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sabato 29 settembre 2012

Versieri: O TERRA, ASPETTAMI di Pablo Neruda



- di Saso Bellantone

Riportami, o sole,
al mio destino agreste,
pioggia del vecchio bosco,
riportami il profumo e le spade
che cadevano dal cielo,
la solitaria pace d’erba e pietra,
l’umidità dei margini del fiume,
il profumo del larice,
il vento vivo come un cuore
che palpita tra la scontrosa massa
della grande araucaria.

Terra, rendimi i tuoi doni puri,
le torri del silenzio che salirono
dalla solennità delle radici:
voglio essere di nuovo ciò che non sono stato,
imparare a tornare così dal profondo
che fra tutte le cose naturali
io possa vivere o non vivere: non importa
essere un’altra pietra, la pietra oscura,
la pietra pura che il fiume porta via.

La città uccide. La società uccide. Il contratto sociale uccide. Nel tempo dello Spread e della crisi economico-finanziaria, si lavora giorno e notte e, tuttavia, si è esangui. Tutti i beni, i servizi o le esperienze necessari alla sopravvivenza, ma anche quelli superflui, hanno un prezzo, una tassa, un mutuo, un affitto, una rata, una bolletta, uno scontrino da pagare. Ma il corrispettivo economico che ogni volta si paga, segna in realtà il sangue versato o da versare per avere quel che occorre. Si nasce col sangue e si muore dissanguati, perché tutto costa del sangue. Crescere dei figli, vestirsi, sfamarsi, abitare una casa, curarsi o curare gli altri, connettersi, viaggiare, studiare, respirare, amare, donare, lavorare – tutto ha il suo prezzo vermiglio. Ma ormai la continua offerta di sangue allo Stato non è più sostenibile. Si muore. Si muore per dissanguamento, prima ancora del proprio tempo, prima ancora di aver vissuto. O di averci soltanto provato.
In questo tempo di inevitabile, costante e innumerabile morte prematura di popoli, ci si rende conto che non conviene più restare in città e far parte della società o di uno Stato. L'insostenibilità della vita – anzi della morte – statale, costringe ineluttabilmente a gettare uno sguardo al di là della gabbia di cemento, meccanismi e circuiti finora abitata, ed è in quel momento che si scorge la soluzione. Occorre svincolarsi radicalmente dal sistema dissanguante statale. Tornare alla vita agricola, alla terra, al sole, alla pioggia che cade dentro ai boschi e al suo profumo di terra, alla pace dell'erba e delle montagne, all'umidità dell'acqua dei fiumi, ai profumi della vegetazione, alla vitalità del vento che scuote le fronde degli alberi. Bisogna “voler essere di nuovo ciò che non si è stati”, ossia smettere di essere dei cittadini e tornare a essere ciò che sono stati soltanto i nostri antenati: dei contadini. È necessario imparare nuovamente che l'essere umano non è la creatura centrale tra tutte quelle generate dalla natura, ma ha lo stesso valore di qualunque altra, anche di una pietra, nascosta tra le profondità della terra o portata via da un fiume.
Rileggendo attualmente O terra, aspettami di Pablo Neruda, nel contesto sopra sintetizzato, si ha l'occasione: da un lato, retroattivamente, di gettare uno sguardo critico sulla società e sulla vita cittadina che si conduce; dall'altro, direttamente, di considerare il suggerimento di un ritorno alla natura e alla vita contadina. La città dissangua sì, ma il peso di tale dissanguamento consiste in una concezione della vita che considera l'essere umano il centro della natura e dell'universo. Tornando invece alla terra, l'essere umano rioccuperebbe il posto che gli spetta, in altre parole pari a quello di ogni altro essere vivente. Che cosa cambierebbe, dunque, con questo ritorno alla natura e alla terra? Che mentre in città, per un tempo indefinito, si passa una vita continuamente dissanguata, priva cioè di significato alcuno malgrado tutti i beni, i servizi e le esperienze di cui ci si attornia per mezzo del vile denaro, ritornando invece alla terra si comprenderebbe il significato dell'esistenza, pur vivendo un tempo breve, come poveri nella ricchezza della natura.

mercoledì 26 settembre 2012

Senza alternativa



- di Saso Bellantone
“È inutile che ti chiedi qual è la via giusta da percorrere. Occorre soltanto partire. D'altronde, ogni sentiero conduce a te stesso”.

lunedì 24 settembre 2012

La fretta furtiva


- di Saso Bellantone
"Decelera, non aver fretta. Non vedi che la fretta ti sta portando via il mondo? E se con il mondo portasse via anche te?".

giovedì 20 settembre 2012

domenica 16 settembre 2012

DISsud: le foto 3


- di Linda Fassari
Chiesa e convento del SS. Rosario, attualmente adibiti a sede del Municipio (San Lucido)

