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giovedì 22 dicembre 2016

Ciao Natalino...


- di Saso Bellantone

Alcune persone fanno pensare ad Edward Bloom, protagonista del film diretto da Tim Burton, tratto dall'omonimo romanzo di Daniel Wallace, Big fish. Le storie di una vita incredibile (2003). Quando racconta le storie assurde e fantastiche che ha vissuto – ha conosciuto un uomo alto 5 metri, un uomo lupo, una strega dall'occhio di vetro e ha catturato un grande pesce che nessuno è mai riuscito a pescare –, Edward non viene creduto da nessuno e viene considerato un pazzo ma quando si ammala e, alla fine, se ne va, ecco che tutti si ricredono, scoprendo che dietro quei racconti fantasiosi si celavano davvero delle verità.
Così come per Edward, allo stesso modo è per molte persone quando se ne vanno via, come nel caso di Natalino Tripodi. Un uomo d'altri tempi, contrassegnato dalla garbatezza dell'essere, da sani principi, onestà, bontà, spirito di sacrificio e amante della semplicità, decisamente fuori posto, anzi fuori tempo, in quest'era marchiata della mera e vuota apparenza, dalla sfrenata follia social e virtuale specchio di quella concreta, dall'avido arrivismo voltafaccia, dalla “professorite acuta” che ha infettato, ormai, tutti quanti.
Tutti chattano, commentano, sia al bar sia sul social, muniti della propria laurea in (in)competenza generale, lavandosi così la mani e la coscienza e lasciando che il mondo cada, mentre Natalino si assumeva umilmente le sue responsabilità, senza vantarsi dei suoi studi, firmando sui giornali, sul blog personale, nelle trasmissioni radiofoniche o nei libri il proprio pensiero, le proprie analisi e i propri suggerimenti per cambiare le cose, per contribuire al cambiamento, per le future generazioni.
Tra musica e parole, trasmissioni radiofoniche, articoli, interviste, libri e, per chi ne ha avuto la fortuna, conversazioni reali, Natalino ha fatto la differenza. Ha inteso il suo essere nel mondo come una compagnia da donare agli altri, una disposizione d'animo senza pretesa alcuna se non quella di servire l'altro nel rispetto totale della sua persona, informando o fornendo prospettive alternative su fatti, eventi e questioni locali e internazionali, oltre che esistenziali, capaci di far crescere sul piano intellettuale il proprio interlocutore.
Natalino ha raccontato di mercanti, di principi, di appuntamenti galanti, di ricordi, di amore, speranza, coraggio, amicizia – storie inventate e per questo motivo irreali, che nulla servono al mondo di oggi, basato su calcioscommesse, paparazzi, delitti irrisolti, previsioni meteo e quattro salti in padella. Così ha sempre pensato la gente. Quella stessa gente vanitosa, affarista e piena di sé assente durante le presentazioni dei suoi libri “perché non c'era pesce fritto o arrostito”, che ha “chiesto” i suoi libri non per leggerli ma per tenerli parcheggiati in qualche mensola o cassetto di casa propria “per favore” o in quanto moda del momento, che ha rifiutato la sua compagnia e di fargli compagnia, specie nel momento di estremo bisogno, segnato dalla scomparsa dell'amata moglie.
Un evento tragico e improvviso che ha fatto scattare un conto alla rovescia, conclusosi giorni fa con la scomparsa dello scrittore per male d'amore. Per cinque anni Natalino ha combattuto la solitudine aumentando la mole dei suoi scritti, alcuni ancora inediti, altri pubblicandoli nel blog “Ut unum sint”, una pagina di diario internet che riflette la visione della vita della scrittore. “Che siano una cosa sola”, questo il significato del latino, Natalino ha vissuto nella speranza di contribuire all'unità di tutti i popoli nell'amore e nel rispetto dei valori umani, filtrati dalla conoscenza e dal dialogo.
Ricordo ancora quando assieme ad un amico lo agevolammo ad aprire e a curare il blog: era felicissimo, perché adesso poteva riprendere ad aiutare il mondo stesso a migliorarsi, per mezzo della riflessione, del ragionamento, dello scambio di prospettive. E da allora ha scritto davvero tanto, su qualsiasi argomento, illuminando ogni questione con la luce del buon senso. Ricordo ancora il primo libro: era felicissimo, perché ora poteva trasmettere ai più giovani i valori essenziali su cui fortificarsi e con cui guidare i propri passi. Ricordo ancora quella volta in cui a casa sua mi suonò e mi cantò la canzone dedicata a Nuccia: era emozionatissimo, sembrava fosse ancora lì assieme a noi e stesse dicendoci di non cantarla perché si vergognava.
Oggi che non c'è più, tutti – specie chi non ha letto nemmeno un post del suo blog – parleranno di lui, della sua intervista a Mimì, della sua grande vena artistico-letteraria e di quante cose hanno fatto insieme, prendendosi dei meriti “davvero immaginari” rispetto a quanto Natalino scriveva e pensava. I suoi scritti non sono altro che la sua anima, rinnegata da quella stessa gente che in vita Natalino ha voluto servire gratuitamente, per trasmettere quelle “verità” solide oltre il tempo e dietro le parole, di cui qualsiasi civiltà o comunità ha bisogno. L'amore vero, provando il quale tutto è pura poesia, l'amicizia e il rispetto veri, anche nei confronti di chi, come Zanna, manca soltanto della parola, il coraggio di combattere quotidianamente contro il male senza comunicati stampa e striscioni, la speranza in un mondo migliore possibile nella fermezza nelle proprie convinzioni e nella perseveranza nelle proprie azioni con coerenza, umiltà e rispetto delle leggi, la memoria della condizione umana nel fluire del tempo e nel cambiamento dei costumi.
Così come nei suoi scritti, stare con Natalino ti faceva sentire bene. Qualsiasi pensiero fuggiva via innanzi alla pacatezza e all'allegria che lui aveva, nonostante la difficoltà degli ultimi cinque anni. Era come trovarsi nel mondo vero, dove non vi era traccia della degenerazione totale della società e dove vi era posto soltanto per la bellezza della relazione, per l'amicizia vera e sincera, con e senza parole, nella totale comprensione e nel reciproco rispetto, nel piacere della consapevolezza. Non volevi nient'altro.
Con lui se ne va un titano, un uomo vero, una mente brillante e un cuore puro; una quercia secolare le cui radici, assieme a quelle di pochi altri uomini come lui, hanno finora tenuto salda la terra su cui camminiamo, malgrado nessuno se ne fosse accorto.
Ora invece tutto si sgretola, frane e smottamenti cancelleranno definitivamente la società passata e, forse, tutti se ne accorgeranno.
Speriamo non sia troppo tardi.
Ciao Natalino,
grazie per la “stoffa preziosa” che mi hai donato: la tua amicizia.
Continuerò a custodirla gelosamente.

