'educazione ai luoghi sul piano storico, artistico, scientifico e mediante le tante discipline utili per comprendere maggiormente la loro natura, struttura e il loro funzionamento. Ciò chiama in causa un'educazione all'abitare, che significa conoscere l'ambiente in cui ci si trova immersi e, dal momento che la psiche è già immersa in un altro ambiente, il corpo, occorrerebbe anche un'educazione alla propria corporeità.
L'educazione all'abitare, in questa prospettiva, si manifesta duplice, ambiente da un lato e corpo dall'altro lato, ed è possibile con una visione critica dei saperi e delle stesse discipline umane utili per una formulazione di essa. Per enunciarla e formalizzarla è necessario pensare, a partire dalla stretta relazione interno-esterno sopra espressa, e per comunicarla è necessario poi istruire.
Una sfida, perciò, di carattere filosofico, in quanto la relazione interno-esterno si espone al domandare e quest'ultimo, al di là della ruggine tradizionale e dei vuoti estetismi delle mode passeggere, cela sempre i grandi interrogativi sulla vita e sull'universo. In questo senso, nella relazione interno-esterno, io e luogo, coscienza e ambiente, res cogitans e res extensa, e nel fascino che tale mistero suscita ancora, non vi è altro che la domanda sul mistero dell'esistenza, accessibile a partire da qualsiasi luogo e, tuttavia, non ancora risolvibile, e poi quella sulla sua origine e la sua fine, ammesso che di essi di possa parlare, e anche sul nostro destino all'interno di essa.
I luoghi dunque ci parlano del nostro destino, anzi ci chiedono di esso e ci fanno interrogare su di esso. Ci ricordano che il destino è e non è nelle nostre mani, al pari di quello dello stesso domandare. Essere umano, luoghi, domandare sono infatti strettamente connessi in questa parola, il cui significato può morire o risorgere o trasmutarsi a seconda del rapporto che intratteniamo con essa e se lo intratteniamo oppure no.
Per quanto siano soltanto se stessi, da questo punto di vista i luoghi sono anche di più: l'accesso privilegiato a questa parola, sostando con la quale possiamo ancora emozionarci e pensare.