sabato 15 settembre 2012

Solitudine e compagnia: crocevia individuale



- di Saso Bellantone
La solitudine è vuota, fredda, triste. La compagnia è piena, calorosa, gaia. La solitudine angoscia, perché è silente, inodore, insipida, buia, surreale. La compagnia quieta perché è fragorosa, profumata, saporita, luminosa, reale. Si vive fuggendo la solitudine, cercando la compagnia. Tentando cioè di riempire quel vuoto, di riscaldare quel freddo, di ravvivare quella amarezza circostante che avvelena il tempo… il proprio. Ci si sente intossicati dal niente, come una clessidra inversa riempita da eterei granelli di sabbia, i cui vetri sono pronti a spezzarsi. I granelli pesano come incudini su di una tela di ragno priva delle sue geometrie, perché ci si sente privi di tutto: dei suoni, delle essenze, dei sapori, dei colori, delle cose, degli eventi, delle persone… di un mondo. Quando si è soli ci si sente come stranieri, quasi apolidi in un limbo cronometrante soltanto la propria dannazione.
A volte, però, le impalpabili sbarre della propria prigione svaniscono in un battito di ciglia. Si avverte uno strano senso di sazietà, di calore, quasi come una panacea svincolante da ogni forma di lancetta. Ci si sente totalmente sani, integri come una sfera di cristallo che non si è mai frantumata in terra. Come una nota che, dondolando su di un rigo assieme ad altre note, prende forma, sostanza, realtà. Ciò avviene quando nel riflesso degli occhi di chi ci sta innanzi e ci sorride, ci parla o ci tende una mano, si comincia a scorgere se stessi… e captiamo l’inizio.
È il principio di qualcosa di diverso, di nuovo. La presenza d’altri frantuma la condizione di isolamento nella quale si galleggiava, svincola dalle viscere dell’incubo imperituro nel quale si era precipitati e offre consistenza, definizione, ebbrezza. Si prova piacere del mondo e della società ai quali si accede per mezzo d’altri e, per restarvi, si fa squadra, branco, gruppo. Ci si influenza a vicenda, ci si contamina per stabilire un’intesa di tempi, di linguaggi, di mode, di gusti, di condotte, di ragionamenti e anche di emozioni. Occorre essere in sintonia su tutto, su qualsiasi fenomeno o situazione concreta o astratta. Pena: l’esclusione dal gruppo e, quindi, la cacciata dal mondo. Quando si esordisce agli altri e nel mondo, la sintonizzazione è ancora latente e lenta, perché gli altri osservano, studiano e compongono il nostro puzzle per tenerci in pugno. Poi, è necessario disciplinarsi, lasciarsi regolare e sottomettersi alla logica comune, per evitare di tornare nella vecchia cella che ci attende con la porta spalancata. In queste occasioni non è facile decidere tra la solitudine e la compagnia. Le prime volte accettiamo di indietreggiare per fuggire la prigione dell’isolamento, ma quando la compagnia comincia ad angosciare al pari della solitudine, perché è diventata vuota, fredda, triste, silente, inodore, insipida, buia, surreale; quando ci si rende conto che gli altri non hanno mai fatto un passo indietro verso di noi ma hanno sempre tentato di dominarci e, peggio ancora, di illuderci, è inevitabile… si preferisce l’emancipazione, l’isolamento, il ritorno all’onirico, all’irreale, alla sospensione di tutto… e intuiamo la fine.
È la conclusione di una interpretazione errata di sé, dell’alterità e del mondo delle relazioni, incentrata sulla totale dipendenza altrui. Si comprende che si dipende dagli altri, sì, ma non da tutti. Soltanto da coloro che, come noi, sono soli perché si sono ribellati al branco e, quindi, al mondo. Ma, in primis, si capisce che si dipende esclusivamente da sé e… dall’aria che si respira, dalla luce del sole da cui ci si lascia irradiare, dalla sicurezza della casa che ci si lascia alle spalle, dall’incertezza della strada che si percorre, dal sasso e dalla terra che ci accompagna nel nostro viaggio, dal fascino dei luoghi e dei paesaggi che si scoprono, dall’acqua che ci disseta, dalla bacca o radice che sazia la nostra fame, dagli odori che ci invasano, dai colori che ci ipnotizzano, dai suoni naturali che ci incantano, dal silenzio della notte nel quale riposiamo. Ma anche, dai libri che leggiamo, dalla musica che ascoltiamo, dalle opere d’arte che contempliamo, dai film che guardiamo, dall’uso della tecnologia che facciamo, dai fatti che accadono o nei quali ci ritroviamo, dai ricordi che riaffiorano nella nostra mente e permangono nel nostro subconscio, dagli umori che ci scuotono, dalle sensazioni che ci possiedono, dai sogni verso i quali ci orientiamo, dai bisogni che ci azzerano, dai complessi legami, meccanismi e processi che regolano il nostro corpo, dai pensieri che ci indiavolano e… soltanto dopo tutto questo, dagli incontri che facciamo.
In questo momento, si comprende che la solitudine è trasformata, alterata, è diventata altro da sé in quanto è abitata dall’infinita schiera delle entità appena elencate e ci si rende conto che non si è mai soli. Una volta compreso ciò, occorre prima trovare l’armonia con la legione di compagni che ci appressa in ogni istante, poi ci si può affacciare agli altri e al mondo delle relazioni, proponendosi come l’armonia stessa che si è. Per evitare la prigione dell’isolamento e quella del branco, occorre trovare una consonanza con la complessità che costituisce se stessi. Trovata quest’ultima, sarà possibile trovare e scegliere dei compagni corrispondenti alla consonanza che si è, in quanto consonanti ognuno con se stesso. Con tali compagni, sarà possibile risvegliare tanti altri alla consapevolezza che ogni consonanza microscopica, ogni individuo, appartiene già a una consonanza macroscopica, all’intero cosmo.

lunedì 10 settembre 2012

Sgabbiati!


- di Saso Bellantone
Chi è in gabbia, tu o la vita? E se la gabbia vi dividesse soltanto? E se fossi proprio tu la gabbia? Allora trasformati! Smetti di essere gabbia, diventa vita. In fondo, tu e la vita siete sempre stati un tutt'uno.

sabato 8 settembre 2012

La Lingua Greca di Calabria (tra passato, presente e… futuro)



- di Franco Tuscano

“I Perifània ton palèon rìzomma!” – “ L’Orgoglio delle (nostre) antiche radici!”