sabato 3 dicembre 2016

Un giorno NO


- di Saso Bellantone

Avete presente quei giorni in cui non avete voglia di fare nulla? In cui vorreste restare a letto per tutto il tempo e, invece, siete costretti ad alzarvi? In cui, una volta alzati, tutto va storto?
Bene. Questo è uno di quelli. Un giorno no.
È domenica mattina. Oggi non si lavora. Si può oziare serenamente tra le coperte o continuare a dormire, lasciando tutto alle proprie spalle.
E invece no!
Non solo lei ti ha costretto a dormire in posizioni circensi per tutta la notte, dicendoti “Ho freddo, abbracciami!”, non solo lei ti ha rubato le coperte per tutta la notte, trasformandoti in un pinguino, non solo lei ti ha sfrattato dalla tua parte del letto perché la sua non le bastava, costringendoti a dormire in bilico tra lo spigolo del materasso e il vuoto, lo stesso vuoto percepibile dalla terrazza di un palazzo di 50 piani, ma adesso ti prende a gomitate, calci, testate, continuando a dormire placidamente. Guardi lei e poi il soffitto, oltre il quale un dio burlone sembra darti l'ok dall'alto dei cieli e, sospirando, lasci che i tuoi timpani siano perforati dal dolce suono simile a quello di un boing 787, proveniente dal piano inferiore, dove, alle 7:00 di mattina, una brava donna ha pensato di cominciare in anticipo le pulizie extra della casa, partendo dall'aspirapolvere.
“No! l'aspirapolvere no!”
È fatta. Non puoi riposare. Sei costretto ad alzarti e a cominciare la tua giornata prima del previsto, perché sei figlio di uno zio minore, dal momento che dio ti guarda dall'alto con occhiali 3D e popcorn, incitandoti a proseguire.
Bene. Sposti le coperte e lasci che il freddo della Siberia accarezzi il tuo corpo per rassodarlo un altro po', visto che il trattamento congelante notturno non è bastato.
“No! Il freddo no!”
Ti alzi velocemente dal letto e appoggi i piedi per terra, nella speranza di raggiungere al più presto la stufa e poterti riscaldare, ma anche il pavimento è freddo e, inoltre, stranamente umido. Forse è stata un'inondazione notturna ma dal momento che abiti al terzo piano pensi di aver dimenticato qualche finestra aperta e che abbia piovuto; poi, ti chiedi come mai Bobby, quel vecchio labrador guastafeste, non sia ancora venuto a darti il buongiorno e annusando il delicato profumo simile a quello dei cessi pubblici, ti rendi conto che qualcuno ha fatto la pipì proprio di fianco al posto tuo del letto.
“No! La pipì no!”
Ti asciughi i piedi alla meno peggio con le calze di spugna e ti dirigi verso il bagno ma stamane il pavimento sembra essere stato soggetto a un'alluvione biblica – dio alza le mani, in segno che lui non c'entra nulla. Accendi la luce e noti che il tuo caro amico a quattro zampe, Bobby, ha marcato tutta la casa con i suoi schizzi. Forse perché Bobby è un discendente del cane di Picasso, forse perché non è mai stato un cane dispettoso ma ha improvvisamente deciso di diventarlo, in ogni caso per muoverti in casa hai bisogno di una gondola o di un motoscafo.
“Bobby!” – maledetto bastardo, dici nella tua mente – “Bobby vieni che ti do i biscotti!” lo chiami invano ma il labrador sembra essere scomparso, svanito come parola sulla punta della lingua.
Entri in bagno, ti lavi piedi e riempi un secchio con acqua, candeggina e straccio e ripulisci tutto il pavimento della casa, chiedendoti ancora dove sia finito il tuo amico a quattro zampe, probabilmente invisibile come l'uomo del romanzo. Poi lo vedi, dietro il portaombrelli all'ingresso dell'appartamento, in una strana posizione aerobica: fa il ponte, come quello di Brooklyn o di Sant Louis Re.
“No! La cacca no!”
“Bobby fermo che andiamo sotto!”.
Prendi il guinzaglio, apri la porta, corri giù per le scale come maratoneta, apri il portone, esci nel giardino comune, lasci che Bobby dia il meglio di sé sul prato e ti accorgi che non hai né guanti né buste.
“No! I guanti no!”
Metti le mani in tasca e ti rendi conto non solo che non hai le tasche, perché sei ancora in pigiama, ma che non hai proprio le chiavi di casa e che sei rimasto fuori!
“No! Le chiavi no!”
Suoni il campanello. Al citofono risponde lei: “Che fai fuori a quest'ora? Dove sei stato?”.
“Poi te lo spiego. Apri per favore”.
Torni a casa. La signora del piano di sotto, sempre con l'aspirapolvere in moto, ti dà il buongiorno. Ricambi di corsa e vai su. Liberi il dannato amico, prendi l'occorrente e lei ti chiede se hai fatto il caffè: “Lo faccio subito, il tempo di scendere e di risalire” rispondi.
Vai giù, ripulisci tutto e citofoni di nuovo, perché hai di nuovo dimenticato le chiavi: “Chi è?” dice lei.
“Buongiorno sono il lattaio... Mi apri di nuovo per favore?”
“Ma che ci fai di nuovo giù?”
“Poi te lo spiego.”
Torni di nuovo a casa e lei ti fa i complimenti per aver fatto pulizie di primo mattino e ti chiede che ne è del caffè: “Normale o macchiato?” la prendi in giro, trattenendo i nervi.
“Normale normale... Vuoi dirmi dove sei stato?”.
“Poi te lo spiego.” sbuffi.
Prendi la moka, che ovviamente ti cade dalle mani, la raccogli, la sciacqui, prendi il contenitore e scopri che il caffè è finito.
“No! Il caffè no!”
Spieghi la questione a lei, la quale disapprova perché dovevi prenderlo tu ieri, e vai in bagno per lavarti i denti, cambiarti e andare al bar.
“No! Il dentifricio no!” il dentifricio è finito così, consapevole che residui di esso rimangono nello spazzolino, provi a lavarti i denti lo stesso: apri il rubinetto dell'acqua fredda ma stranamente non scende goccia alcuna. Sei perplesso. Richiudi e apri quello dell'acqua calda. Nessuna goccia.
“No! L'acqua no!”. Non c'è acqua, lo scaldabagno è spento e non c'è luce, dunque il motorino non funziona.
Sciacqui i denti con l'acqua imbottigliata, apri l'armadio per prendere i vestiti puliti e ti accorgi che non ce ne sono: sono tutti nel contenitore degli abiti sporchi e devono essere lavati oggi.
“No! I vestiti no!”
Apri lo scatolo coi panni estivi. Metti un paio di pantaloncini, una maglietta hawaiana e, infilato il giubbotto, corri al bar sotto casa per prendere i caffè ma il bar è pieno di gente.
“No! La fila no!”
Aspetti il tuo turno prima alla cassa poi al bancone, mentre la gente ti guarda sbalordita. Sorridi, mandando tutti a quel paese, e finalmente chiedi i caffè: “Uno qui, uno da portare via”.
Il barista ti serve prontamente e prontamente il caffè ti cade addosso.
“No! Il caffè no!”
Ti asciughi come puoi, mentre barista e titolare ti fanno mille scuse, ritiri il caffè da portare via e incontri Carlo, vecchio amico d'infanzia, il quale ti ricorda che oggi si vota per il referendum. Che è un tuo diritto. Che non puoi mancare. Che devi andare a votare.
“No! Il referendum no!”
Torni a casa. Sali le scale. Saluti di nuovo la vicina con l'aspirapolvere, augurandole, dentro di te, di essere aspirata anche lei, porti il caffè alla tua donna, la quale ti chiede di portare fuori Bobby, anche se toccava a lei. “Già fatto!”, rispondi, torni allo scatolo dei panni estivi, metti un altro paio di pantaloncini, un'altra maglietta, un altro giubbotto e corri alla porta ma il tuo amico a quattro zampe è piazzato davanti ad essa come una statua. Sembra un posto di blocco: “O paghi il dazio o non ti faccio uscire” sembra dire Bobby.
Vai in cucina, prendi i biscotti, glieli dai, gli fai due carezze promettendogli che dopo farete i conti, esci e arrivi a scuola in perfetto orario per l'apertura delle urne.
“No! La fila no!”
Anche qui c'è fila e tutti ti squadrano dalla testa ai piedi, incuriositi. Aspetti il tuo turno e si mette a piovere.
“No! La pioggia no!”
Ti ripari come puoi ma passa troppo tempo, cominci a starnutire e ti rendi conto che una febbre non te la toglie nessuno.
“No! La febbre no!”
Sei dentro. La fila scorre veloce ma un'anziana davanti a te impiega 2 minuti per fare 1 metro e sono almeno 30 i metri per arrivare al seggio, più 5 andata e ritorno per firmare, votare e inserire la scheda nell'urna.
“No! L'anziana no!”
Il tempo passa lentamente, l'anziana ancora di più ma finalmente tocca a te. Ti avvicini al presidente, metti le mani nel giubbotto e ti rendi conto che non hai la scheda elettorale né il documento d'identità.
“No! I documenti no!”
Torni a casa. La vicina è ancora con l'aspirapolvere – ti chiedi che cazzo aspiri da una mattinata –, lei ti chiede l'ora e tu rispondi “No! L'ora non la so!”, prendi i documenti, Bobby ti porta la pallina “No! La pallina no!”, apri la porta e senti la voce piagnucolante di Michela, tua figlia, proveniente dalla sua camera.
“No! Michela no!”
Vai nella camera, la calmi e lei ti chiede una storia. Rispondi “No! La storia no!” e lei si mette a piangere di nuovo, così le racconti la storia e lei si addormenta di nuovo ma squilla il cellulare e lei si sveglia nuovamente, tornando a piangere.
“No! Il cellulare no!”
È un call center. Rispondi chiaramente che “No! No cambi tariffa!”, racconti un'altra storia a Michela, si addormenta ma arriva lei e la sveglia: “Amore! Svegliati amore che facciamo colazione”.
“No! Lei no!” la guardi seccato, nauseato, vorresti darla in pasto ai leoni ma ti chiedi soprattutto perché con te Michela piange e con lei no. Non lo sai, ma sai che devi tornare al seggio per votare. Mentre sciacqua la moka, lei ti chiede se fai colazione con loro e rispondi seccamente “NO!”, chiedendoti perché con lei l'acqua scende e con te no.
Esci. Dio fa il tifo per te. Arrivi a scuola. Di nuovo fila, maggiore di quella di prima. Di nuovo una vecchia prima di te, più lenta di quella precedente. Poco più avanti, la vicina con l'aspirapolvere: che cazzo ci fa con l'aspirapolvere alle votazioni? Di nuovo tutti ti guardano esterrefatti: ci sono 7 gradi al sole e tu sei in pantaloncini. Ci vorrà almeno un'ora prima che possa toccare a te e ormai sono le 11:00.
“No! Le undici no!”
Dovevi andare allo stadio, assieme a Franco e Giulio, per la partita d'eccellenza.