martedì 21 agosto 2018

Chiedimi chi sono



- di Saso Bellantone

“Chi sono?” è una delle domande che l'essere umano ha iniziato a porsi – e in seguito altre quali “Dove sono?”, “Perché sono?”, “A che scopo?” – dal momento in cui ha preso coscienza di essere, esserci, esistere. Un enigma insolubile, la cui inesplicabilità spesso spinge alla resa, lasciandosi persuadere che la propria identità coincida perfettamente con il contingente, la società, la vita così come accade ed è vissuta.
Vi sono dei momenti, tuttavia, in cui la sicurezza radicata nell'evidenza dell'accadere e nella chiarezza della ripetizione va in frantumi e tutto ciò che finora è stato dato per scontato viene messo in discussione. Si vaga nel buio, si torna indietro sui propri passi e si cambia nuovamente rotta ma non si scorge traccia dell'uscita dal labirinto oscuro in cui si è finiti. Si sospende il giudizio, si torna alla vita di prima ma è tutto diverso, adesso. Non soltanto non c'è più la vita così come prima avveniva, non vi è proprio il prima né il dopo. Restano solo il qui ed ora e la domanda che riverbera nella coscienza con tutto il peso di ciò che costituisce l'esistente: “Chi sono?”.
Si potrebbe rispondere in molti modi, senza sapere, però, qual è l'opzione giusta:
  • in maniera mistico-religiosa, e cioè secondo una o più delle interpretazioni con cui gli essere umani traducono in forma rituale il loro istinto teologico e la ricerca del divino;
  • in maniera social-comunitaria, ossia sulla base dell'interpretazione della vita e dei ruoli all'interno dello specifico clan o gruppo cui si appartiene;
  • in maniera tecnico-economica, vale a dire per mezzo del lavoro che si pratica e dei guadagni di cui si dispone;
  • in maniera intellettual-letteraria, e cioè mediante uno o più dei tanti saperi cui si ha accesso;
  • in maniera web-mediatica, ossia tramite le informazioni che è possibile trarre da internet e dai media;
  • in maniera solipsistico-decadente, vale a dire mediante le convinzioni maturate nel tempo, espresse per monologhi, interiori o scritti, spesso accompagnati dall'uso e dall'abuso di sostanze stupefacenti, alcoliche, farmaci e psico-farmaci, consapevoli o no dei loro effetti.
Alcuni si accontentano di una delle precedenti alternative, spesso coscienti di non aver trovato risposta affatto al quesito, vivendo il resto della vita come spettri illusi in un paesaggio grigio fatto di sorrisi falsi e lacrime invisibili; altri non trovano ristoro in nessuna delle precedenti possibilità e continuano a ricercare senza sosta la risposta, in una continua partita a scacchi a tre, assieme alla follia e alla dama nera.
Il pensiero sistemico ed ecologico, d'altro canto, ha evidenziato come un determinato soggetto non sia altro che la risultante dell'ambiente in cui è immerso e vive, in un continuo scambio di influenze reciproche. Un processo di tira e molla, quest'ultimo, destinato a non avere fine e che, pur passando per momenti di apparente equilibrio, si evolve di continuo per mezzo di ogni novità di cui è informato il sistema soggetto-ambiente. In questo panorama, l'identità della persona facente parte di un determinato contesto sociale – a sua volta costituito da micro-sistemi quali la famiglia, il lavoro, la scuola, lo sport e così via – non può essere definita in maniera definitiva; si può pensare, invece, a identità temporanee, destinate a loro volta a essere abbandonate, superate, oltrepassate.
I totalitarismi, e in particolare quello nazional-socialista, protagonista della Seconda guerra mondiale e della Shoa, hanno messo in evidenza come l'identità della persona – si pensi al caso Eichmann –, all'interno di una interpretazione del mondo in chiave mistico-militare totalizzante, possa essere confinata alla mera esecuzione dei ordini ricevuti, senza spazio alcuno per un giudizio personale, figuriamoci morale, pena: la morte. Una parentesi agghiacciante, quest'ultima, della storia umana perché oltre a far luce su altre guerre passate e contemporanee, evidenzia anche il funzionamento del giudizio umano all'interno di un sistema politico-militare basato sull'accentramento del potere e sul terrore. L'identità singolare, in un contesto simile, non è altro che una pagina scritta a matita, perfettamente cancellata dalla gomma della violenza e riscritta dalla penna di chi possiede la sovranità; in altri termini, l'identità del singolo non è altro che quella collettiva, di ogni altro, simile a quella delle api, delle formiche, delle termiti, della catena di montaggio e delle varie tecnologie robotiche che ci circondano, presto sostituite dalle I.A.
Si potrebbe rispondere alla domanda sostenendo di essere carne e mente, hardware e software ma sarebbe troppo banale e si resterebbe all'interno di un circolo vizioso monologistico. L'essere umano non può essere soltanto il proprio corpo e le informazioni ricevute o impiantate nella propria testa, né il frutto di chirurgia estetica, invasiva e non, né le notizie con cui si aggiorna, non è la moda che sceglie di seguire tanto meno il linguaggio che decide di impiegare. Se non è nulla di tutto questo, allora come rispondere alla domanda?
Forse, “Chi sono?” non è un interrogativo a cui si può rispondere in maniera solitaria. Forse, è un quesito del quale si può rispondere a qualcun altro, ammesso che vi sia qualcuno ancora interessato non a sapere dell'altro nella forma del gossip ma a conoscere l'altro, ascoltando personalmente quanto ha dire, in qualsiasi modo egli si esprima.
La domanda “Chi sono?”, ammessa la resistenza di spazi di relazione con l'altro in maniera autentica, diventerebbe dunque “Chiedimi chi sono?”, una domanda completamente diversa dalla precedente in quanto, nella società attuale, figurerebbe anche come una richiesta, un'urgenza di ciò che non avviene più se non raramente e fortuitamente.
È probabile che la fatalità con cui tale domanda-richiesta si presenta, anche quando non è pronunciata palesemente, scandisca il tempo autentico di ognuno e lasci emergere le tracce di quella che potrebbe essere la propria identità ma non vi è certezza neanche in questo. Resta soltanto la speranza della relazione con l'altro in una società abitata da innumerabili cupole di vetro oscurato quali noi siamo.