“Nella parte più meridionale della nostra penisola, in alcuni paesi montani che sorgono a metà strada fra Locri e Reggio, gli anziani agricoltori ed i pastori parlano ancora un arcano dialetto greco che, giunto fino a noi  attraverso una tradizione puramente orale, sembra quasi non aver mai avuto un suo passato ed una sua storia ...”.
Così si esprimeva nella sua importante opera: “La Glossa di Bova”, il compianto e mai dimenticato Prof. Giovanni  Andrea  Crupi, il quale, in un’epoca “cruciale” (anni ’70) per la sopravvivenza della  Lingua Greca di Calabria, antichissimo e nobilissimo “idioma dei Padri”, era riuscito, forse più di chiunque altro, a porre la “questione grecanica” nei termini più “incisivi” possibili. (Preciso fin da subito che, “grecanico” è un “etimo” – usato sia come aggettivo che come sostantivo – che non amo, in quanto, nel tempo, ha assunto una “connotazione” che, in parte, reputo impropria, una “deminutio”, e la maggior parte dei “grecanici” non accettano questa definizione, preferendo quella di: Grecofono, Ellenofono o Ellenofono di Calabria, Calabrogreco, Greco di Calabria per indicare il parlante greco; ed ancora: lingua greca di Calabria, Greco di Calabria, greco calabro o calabro greco per indicare il proprio “dialetto”) – Vale a dire – tornando al Crupi –: non si trattava di salvare soltanto una lingua (per altro lingua-madre…), ma tutta una cultura, “le cui origini si perdevano nella notte dei tempi”. Egli lottò strenuamente per dare voce ai “Greci di Calabria”: “Dòste mia fonì ecinò ti den tin èchu” – Date una voce a quelli che non l’hanno”(citaz. del Prof. Filippo Violi), andava ripetendo a tutti, compresi gli studenti di Liceo che, come il sottoscritto, ebbero l’onore di averlo come Docente di Storia e Filosofia. “Greki  ambrò!”, amava ribadire nei numerosi  incontri e convegni a cui partecipava. L’epigrafe in greco (in caratteri latini, com’è in uso nel Greco di Calabria), sul freddo marmo della sua lapide, racchiude, in estrema sintesi, quelli che sono stati i suoi  valori imprescindibili, ciò che ha rappresentato l’essenza della sua  purtroppo breve esistenza:

Eplàtezza ‘zze filosofia, “Ho parlato di filosofia”
Ègrazza stin glòssa tu Vua, “Ho scritto nella lingua di Bova”
Agàpia  tin anarchìa, “Ho amato l’anarchia”.