Finalmente sei nell'urna. Hai firmato, consegnato i documenti, ritirata la scheda e adesso, matita alla mano, puoi votare, puoi scegliere, puoi dichiarare all'universo intero con una sola parola come la pensi a proposito del referendum costituzionale.
Ci sono due quadratini. Ognuno al suo interno ha una parola: Sì e No.
Ripensi alla tua mattinata. Al freddo, all'aspirapolvere, alla pipì, a Bobby, a lei, al dentifricio, all'acqua, ai vestiti estivi, al caffè, alla fila, alla vecchia, a Michela: una mattinata assurda. Ripensi al senso della consultazione referendaria: cambiare la costituzione, accentrando i poteri nelle mani della casta e a scapito del popolo.
Guardi la scheda e i quadratini. Sai benissimo come votare. C'è solo una parola capace di esprimere tutto quello che provi. Due lettere per dire come la pensi.
Avvicini la matita al quadratino e tracci una X con tutta la rabbia che hai accumulato nel corso della giornata ma sul quadratino non rimane alcun segno.
Riprovi.
Niente, la X non si traccia.
Giri la matita.
La guardi.
Ha la punta rotta.
“No! La matita no!”.

lunedì 28 novembre 2016

Il salotto dell'essere


- di Saso Bellantone
"Conversare non è un fatto social o digitale né vuol dire commentare; è un evento  reale ed esistenziale e significa pensare, assieme".

venerdì 4 novembre 2016

Oscillazione continua


- di Saso Bellantone

"La vita è una continua oscillazione: dall'altalena, al pendolo, alla sdraio, ai fiori sepolcrali".

lunedì 31 ottobre 2016

Al diavolo in padella


- di Saso Bellantone

«Sì pronto» rispose, sbadigliando e strofinandosi gli occhi.
«Allora, sei dei nostri oppure no? Ti ho inviato un whatsapp un'ora fa e non hai più risposto.»
«Dici?»
«Dico? Fabio vaffanculo! Non mi dire che stavi già dormendo?»
«Mirko t'incazzi se ti dico che ero nel meglio del sonno?»
«Se m'incazzo? E a me che me ne fotte? La vita è la tua. Ormai sei diventato vecchio. Nove di mattina, nove di sera. È questo il tuo tempo vitale. Poi sempre a dormire.»
«Non abbiamo più vent'anni. Abbiamo bisogno di dormire di più, il corpo lo richiede, così come richiede il tabacco, più tabacco.» disse Fabio, riaccendendo la sigaretta spenta sul posacenere.
«Veramente sarebbe il contrario, dovremmo dormire e fumare di meno. Sei sempre il solito sottosopra.»
«No, siete voi altri ad essere al contrario. Il mondo intero va al contrario.»
«Se se... finiamola con la filosofia e veniamo al dunque: ceni con noi in pizzeria per una rimpatriata o preferisci startene a letto coi tuoi fumetti?»
Fabio espirò il fumo e spense definitivamente la sigaretta, guardando l'orologio del pc appena riacceso, che segnava le 20:17.
«A che ora ci vediamo e dove?»
«Alle 21:00. Al diavolo in padella.»
Un brivido attraversò la schiena di Fabio.
«Ok ci sono. Il tempo di una doccia e arrivo.»
«Non ti ritardare al solito tuo! Chi tardi arriva male alloggia e, soprattutto, beve meno birra.»
«Sei tu il ritardatario e, soprattutto, il poppante.» Fabio sorrise, bevendo l'ultima goccia di Ceres che aveva di fianco al pc «Comincia a ordinare il primo giro.»
«Ah ah ah! Ora ti riconosco! Ok allora a dopo.»
«A dopo.»
Fabio richiuse il cellulare e, dirigendosi direttamente in bagno per fare la doccia, lo lasciò sulla scrivania, in mezzo alle cianfrusaglie di cui era sommersa. Accendini, filtri, cartine, tabacco, posacenere, muffin mangiati a metà, piatti sporchi, pezzi di pane, biscotti, tazzine, tovaglioli accartocciati, occhiali da sole, deodorante, gomme da masticare, chip, microchip, fili, saldatore, stagno, schede madri smontate, penne, pennarelli, fogli, libri, fumetti, fumetti e altri fumetti ancora. Horror, Splatter, Mostri, Satanic, Zagor e soprattutto Dylan Dog. Tanti Dylan Dog. Dall'Alba dei morti viventi a Il modulo A38 li aveva tutti, comprese le edizioni speciali, albi e almanacchi. Era talmente patito da aver aperto un blog sull'indagatore dell'incubo ed essere stato contattato dalla Sergio Bonelli per le recensioni ufficiali di ogni nuova uscita. Leggeva naturalmente di tutto, dai romanzi distopici alla poesia alle riviste specializzate di scienze e matematica, ma credeva che la letteratura horror avesse qualcosa in più. Considerava infatti la realtà troppo scientificamente provata, troppo scontata. La letteratura horror invece dava la possibilità di guardare il mondo da più di un'altra prospettiva e, in particolar modo, offriva l'occasione di osservarlo criticamente e da più vicino, pur essendo molto lontani da esso. Era questa la sua vita. Lavorava come riparatore in un negozio di computer di Sambiase, dal mattino alle 16:00, senza sosta, poi si dedicava interamente alla sua passione horror, tranne in alcuni casi in cui era costretto a portarsi il lavoro a casa. Il più delle volte, si addormentava sulla scrivania dove, tavolo da lavoro a parte, passava la maggior tempo a leggere e a recensire o a guardare qualche film o serie televisiva sempre di stampo horror. Una vita monotona, insomma, semplice ma per lui soddisfacente. L'unico contatto che aveva con il mondo esterno erano i social e alcune app con i quali si teneva in contatto con i vecchi amici. Li vedeva raramente, nelle ferie natalizie, pasquali o estive, a seconda dei casi, o come questa volta, per il ponte di Ognissanti. Lavoravano tutti fuori, chi al Nord chi all'estero, e un'occasione per incontrarsi e stare un po' assieme non se la sarebbe fatta sfuggire. Certo, se Mirko non l'avesse chiamato, a quest'ora starebbe ancora dormendo faccia alla scrivania.
Uscì dal bagno rapidamente e con la stessa rapidità prese i primi abiti che aveva sottomano, li indossò, raccolse i suoi inseparabili cimeli all'interno della borsa a tracolla verde militare – accendino, filtri, cartine, tabacco, auricolari, cellulare, moleskine e portafogli – e si fiondò fuori dalla porta ma non diede il tempo a quest'ultima di chiudersi che tornò indietro sui suoi passi, prese le chiavi di casa e uscì nuovamente ma tornò ancora una volta indietro per prendere gli occhiali da sole e, stavolta, uscì definitivamente. Malgrado l'ora fosse tarda, amava uscire con i Ray Ban rosa anche di notte. Aveva un rapporto morboso con essi: li considerava come un filo invisibile che lo teneva collegato al mondo dell'horror cui tanto era legato.
Arrivò al Diavolo in padella in ritardo di soli 5 minuti, come l'amico Mirko aveva previsto, sotto i raggi di una luna piena ora coperta ora no da una nuvola senza pioggia, che rendeva quella notte di Halloween davvero magica. Proprio come nei fumetti che amava tanto. L'ingresso del ristorante-pizzeria era al quanto scenico per quella sera: oltre la celebre insegna che recitava il nome del locale, alla sinistra della porta c'era un uomo travestito da diavolo con corna forcone e tutto il resto, dietro un barbecue completamente infuocato sulla cui griglia vi era un padellone fumante, che lanciava maledizioni e imprecazioni a chiunque entrasse.
«Stanotte avrò la tua anima!» gli disse l'uomo-diavolo, ridendo maleficamente.
«Vedremo chi l'avrà vinta.» rispose Fabio, contento della trovata.
Oltrepassata la soglia, una donna-diavolessa molto sexy, aveva un bichini nero attillato, le corna nere alla testa e le zanne da vampiro, gli disse: «Dimmi qual è il tuo tavolo o ti porterò via l'anima!»
«Puoi portarmela via, tesoro, non so qual è.» rispose Fabio, fissando, diciamo così, la parte migliore di lei.
«Ehi Fabio siamo qui! Lascia stare la diavolessa!» uno degli amici, Enzo, gli fece segno di raggiungerlo, ridendo e facendo ridere non solo gli altri amici che erano già seduti al tavolo e stavano aspettando lui, ma anche gli altri clienti seduti agli altri tavoli.
Fabio si sentì in imbarazzo e mandò a quel paese gli amici, dicendo alla diavolessa: «Sarà per un'altra volta, tesoro. A quanto pare, quello è il mio tavolo.»