Ho voluto iniziare questo breve lavoro “dando voce”, doverosamente, ad una delle più importanti figure del “cosmo” greco-calabro, sia per la profonda stima da sempre nutrita nei suoi confronti,  sia perché, è stato proprio in quegli anni (fine anni ’60, inizio anni ’70), che – grazie anche all’opera del Crupi ed all’impegno di altri giovani valenti intellettuali della Bovesìa, alcuni dei quali trasferitisi a Reggio, e con il contributo di qualche importante studioso reggino – si è ricominciato a (ri)prendere coscienza del proprio passato e si è sentito il bisogno di “recuperare”, di riscrivere la propria storia, una storia che fin dalle sue lontanissime origini, trasuda di una grecità profonda, granitica a tal punto da averne “ossificato” l’identità…
In questo “ultimo rifugio dell’ellenismo” (leggi: Area Grecanica-Bovesìa), da ormai 30-40 anni, l’etnia greca di Calabria è al centro di un intenso fermento intellettuale, avente come obiettivo la salvaguardia, la rivalutazione e la valorizzazione del patrimonio linguistico, storico e culturale dell’area.
Siamo “in finibus Calabriae”, nell’estremità meridionale dell’Aspromonte, un territorio in cui, nel corso della sua plurimillenaria storia, si è miracolosamente conservata un’identità linguistico-culturale, rimasta per alcuni versi un “unicum” nel panorama della Calabria intera. È questa l’area in cui vivono (continuano a vivere, fin… dall’VIII sec. a.C.) i Greci di Calabria, “diventati” minoranza linguistica, ma da sempre “maggioranza culturale”, dal momento che le radici, “I Rìze”, “valori eterni”, permeano secoli e secoli di storia, facendo dell’estremo punto meridionale della Calabria, una “terra dall’anima greca”, una “terra greca nell’occidente latino”. Terra, storicamente più orientata verso la “Graecitas” che la “Romànitas”, in cui è del tutto palese, tra l’altro, una “interdipendenza culturale” con l’intera Calabria meridionale, ma, soprattutto, con la Locride, con l’Area dello Stretto, con l’Estremità Nord-Orientale della Sicilia e con la Grecìa Salentina.  
In questo lavoro, concentreremo la nostra attenzione, soprattutto, su quello che può essere considerato il segmento culturale più importante (o, quanto meno, tra i più importanti) della cultura greco-calabra, ovvero la lingua, “elemento” di vitale importanza per la sopravvivenza del tanto variegato quanto affascinante mondo dei “Grèki  tis Kalavrìa”.
Sul “greco di Calabria” o “greco-bovese” (per dirla con il Crupi e con il Rohlfs), moltissimo è stato scritto. Pertanto, questa breve nota non ha né può avere pretesa alcuna, di aggiungere nulla di particolarmente “nuovo”, semmai, vuole semplicemente essere, una pacata ma sentita “riflessione” sulla “glòssa palèa”, sulla lingua dei Padri, per secoli in “travaglio”, in affanno, addirittura in agonia, ma mai morta, nonostante innumerevoli “becchini”, nel corso della sua lunga storia, si siano accostati più volte dinanzi al quasi “feretro greco-calabro”, con lo scopo di poterlo “finalmente” seppellire…
L’origine della lingua greca di Calabria, non è stata mai definitivamente chiarita, e l’acceso dibattito che non ha lesinato “punte” di aspra polemica, tra lo schieramento “rohlfsiano”, che ritiene il “greco di Calabria” diretto discendente di quello della Magna Grecia, e quello “morosiano” (o, “parlangeliano”), che lo vuole invece erede del greco-bizantino (nato, cioè, in età bizantina), ha portato ad una gran quantità di studi, ma non ha – per alcuni – risolto del tutto, i dubbi sulla sua “nascita”. La tesi “megaloellenica” (rohlfsiana), è comunque quella nettamente dominante, e sono molti ad aver attribuito alla teoria “bizantinista” ragioni di ordine “ideologico”.
Senza immergerci nell’aspetto prettamente linguistico, solo “sfiorandolo” a mala pena, diciamo che  Gerhard Rohlfs, ha più volte ricordato che i Bizantini (in realtà: “Romèi”, ovvero, “Romani d’Oriente”, di cultura greca), non hanno lasciato traccia alcuna della loro lingua né a Bari né a Ravenna (ex Capitale dell’Esarcato) né in Dalmazia e neppure in Sardegna, regioni dove, a lungo, mantennero il loro impero.
Se da una parte i “dorismi” e gli “arcaismi”, anteriori alla “Koinè” (IV sec. a.C.), presenti  esclusivamente nel “greco di Calabria”, “tagliano la testa al toro” riguardo l’origine dell’idioma tutt’ora presente – per lo più – nella “Isola Ellenofona  dell’Area Grecanica”, d’altra parte, sono gli stessi storici ad indicare una realistica soluzione ella “vexata quaestio”. Vera Von Falkenausen, in merito, dice: “Sembra che la grecità meridionale si basi su un sostrato greco anteriore, che non si era mai completamente spento e che fu quindi “rianimato” dalla “riconquista bizantina”. L’illustre studiosa, inoltre, esclude un progetto “dall’alto”, da parte di Costantinopoli, che avrebbe comportato una migrazione “pilotata” di popolazioni in grado di “colonizzare”, in senso “greco”, la Calabria. Trasferimenti di gruppi etnicamente omogenei, erano normali in un impero plurietnico come quello bizantino, per esigenze militari e commerciali; ma ciò, “non può essere considerato come uno spostamento di popolazioni numericamente rilevante”; (…)” possiamo calcolare che una flotta di 100 navi, avrebbe potuto trasferire al massimo 15.000 orientali in Italia, se tutte le navi avessero raggiunto la destinazione senza danno”.