«Ti accompagno io.» la diavolessa, avendo capito la situazione, lo prese sottobraccio e, una volta raggiunto il tavolo degli amici, gli diede un lungo bacio sulla bocca, destando l'invidia e la rabbia degli altri.
«Ci vediamo dopo, tesoro» disse infine a Fabio, facendogli l'occhiolino e andandosene, con una camminata pari alla sua bellezza e alla sua sensualità.
«Allora brutti stronzi, ne avete abbastanza o devo anche stendervi?!» Fabio prese in giro gli amici «Dov'è la nostra birra?»
Non fece in tempo a finire la frase, che subito un'altra diavolessa portò uno spillo di quattro litri di birra rossa, al puro malto, mentre un'altra portò i boccali. Le due lasciarono il tutto sul tavolo e prima di andarsene, mentre gli amici urlavano festosi per l'arrivo della birra, le diavolesse si avvicinarono a Fabio, lo baciarono entrambe sulla bocca e se ne andarono, dicendo anche loro: «A dopo tesoro».
Fabio guardò gli amici con un silenzio maggiore rispetto a quello che era appena sceso sul tavolo: «Ragazzi, evidentemente il mondo si sta mettendo sulla piega giusta.»
«Ma vaffanculo!» Saro, che stava già versando il liquido nei boccali, gli lanciò addosso la birra ridendo per la disperazione e provocando i commenti a raffica degli amici.
«Che vita eccezionale!»
«E sì sì!»
«Dio dà il pane a chi non ha i denti!»
«Bell'amico!»
La risata fu generale, specie per i ceffoni che le ragazze davano ai rispettivi fidanzati, con il beneplacito di Fabio naturalmente, convinto che quella sera fosse davvero speciale per lui, proprio come l'indagatore dell'incubo.
C'erano tutti. Mirko, detto “Il professore”, poiché sfoggiava saggezza su qualsiasi argomento si parlasse. Enzo, detto “Paul Newman”, per via del suo fascino col quale faceva crollare ai suoi piedi tutte le donne. Saro, detto “Il messicano”, data la sua sputata somiglianza con Benicio del Toro, e Ilaria, la fidanzata gelosa, detta “Adesso ti picchio io”, e si capisce perché. Alfonso, detto “Fonso”, semplicemente diminuitivo del nome, assieme ad Erica, la fidanzata permissiva, o meglio “per missiva”, in quanto ti mandava email, messaggi e whatsapp minatori, nel caso in cui si portava fuori a cena Fonso senza di lei. C'era Davide, detto “Golia”, per via delle sue dimensioni e perché mangiava sempre omonime caramelle a menta. Ignazio, detto “Vessicchio”, per via della sua fantastica somiglianza con l'omonimo maestro compositore. Sebastiano, detto “Sto arrivando”, data la sua spregiudicata rapidità intuitiva, e Penelope, la fidanzata, detta “Ferrari”, in quanto capace di rispondere prima ancora di formulare la domanda. Antonio, detto “Fringula”, per la sua nota somiglianza con uno strumento da pesca a mano. Infine c'erano Peppe, detto “Nek”, e si capisce perché, Giulio, detto “Omar” o meglio “O' mar”, in quanto è sempre al mare. E Franco detto “Franky” o anche “Banzai” e in alcuni casi “Arakiri” o “Il suicida” perché si getta a capofitto in qualsiasi questione e discussione, anche di estranei, prendendole di brutto.
Fu una serata divertente, passata in braccio ai ricordi e alle immancabili battute su ognuno, alternate da diversi boccali di birra, accompagnati da pizza di ogni tipo. Ogni volta che portavano un nuovo spillo o altre teglie e pietanze, le cameriere-diavolesse continuavano il loro rito, avvicinandosi a Fabio e baciandolo, il quale ormai ci aveva preso gusto, sia a baci sia all'immancabile “A dopo, tesoro”, mentre gli amici, rassegnati, si accontentavano di baciare soltanto la rossa alla spina. Quando ormai erano tutti sbronzi e si fece l'ora di andare, gli amici incaricarono Fabio di chiedere il giro di amari e il conto, data la sua confidenza con le diavolesse.
«Signorina... ehm, volevo dire, diavolessa!» Fabio chiamò la cameriera più vicina, la quale accorse subito al suo tavolo «Amaro per tutti e il conto per favore!» aggiunse, sporgendo le labbra nella sua direzione, in attesa che lo baciasse.
«Certo tesoro.» la cameriera lo baciò di nuovo, stavolta col coro da stadio degli amici, ormai abituati al suo trattamento privilegiato, che gridarono “Olè” assieme a tutti gli altri clienti, ormai parte di quella tavolata tra amici anche se erano seduti altrove.
La cameriera andò alla cassa e tornò assieme alle altre diavolesse, che portarono in ordine: un altro spillo di birra, una bottiglia di amaro, tanti boccali e bicchierini, specificando che quelli li offriva la casa, e il conto, fermandosi tutte rigorosamente da Fabio, per pagare, se così si può dire, la solita tassa.
Fabio si sentiva in paradiso, sia per l'alcool sia per il clima festoso che c'era in quel locale assieme agli amici sia per i continui baci che riceveva da una serata intera, quando, sporgendosi nuovamente in direzione delle cameriere, sbiancò improvvisamente.
Il volto delle diavolesse si era improvvisamente trasformato in quello rugoso di diavoli veri e propri, con i canini macchiati di sangue, gli artigli alle mani e la coda biforcuta. Fabio guardò lo spillo, la bottiglia e i calici e si accorse che erano pieni di una sostanza rossa troppo densa per essere birra. Era sangue, che gli amici tracannavano assetati come indemoniati, trasformandosi anche loro sotto ai suoi occhi in scheletri, zombie e mostri di ogni tipo.
Fabio si sentì come paralizzato. Si guardò intorno, in cerca di un punto di riferimento che gli assicurasse che stesse soltanto sognando ma fu peggio. Anche gli altri tavoli erano pieni di creature mostruose. Vampiri, uomini lupo, uomini pesce, spettri, streghe, uomini senza testa, senza un arto o con la gola tagliata, Freddy Krueger, Jason, Jack lo Squartatore, Mr Hyde, Frankenstein, c'erano tutti. Tutti i personaggi della letteratura horror che tanto amava erano in quel locale e stranamente interessati a lui. Persino la Signora Nera con la falce che, assieme all'uomo-diavolo che aveva visto all'ingresso del locale, si dirigeva nella sua direzione.
Le diavolesse lo bloccarono sulla sedia e spiaccicarono la sua faccia sul tavolo, mentre la Morte alzava la sua falce pronta per colpire.
«Te l'avevo detto che avrei avuto la tua anima» disse l'uomo-diavolo, con una macabra risata che coinvolse tutti i raccapriccianti spettatori.
«Lasciatemi! Lasciatemi andare!» urlò il ragazzo, agitandosi e tentando di liberarsi, mentre la risata cresceva a dismisura in boato assordante.
«Sei mio!»
«Noooo!!!»

Fabio si svegliò di soprassalto e sentì il cellulare che squillava.
«Sì pronto» rispose, sbadigliando e strofinandosi gli occhi.
«Allora, sei dei nostri oppure no? Ti ho inviato un whatsapp un'ora fa e non hai più risposto.»
«Dici?»
«Dico? Fabio vaffanculo! Non mi dire che stavi già dormendo?»
«Mirko t'incazzi se ti dico che ero nel meglio del sonno?»
«Se m'incazzo? E a me che me ne fotte? La vita è la tua. Ormai sei diventato vecchio. Nove di mattina, nove di sera. È questo il tuo tempo vitale. Poi sempre a dormire.»
«Non abbiamo più vent'anni. Abbiamo bisogno di dormire di più, il corpo lo richiede, così come richiede il tabacco, più tabacco.» disse Fabio, riaccendendo la sigaretta spenta sul posacenere.
«Veramente sarebbe il contrario, dovremmo dormire e fumare di meno. Sei sempre il solito sottosopra.»
«No, siete voi altri ad essere al contrario. Il mondo intero va al contrario.»
«Se se... finiamola con la filosofia e veniamo al dunque: ceni con noi in pizzeria per una rimpatriata o preferisci startene a letto coi tuoi fumetti?»
Fabio espirò il fumo e spense definitivamente la sigaretta, guardando l'orologio del pc appena riacceso, che segnava le 20:17.
«A che ora ci vediamo e dove?»
«Alle 21:00. Al diavolo in padella.»
Un brivido attraversò la schiena di Fabio.
Ricordò tutto. Le diavolesse, il sangue, la trasformazione degli amici, i mostri, il diavolo, la falce. Sogno premonitore o meno, si sentì terrorizzato a tal punto che per alcuni istanti gli mancò la parola.
«Non ci sono. Decisamente no.»

sabato 29 ottobre 2016

Alterante scrittura alterata


- di Saso Bellantone
"La scrittura è come una figlia: la ami, la cresci e poi ti accorgi che non è più tua, che non sei neanche tu".

mercoledì 26 ottobre 2016

La virtù del poco


- di Saso Bellantone
"Non importa quante parole usi, ma come le usi".