Inoltre, i bizantini non hanno mai imposto la propria lingua ai propri sudditi, e, per di più, alla metà dell'VIII sec., la Calabria era già di lingua e liturgia bizantina, tanto è vero che il decreto di Leone III L’Isàurico(732-733), non incontrò nessuna opposizione “in loco” (cosa che invece non si verificherà quando i Normanni cominceranno a “latinizzare” la Calabria, imponendo  la lingua latina e la liturgia di Roma).
Un ulteriore, significativo contributo alla tesi “magnogreca” ci viene fornito, di recente, da una  pregevolissima ed importantissima edizione di 62 epigrafi greche del Museo di Reggio Calabria, pubblicata dalla epigrafista Lucia D’Amore nel 2007. Attraverso la loro attenta lettura, qualsiasi linguista che non abbia posizioni precostituite, può agevolmente rendersi conto, infatti, che la tesi di Rohlfs sulla presenza nella Calabria meridionale, di ellenofoni, fin dai tempi antichi, è qui confermata “scientificamente”, in quanto, le epigrafi  “occupano”  un arco di tempo che va dal secolo VI a.C. al 1.000 d.C., cioè, fino all’arrivo dei Normanni(!)… I testi di queste  importantissime  epigrafi, composti in esametri e pentametri in lingua greca, costituiscono, secondo  l’illustre studioso reggino, Prof. Franco Mosino, “una straordinaria testimonianza per la storia linguistica e culturale di Reggio e della sua “Chòra”; inoltre, egli fa notare che da queste “attestazioni”, emerge altresì, che a  Rhègion,  “si parlava greco e latino secondo la metrica greca”.
Dopo il  piccolo contributo, di cui sopra,  alla tesi “rohlfsiana”, ci piace ricordare che, da vivo, il grande glottologo e filologo tedesco, ricevette onori e riconoscimenti nella Calabria tutta: la cittadinanza onoraria di Bova, la laurea “honoris causa” dell’Università  di Cosenza; molti Comuni, dopo la morte, gli intitolarono vie e piazze, come di recente il paese di Badolato (CZ).
Tornando alla parte più propriamente “storica”, possiamo affermare, quindi, l’ininterrotta presenza della lingua greca durante l’intero periodo “romano” e la nettamente sua maggior diffusione, specie nella parte meridionale della Calabria, dopo la caduta dell’Impero, anzi, essa rappresentò anche la “varietà alta” fino all’XI sec., ovvero, fino all’avvento dei Normanni, i quali diedero avvio – con l’appoggio della Chiesa di Roma – ad una irreversibile inversione di tendenza: linguistica, culturale e religiosa. Gli “uomini del Nord”, infatti, quantunque “nati” predoni e mercenari, si dimostrarono, strada facendo, conquistatori attenti e dotati di uno spiccato senso dell’opportunità politica, e, pur  apparendo tolleranti nei confronti della chiesa greca, iniziarono contemporaneamente quell’inarrestabile processo di “latinizzazione” della Calabria meridionale, che avrebbe condotto, più tardi, alla fine del rito greco e, quindi, anche del prestigio della lingua greca. L’anno 1059 (caduta di Reggio) e l’anno 1081 (caduta di Bari), ad opera dei Normanni, rappresentano due date storiche molto negative, anzi, “cruciali” per il “destino” della grecità in terra meridionale. Le “buie notti” angioine, aragonesi e spagnole, più tardi, sono una perentoria conferma della quasi totale “occidentalizzazione” di usi, costumi, cultura, lingua e religione. Anche nella Bovesìa, ultimo baluardo greco, dal punto di vista  linguistico, culturale e cultuale, la situazione, già compromessa, sarebbe precipitata dopo la fine (leggi pure: soppressione) del rito greco-bizantino, nel 1572/73, ad opera del vescovo armeno-cipriota  Giulio Stauriano. Sull’onda della Controriforma tridentina, al vescovo di Reggio, Annibale D’Afflitto, basteranno pochi decenni (1593-1638), per sradicare completamente il rito greco dalle sue ultime ed ormai umilissime “dimore” intorno a Bova e nelle “Cinque Terre” (diocesi “greca” di Reggio), per trapiantarvi quello latino.
Da questa epoca in avanti, nella “Bovesìa e dintorni”, da lingua di culto e di prestigio, il greco passa  a lingua della “misera plebs”. Nel 1806, dopo una fase piuttosto oscura (anche se la lingua greca trova “ospitalità” – ma in “caratteri” latini –  nelle opere del De Marco, del Mesiani, del Rodotà), l’interesse per il greco di Calabria si riaccese dopo che J.C. Eustace visitò la zona sud-aspromontana e segnalò “popolazioni di lingua greca” e, più  ancora, dopo la pubblicazione sul “Philologus”, di alcuni canti “bovesi” di Karl Witte (1821), commentati qualche decennio più tardi dal Pott (1856). Fu dalla seconda metà dell’800 che cominciò ad aprirsi una profonda discussione sulla origine e la natura di questo “greco-linguaggio”. In particolare (come accennato in precedenza), Giuseppe Morosi (1870-1878), sosteneva l’origine bizantina dell’idioma greco parlato in questi territori e fu una teoria che fino al 1924 imperò incontrastata fino a quando, il più grande filologo, glottologo e dialettologo della storia, l’illustrissimo Prof. G. Rohlfs, non la “demolì”, in modo scientifico. L’illustrissimo studioso tedesco, a cui la Calabria (e non solo) deve moltissimo, produsse un  fondamentale  “corpus  probatorio”, di ordine lessicale, morfosintattico, onomastico, toponomastico, fitonomastico, agionomastico, ecc., raccolto dal 1921 al 1980 circa, anche attraverso visite “porta a porta”, di 350 località in Calabria, spesso  a “dorso di mulo”, con il quale fu in grado di fornire, inequivocabilmente, la prova della ininterrotta presenza del greco “ex temporibus antiquis”.