sabato 22 ottobre 2016

Il posto proprio


- di Saso Bellantone

Non era quello il loro posto. Bagnandosi, le foglie secche potevano far ruzzolare qualcuno giù dalle scale e rovinare la festa. Rustici, aglio e olio, vino e sott'oli erano soltanto l'antipasto di una notte da passare in allegria tra amici. Una rimpatriata, per incontrarsi dopo tanto tempo, ricordare i bei momenti vissuti assieme e rinsaldare i legami per i giorni futuri.
Non era quello il suo posto. Voleva bene agli amici, sì, ma alle riunioni spensierate, al continuo vociare e alle chiacchierate illimitate sul più e sul meno, Lazzaro preferiva l'ardua e abbondante riflessione sull'esistente, nella sua misteriosa interconnessione con tutto, e il rapimento della musica naturale, del concerto che in quella di notte di campagna sperava suonasse per lui.
Amava la campagna, la terra, qualsiasi cosa avesse un richiamo con il mondo fatato che aveva dentro e aveva accettato l'invito anche per cogliere l'occasione di starsene qualche minuto per i fatti suoi a fantasticare in mezzo al profumo della terra, degli ulivi e degli aranci.
Quella sera, però, non riusciva a lasciarsi andare. Qualcosa lo tratteneva nel mondo illusorio dei vivi, impedendogli l'accesso nel mondo vero dei sogni e degli incantesimi. Qualcosa intralciava la sua congenita predisposizione al magico, bloccandolo sulla soglia, anzi, sulla scalinata di Crono, al di qua del regno di Kairos.
Era la prima volta che gli accadeva e si sentiva impreparato, spiazzato. Dopo tutta la fatica per essere là, quella sera, i cambi di turno a lavoro, l'urgenza di trovare un passaggio, poiché la vecchia Renault 5 lo aveva abbandonato nel mezzo della statale, adesso non riusciva a sognare.
Cercò di capire il perché, di trovare in lui la ragione di quello stallo, di visualizzare la staccionata che non riusciva a oltrepassare, ma fu vano. Così, si aiutò con un esercizio per amplificare la sua concentrazione.
Cominciò a spostare, dall'alto verso il basso, tutte le foglie che il vento aveva depositato sulla scalinata. Con un piede, le raccoglieva pazientemente in un angolo, le buttava sul ripiano successivo e ripeteva la sequenza, sperando che questo lo aiutasse a trovare la soluzione, almeno, entro il tempo degli scalini e delle foglie disponibili. D'altronde, non era quello il posto delle foglie e, tra l'altro, qualcuno poteva farsi male, specialmente i bambini.
Fu allora che il silenzio divenne un boato e tutto ebbe inizio.
Lazzaro alzò gli occhi e vide una bambina vestita di edera e foglie di melograno che si muoveva nella sua direzione. I suoi passi scalzi erano talmente soffici da non far alcun rumore, come se le nuvole camminassero su un sentiero di cotone e da quest'ultimo dentro di lui. I capelli dorati erano raccolti in una treccina avvolta attorno alla testa, incoronata da fiorellini di campo. Tra le mani, unite come per trattenere dell'acqua fresca, la bambina reggeva una strana fonte luminosa.
Quando giunse innanzi a lui, la ragazzina gli sorrise e gli porse la lucetta. Incantato e senza pensiero alcuno, Lazzaro calò lo sguardo sul piccolo bagliore e il silenzio lasciò il posto alla musica e alle visioni.
Il canto di grilli, cicale e zanzare cominciò a diffondersi leggero nella fresca notte al chiaro di luna come sinfonia di un'orchestra fatta da minuscoli esseri che spuntavano da tutte le parti, da funghi, cespugli e sul dorso di gufi. Alberi autunnali, come vecchi uomini ansiosi di raccontare le loro storie, sorvegliavano immobili e rugosi l'antico rudere, ospitando tra i loro rami il sonno degli scoiattoli e la veglia delle civette. Le foglie dondolavano lentamente, cantando in sottofondo il motivo del concerto della natura notturna. In braccio a morbidi soffi d'aria, come tavole da surf per gnomi, fate e altri abitanti della fantasia, alcune di esse si staccavano dalle robuste vene delle piante e danzavano eleganti come graziose fanciulle in una pista fatta di sogni, posandosi ovunque: sulle automobili arrugginite, dimenticate anche dalla dimenticanza; sulla cuccia dei cocker, appisolati ognuno tra le orecchie dell'altro; sull'instancabile terra intenta ad alimentare la vita; sulle scale della vecchia villa, colorandole di svariate tonalità di giallo rosso e marrone; sulla testa di Lazzaro, imbambolato innanzi a quella meraviglia.
La luce che teneva tra le mani cominciò a pulsare in maniera intermittente. Poi, come bolla di sapone luccicante, si alzò piano piano in aria e raggiunse altre lucine intermittenti.
Erano lucciole, ed era davvero pieno, come se le stelle del cielo fossero scese giù per farsi ammirare da vicino.
Tutto era bellissimo.
«Chi sei?» chiese Lazzaro alla fanciullina che lo osservava silente e pacata, con quei grandi occhi colore del mare tropicale ma lei, come per incanto, svanì lentamente alla sua vista, lasciandogli un ultimo sorriso.
Lazzaro restò a bocca aperta e si strofinò gli occhi. Mise meglio a fuoco ma la bambina non c'era più.
Alzò ancora una volta lo sguardo al cielo. Le lucciole avevano invaso completamente la notte di quell'angolo di mondo, il buio di quella vecchia villa di periferia. Alcune di esse si posarono sugli alberi, sui cespugli, sul tetto e sulle pareti del rudere, sui lampioni, ovunque.
«Mamma mamma!» una vocina proveniente dal casolare ruppe l'incantesimo «Guarda! Le lucciole!».
Lazzaro si voltò e vide Carla, la compagna di scuola, prendere in braccio Danae, sua figlia, che a sua volta teneva sul palmo di una mano una lucciola e rideva.
Carla le diede un bacio sulla guancia: «Visto quanto sono belle?! Non ne vedevo una da quando avevo la tua età.»
«Possiamo tenerla?»
«Tesoro, le lucciole sono fatte per portare la luce a tutti, nel mondo, specialmente ai bambini e alle persone più sfortunate. Lasciala volare via assieme alle altre».
Danae lasciò che la lucciola prendesse nuovamente il volo e fece un cenno di saluto con la mano.
«Ti stavo cercando.» la donna si rivolse a Lazzaro «Vieni. Stiamo mettendo a tavola le nacatole e gli altri dolci. Aspettiamo soltanto te».
«Un attimo solo, Carla... arrivo».
«Ok non tardare».
«Dammi un istante e sarò con voi».
“Dammi un istante” ripeté Lazzaro nella mente, voltandosi nuovamente in direzione del sentiero e della campagna circostante, cercando invano la strana bambina che aveva visto prima. Non vi era tuttavia nessuna traccia di lei. Così com'era apparsa improvvisamente, allo stesso modo era sparita.
Si chiese se avesse immaginato tutto o se avesse assistito veramente a quel miracolo della natura. Poi, gettando uno sguardo alle scale, si accorse che erano nuovamente ricoperte di foglie secche.
“Non è questo il loro posto.” pensò, rendendosi conto di aver faticato per nulla.
«Ma per stasera, forse, è proprio il loro».

Il labirinto della riflessione


- di Saso Bellantone
"Attraversato lo specchio, emerge che ve n'è un altro ancora e più di uno".

mercoledì 19 ottobre 2016

lunedì 17 ottobre 2016

Fiatare la scelta


- di José Saramago
"Decidere significa dire sì o no, tirare fuori il fiato, solo dopo vengono le difficoltà, all'atto pratico, come dice la grande esperienza del popolo, ottenuta col tempo e con la pazienza di sopportarlo, fra poche speranze e tanto meno mutamenti" (La zattera di pietra).

sabato 15 ottobre 2016

venerdì 14 ottobre 2016

Prospettive altre


- di L. F. Baum
«Se vuoi posso raccontartene anche sui lucci», disse il Grifone. «Lo sai perché si chiamano lucci?».
«Non ci ho mai pensato», rispose Alice. «Perché?».
«Perché fanno luccicare scarpe e stivali», rispose con grande solennità il Grifone.
Alice era assolutamente stupefatta. «Fanno luccicare scarpe e stivali?», ripeté con tono di meraviglia.
«Perché, cosa usi tu per far luccicare le tue scarpe?», domandò il Grifone. «Voglio dire, cos'è che le rende tanto “luccide”?».
Alice si guardò le scarpe, e rifletté un po' prima di rispondere. «Il lucido, credo».
«In fondo al mare, sono i lucci che luccidano scarpe e stivali», continuò il Grifone con voce profonda. «Ora lo sai».