Ma, parallelamente al crescente interesse degli studiosi per la lingua greco-calabra, si imponeva, specie dalla fase immediatamente successiva all'Unità d’Italia, la necessità di imparare la lingua italiana e di adoperarla non più soltanto per iscritto; presso le classi colte e quelle borghesi, l’esclusione  dagli usi familiari delle varietà dialettali veniva concepito come un passo necessario per il buon apprendimento della “lingua della Nazione”. Lo stesso dovette avvenire nella attuale “Isola Ellenòfona”, rispetto non tanto al dialetto romanzo ma al greco, la varietà più stigmatizzata e percepita lontana dall’ italiano, il cui utilizzo – anche in famiglia – avrebbe solo avuto l’effetto di “inficiare” una adeguata competenza della lingua nazionale. La scolarizzazione obbligatoria, faceva subire alle masse contadine monolingui (parlanti il greco) dell’area, quotidiane umiliazioni e severe punizioni derivanti soprattutto dall’alloglossia più che dall’analfabetismo. Per cui, ben presto, la “dicotomia”: proletariato grecofono analfabeta/borghesia italofona alfabetizzata, scatena il “meccanismo” della discriminazione e della “tabuizzazione” del greco… All’opera di “demolizione” della lingua greca, pertanto, non sono estranee cause di natura psicologica, in quanto, viene  “pilotato” dall’alto il concetto che tutto ciò che non è cultura nazionale in lingua, è sottocultura, “avanzo ancestrale”… concetto,  che viene interiorizzato  dai “grecofoni” che ormai “percepiscono” il loro idioma e la loro (quantunque, plurimillenaria) cultura, come espressioni di inferiorità di razza e di civiltà (!)… di cui bisogna “liberarsi” cercando altre identità… (“Sic transit gloria mundi”, mi verrebbe da dire…).
Inoltre, le comunità dell’Area Grecanica (e non solo), vengono “investite” da un saldo migratorio rilevante, che diventa critico, a ridosso degli anni ’50, ’60 e ’70, derivante, soprattutto, dallo svuotamento delle aree collinari e montane, in cui, tradizionalmente, erano insediate le popolazioni ellenofone. Come se, in un certo senso, la scoperta di un mondo “nuovo” (Italia, Europa, Americhe, ecc.), diventa, contemporaneamente, la quasi fine di questo “vecchio” mondo, quello dei Greci di Calabria.
A ciò, si aggiungono le alluvioni che si succedono negli anni ’50 e ’70 nell’enclave greca e che compromettono la sopravvivenza “materiale” delle comunità nell’entroterra pre-aspromontano, con “l’ineludibile effetto” di giungere all’impoverimento, alla “deplezione” della memoria, il cui “trend negativo”, rischia di cancellare completamente tradizioni e lingua… A tal proposito, il linguista olandese Dimmendaal, sottolinea quanto sia di vitale importanza per la lingua, rimanere “in situ”, sostenendo che, “i cambiamenti nell’assetto economico e sociale delle comunità alloglotte, possono non essere decisivi nella “sostituzione linguistica”, se la popolazione o una parte di essa rimane “in situ” (l’esempio di Bova-Chòra, nello specifico, è assolutamente “probatorio”).
Secondo un’indagine effettuata sul campo, alla fine degli anni ’90, in seno alla quale vennero interessati circa 300 studenti delle scuole medie ed elementari della Bovesìa, è emerso che il “greco di Calabria”, viene considerato “lingua dei vecchi” e non “intriga” le giovani generazioni che, in generale,  non lo parlano pur comprendendolo passivamente per un 15% circa. La risposta, però, quasi plebiscitaria dei ragazzi all’item: “ti dispiace che il greco di Calabria stia scomparendo?” (con…  l’88% di risposte affermative), deve essere “tesaurizzata” da chi ha a cuore le sorti di un patrimonio così importante da rappresentare un bene immateriale unico…               
Oggi, con un ritardo di oltre 50 anni dall’entrata in vigore della Costituzione Italiana – il cui Art.6 “tutela, con apposite norme le Minoranze Linguistiche” – abbiamo finalmente una Legge Nazionale, la n. 482 del 15 Dicembre 1999, nonché, la Legge Regionale 15/03 (con le sue “appendici”), ed il D.P.R. 345/01. Ma, qual è lo stato attuale della lingua greco-calabra nell’Area Grecanica? Quali sono i “limiti” ed i territori ammessi a tutela? E quali veramente ellenofoni? Amministrativamente, l’Area Grecanica comprende 16 Comuni che da Reggio e Cardeto si “spalmano”, da occidente ad oriente, nella fascia pre-aspromontana e nella costa ionica fino al Comune di  Samo. Questa organizzazione politico-amministrativa non rispecchia, comunque, quelli che sono gli effettivi “confini linguistici”, per cui bisogna distinguere i territori dove ancora persiste l’antico idioma, da quelli in cui l’ellenofonia è pressoché estinta, “specificando” che esiste una “Area Culturale Grecanica”, che ha nel suo “cuore”, quel “diamante incastonato” che è l’Isola Ellenofona  o Grecofona, testimonianza vivente di un mondo linguistico che è stato per secoli e secoli, “denominatore comune” non solo dell’attuale Area Grecanica ma di gran parte dell’intera  Calabria. Questi Comuni “ellenofoni” sono: Bova, Bova Marina, Condofuri (con Gallicianò), Roghudi e Roccaforte del Greco: piccoli paesi in cui oggi, più che mai, è importante riscoprirne le “radici” che svelano, anche ad un visitatore un po’ distratto, il carattere che rende unica questa terra: la “grecità”! “Rize”, spesso trascurate dalle poche “memorie di carta” di questa terra, ma che è necessario salvaguardare affinché si ponga un argine e si arresti la “diaspora”, la “emorragia”, l’abbandono dell’entroterra, con il favorire la permanenza, in questi siti, dei “parlanti”, delle loro famiglie e dei loro concittadini. Si può dire che Bova, e – con encomiabile sforzo – anche Gallicianò, siano stati in tal senso, antesignani, in quanto hanno scommesso sulla antica lingua e cultura dei Padri (“in loco”), riuscendo, così facendo, anche a valorizzare in maniera esemplare, emblematica, quelli che sono considerati, a ragione, due fra i “Borghi più belli d’Italia”.
Ed andiamo ad affrontare, ora, il “nocciolo del problema, ovvero, la “obbligatorietà dell’insegnamento” nelle scuole dell’obbligo. L’auspicio è che il Legislatore Regionale possa modificare il dettato legislativo, trasformando l‘insegnamento della “lingua di minoranza”, da “servizio a richiesta”, in obbligo scolastico, in modo che concorra, a pieno titolo, alla “formazione” dei ragazzi. L’Area Grecanica, quantunque, in un tempo passato (ma non trapassato), territorio “monolingue” (greco), non è allo stato attuale – realisticamente – un territorio bilingue, come quello altoatesino, valdostano o friulano (le cosiddette “minoranze frontaliere”), in quanto, se si fa eccezione per una ridotta minoranza di “locutori” (per fortuna, in evidente “crescita” – quantunque “scolastica” – in alcuni  paesi), appare lapalissiano, che la speranza della sopravvivenza della lingua greca di Calabria sia riposta soprattutto nella scuola. È auspicabile che le istituzioni scolastiche della Provincia, ricadenti nell’Area Grecanica, facciano però il loro dovere e consentano  l’applicazione – attraverso i Progetti – delle norme di legge (finora sostanzialmente disattese), ed attivino – in attesa dell’auspicata obbligatorietà – corsi di insegnamento, anche extra-curriculari, che, a partire dalle scuole materne accompagnino i ragazzi fino ad almeno le scuole medie. Se applicate, le leggi 482/99 e 15/03 (oltre al D.P.R. 345/01), contengono già norme specifiche per l’insegnamento delle lingue minoritarie nelle scuole delle comunità linguistiche “riconosciute”. Si tratterebbe, in definitiva, di riconoscere il diritto degli appartenenti a tali minoranze ad “apprendere’’ la propria lingua-madre (o, forse, di… “riappropriarsi” di essa). Bisogna confidare,  altresì, in una maggiore sensibilità e senso di appartenenza anche da parte degli stessi dirigenti scolastici. E che le stesse Università facciano la loro parte attivando – “ope legis” – corsi di lingua in via sperimentale.
In conclusione, non si può non rimanere in attesa di una effettiva applicazione delle leggi di tutela  già esistenti, e, ancor meglio, del più che auspicabile insegnamento nelle scuole primarie e secondarie di 1° grado, altrimenti – nonostante gli sforzi compiuti in questi ultimi anni, dalla Provincia di Reggio Calabria e dalle numerose Associazioni Culturali Ellenofone presenti nel territorio – le lingue minoritarie, non “frontaliere”, sebbene, fondamentali segmenti di antichissime  culture, corrono concretamente il malaugurato rischio di scomparire completamente nel giro di qualche decennio…
In definitiva, però, il “patrimonio genetico” di una cultura plurimillenaria, che conserva tratti di preziosa rarità, e, addirittura, di assoluta unicità, non si può pensare di riuscire a salvaguardarlo ed a rivalutarlo solo con l’applicazione di leggi di tutela, ma, deve essere “in primis”, un vivo interesse del cuore, una appartenenza consapevolmente vissuta… La tutela della memoria storica, per quanto poco “cartacea”, può giocare un ruolo primario, se vissuta, non in termini “nostalgici” (“Io dico memoria, passato, nel senso di riappropriazione e non di pura nostalgia…”).
Anche per questo, e per amor del vero, va riscritta la storia dei Greci di Calabria, in quanto quella (poca) già scritta, si presenta come una “storia negata”… Sarebbe necessario promuovere una “nuova stagione” di contributi storiografici, condotti deontologicamente e nella direzione della formazione di una corretta coscienza storica.
La lacunosa conoscenza del proprio percorso storico da parte dei “Grèki tis Kalavrìa”, unita alla sensibilità ancora scarsa da parte di Enti ed Istituzioni (come già accennato), costituiscono tutt’ora ulteriori ostacoli per la valorizzazione dell’importante patrimonio storico-linguistico-culturale-religioso del territorio greco-calabro. Per fortuna, le Associazioni Ellenofone – ribadiamo – hanno avuto un ruolo fondamentale, quasi da “supplenza istituzionale” nell’ambito, soprattutto, della difesa del patrimonio immateriale, caratterizzato da una tale peculiarità, da indurre la Regione Calabria (con il sostegno delle Provincia di Reggio Calabria e delle altre Province calabresi) a far approntare un dossier per una ambiziosa candidatura Unesco – delle Minoranze Linguistiche Calabresi – come Patrimonio dell’Umanità.
Mi sia consentito, infine, di stigmatizzare quegli “sporadici rigurgiti di campanile”, di qualche singolo “ellenofono” (o, pseudo-tale), che non giovano – in quanto tese più a dividere che ad unire – alle comunità “greche di Calabria”, che invece hanno bisogno di coesione per alimentare assieme e cementare il comune, granitico “spirito greco”, vivendo fino in fondo l’emozionante privilegio di essere (senza, per questo, voler stabilire “gerarchie culturali” che non esistono...), i legittimi eredi  di quella cultura che è stata l’elemento fondante della civiltà occidentale e di quella antichissima “glossa”, per secoli, “lingua del cuore” di gran parte delle popolazioni del Meridione, e che le inossidabili comunità grecofone della Bovesìa hanno ancora l’onore di condividere e di esserne  suoi orgogliosi e gelosi custodi…

giovedì 6 settembre 2012

Gran brutto periodo per il pensiero critico



- di Gianmarco Iaria

Velocità, velocità, velocità. È questa la regola del mondo post-moderno. Velocità di pensiero, di azione, di reazione. Velocità nei rapporti umani, nelle interazioni sociali. Velocità di memoria e di oblio. La società dell’I-live, in cui i fili che collegano una persona con il suo prossimo sono ormai quasi totalmente virtuali, si basa sulla velocità. La lentezza è, per l’appunto, parafrasando una celebre espressione di Celentano, “lenta”; il dinamismo è “rock”, è forza, esprime vitalità, fa apparire meglio di quanto non si è. Sembra non ci sia più posto per la riflessione accurata, che per i canoni attuali richiede troppo tempo; c’è troppo altro da fare per potersi concentrare su una cosa sola, svilupparla, conoscerla in ogni particolare, analizzarla e imbastire un minimo di pensiero critico. Gran brutto periodo per il pensiero critico. E non serve nemmeno andare troppo oltre per capirlo: basti pensare ad un’espressione che ha caratterizzato l’ultimo secolo, attraversando trasversalmente diversi periodi storicamente determinanti per la condizione socio-economica del mondo occidentale; l’industrializzazione, il “boom economico”, la lotta di classe e il materialismo dialettico di marxiana memoria hanno avuto, per diversi motivi, come punto focale l’ “elevazione delle masse”. Che bella espressione, vero? Un popolo schiavizzato dalla logica finanziaria, sottopagato, subordinato al potere economico di pochi pezzi grossi che riescono a gestire a loro piacimento anche il potere politico, d’un tratto si risveglia, si accultura, prende coscienza della propria condizione e lotta per la sopraffazione degli oligarchi che stabiliscono le sorti del mondo, convincendosi della propria forza derivante proprio dal numero, della serie: “Siamo di più, armiamoci e partiamo”. Nulla di tutto ciò, purtroppo. De André, nella sua canzone “Un Blasfemo”, raccontava la storia di un pover’uomo, dedito all’alcool ed alla vita dissoluta e libertina, che viene ucciso da due guardie bigotte; i versi che spiegano l’ideologia del blasfemo raccontano di come egli si allontana da Dio perché crede che sia stato Dio stesso, donando all’uomo l’Eden, a nascondergli l’esistenza del male, ingannandolo. Quando l’uomo si mostrò troppo curioso, decidendo di mangiare la fantomatica mela, l’Onnipotente lo punì inventando il tempo, e quindi, la morte. Una canzone dal senso metafisico, si direbbe; tuttavia è con l’ultima strofa che essa raggiunge un fortissimo significato attuale, moderno: “Ma se furon due guardie a fermarmi la vita / è proprio qui sulla Terra la mela proibita / e non Dio ma qualcuno che per lui l’ha inventato / ci costringe a sognare in un giardino incantato.” Quattro versi dalla ferocia inaudita, che condannano l’ammorbamento dei sensi di cui è vittima da tempo immemore la classe dei “non potenti”, di cui è fautrice la classe di chi può, di chi ha. Nulla è lasciato al caso: gli avvenimenti, le leggi, gli sport, la tv, il cibo, i vestiti, le persone, le parole, ogni cosa, ogni aspetto dell’esperienza umana che può avere un qualsiasi tipo di influenza sulla mente diviene strumento di controllo, di pressione ed oppressione. Ogni cosa si sussegue, e viene sfruttata secondo il grado di importanza che può rivestire in un dato periodo di tempo: lo scandalo del politico, la vittoria della squadra del cuore, l’omicidio, la bomba che scoppia ed uccide. Tutto viene utilizzato. Tutto serve per riempire. Il vuoto è pericoloso. Il vuoto, se c’è, è spazio libero: e lo spazio libero è genera il pensiero libero. Ed il pensiero libero genera la critica; e la critica  genera la presa di coscienza; e la presa di coscienza genera la rivoluzione.

lunedì 3 settembre 2012

OLTREWEB Dall’afa alla pioggia in crisi


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
temporali si avvistano all’orizzonte. Acquazzoni, segnalati da tuoni e fulmini affamati d’afa come avvoltoio bramoso della prossima carcassa. Il vento fa la sua parte. Avvicina alla costa, con la sua furia, grandi masse di nuvole nere, cariche di pioggia pronta a lavare via, molecola per molecola, i vapori di una stagione estiva abbrustolita dalla follia della verità: la crisi.
I paesi sono stati semivuoti per la maggior parte della stagione. Il turismo scarso. Le attività commerciali sono state abitate da ombre, tele di ragno e spettri. Le strade sono rimaste immobili, come le stesse case abitate da morituri, in attesa del colpo di grazia che tarda sempre ad arrivare. Si è speso con cognizione di causa. Quanto si è potuto. Si è pesato il centesimo, per assicurarsi di pagare le tasse, tutte le tasse, e garantirsi un boccone a testa.
Ma questo è quanto è avvenuto nelle ore diurne. Durante la notte, tutto è cambiato. I paesi si sono popolati dei soli propri abitanti. È apparso qualche turista. I commercianti hanno asciugato la loro fronte. Le vie dei paesi hanno preso vita, assieme alle abitazioni improvvisamente pregne di parole, rumori e cin cin. Ci si è lasciati andare. Non si è badato a spese, tasse e quant’altro ma soltanto a dimenticare la folle disperazione della crisi dentro un bicchiere, pieno di sogni di vite e di luppolo.
Si è andati avanti così per tutta la stagione, spezzati nel corpo e nella mente da una crisi, valoriale ed economico-finanziaria che si è toccata con mano. Tutti l’hanno tastata. Tranne i piccoli, protetti dalla loro stessa innocenza, i giovani in attesa che Eros li colpisse con una delle sue frecce, i vecchi abbandonati alla solitudine di una casa vuota, e i pazzi preservati dal labirinto che il destino ha riservato loro o che loro stessi hanno creato da sé e per sé.
Adesso, però, che le corvine nuvole aprono le proprie cateratte e rilasciano la pioggia per lavare via l’estate, tutto cambia di nuovo. L’aria diviene più fresca e tale frescura sembra chiamare ognuno per nome. Sembra invitare ognuno a uscire fuori dalla propria abitazione e da se stesso, verso quell’ambiente in cui non è giorno né notte ma è soltanto piovoso. È un richiamo irresistibile. La pioggia sembra quasi un evento miracoloso, quasi una panacea, malgrado il malore sia uno soltanto. E allora ecco che ci si abbandona alla pioggia, ci si lascia inzuppare da Lei per alimentare quel niente di speranza rimasto nella parte più remota di se stessi e appena apparso innanzi ai propri occhi. Il sogno, cioè, che la frescura dell’acqua si porti via la malattia penetrata nella carne oltre che nella mente: la follia della verità, la crisi.
Ma la pioggia, mio caro web, non è soltanto pioggia. Il farmaco per curare la crisi, puoi scoprirlo soltanto tu e, forse, tu e la pioggia siete la medesima entità.
Medita web, medita…