(Alice nel paese delle meraviglie).

mercoledì 12 ottobre 2016

Unità di misura (im)perfetta


- di Saso Bellantone
"Un cielo senza nuvole è come un volto mai rigato dalle lacrime: è illusorio".

lunedì 10 ottobre 2016

Intuire un mondo libero

- di Saso Bellantone
"L'intuizione è ciò che rende ancora per poco, e pochi, liberi. Educare all'intuizione e non al freddo, vuoto e quantitativo sapere, è l'entusiasmo del mondo che viene".

giovedì 6 ottobre 2016

Pace remota, futuro prossimo


- di Saso Bellantone
"La pace non è un fatto sociale bensì naturale, cosmico. Il ritorno alle origini, la sintonia con l'esistente, la brezza dell'Essere sono, insieme, l'unico sentiero per disarmare i popoli, cancellare le guerre con l'altro e risolvere ogni lotta con se stessi. Occorre tornare indietro per proseguire. Continuando ad andare, si giunge soltanto al capolinea".

mercoledì 5 ottobre 2016

L'individuo diviso


- di Saso Bellantone
"Ti definiscono individuo in quanto sei ciò che non può essere diviso. Strano, perché al di là della siepe e di ogni recinto concreto o astratto in cui la società ti rinchiude, c'è il mondo, la natura, ci sei anche tu".

martedì 4 ottobre 2016

Versieri: ALLA SERA di Ugo Foscolo


- di Saso Bellantone
“Forse perché della fatal quïete
Tu sei l'imago a me sì cara vieni
O sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,
E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all'universo meni
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
Delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch'entro mi rugge”.

La sera è sempre toccante. Dà sempre da poetare e da pensare. Perché se la chiarezza del giorno rende ciechi, determinando tutto ciò che è nella sua apparenza, la penombra della sera, invece, mostra anche tutto quello che non è e non appare. Lascia vedere, persino dentro di noi e oltre l'orizzonte conosciuto.
Come un fiore sbucato dal mare o un demone appena uscito da un tempio, la sera viene inattesa e coglie sempre alla sprovvista. Ci trova sempre impreparati, vittime e carnefici a un tempo del mistero della vita in cui ci troviamo e delle errate decisioni e delle stagnanti incertezze che siamo.
Il suo arrivo è sempre ammaliatore. Come un miracolo per scienziati o un'equazione per sacerdoti, la sera attrae alla sua invisibile bellezza, rendendo una volta per tutte folli o savi.
Nel suo grembo si manifestano pensieri, emozioni e percezioni inaspettate, ricordi obliati e visioni inconcepibili, assurde intuizioni e molteplicità di prospettive prima ignorate e scartate inconsciamente perché ovvie e banali. Ma anche il bisogno di essere un tutt'uno con il proprio respiro e le proprie palpitazioni, di colmare il vuoto che dallo stomaco corrode la nostra coscienza, di conoscere su un piano universale e particolare come stanno le cose e qual è, davvero, la nostra identità e il nostro ruolo nell'esistenza; il nostro bisogno di ricominciare.
La sera parla un linguaggio svincolato da segni grafici e vocali. Guarda dentro di noi, come in una lastra priva di pellicola, e risponde semplicemente per quello che è e così com'è in quell'istante, donandoci esattamente quello che cerchiamo e cerchiamo da tempo. E noi, ci lasciamo accarezzare dai suoi consigli e travolgere dalle sue verità, trovando, finalmente, quell'ambiente, quello stato d'animo necessario per sopportare i tragici segreti di un cosmo, di una durata, di un incontro e scontro con l'alterità che spingono continuamente alla resa.
Così, grazie alla sera, proseguiamo il nostro viaggio nell'enigma che noi stessi siamo assieme a tutto il resto e a tutti gli altri, portando con noi quell'unica sensazione in cui sono racchiuse le parole della nostra fedele compagna.
Adesso, come scrive Foscolo nella poesia Alla sera, siamo legati alla sera, ci è cara. Forse perché è una metafora o un'anteprima di quella pace, di quel destino inesorabile cui tutto è soggetto, la morte definitiva, sia nel momento in cui cala nel mondo assieme alle nuvole estive e ai soffici venti di zefiro, sia quando proietta nell'universo le lunghe e agitate oscurità invernali, entrambe a loro volta allegoria dei nostri stati d'animo, della serenità e dell'agitazione che proviamo quotidianamente. Quando la chiamiamo, la sera scende, viene sempre a trovarci sostenendo con dolcezza i segreti sentieri smistati dentro di noi. Camminando con noi, ci fa seguire quelle orme che conducono al nulla eterno, all'inizio e alla fine di tutto, facendo svanire la caducità e i nostri tormenti. Avvolti nella sua pace, preludio di quella vera e definitiva, trova finalmente riposo e ristoro quel desiderio di conoscere che dentro di noi scalpita per tutta la vita, senza tregua.

giovedì 29 settembre 2016

Ignorante libertà apparente


- di John Milton
"Non tutto a quanto sembra è loro; qui si leva un albero fatale, detto della Conoscenza, che a loro è proibito assaggiare. La Conoscenza Proibita? Una cosa sospetta, irragionevole. Perché il loro Signore gliela dovrebbe invidiare? Conoscere può essere un peccato? Può essere morte?E se li regge solo l'ignoranza, è questo il loro stato felice, prova dell'obbedienza e della fede? Splendido fondamento sul quale costruire la rovina" (Libro IV, Paradiso perduto).

mercoledì 28 settembre 2016

Il coraggio della chiarezza


- di Saso Bellantone
"Credi sia un'ombra? Allora prova ad accendere la luce".

martedì 13 settembre 2016

DISsonoria: BULLET PROOF... I WISH I WAS dei Radiohead


- di Saso Bellantone

Limb by limb and tooth by tooth
tearing up inside of me
everyday everyhour wish that i
was bullet proof
Wax me
mould me
heat the pins
and stab them in
you have turned me into this
just wish that it
was ballet proof
So pay me money and take a shot
lead-fill
the hole in me
i could burst a milion bubbles
all surrogate
and bullet proof.


A prova di proiettile...vorrei essere

Pezzo per pezzo e dente per dente
mi faccio a pezzi dentro
tutti i giorni tutti i momenti vorrei
essere a prova di proiettile.
Spalmami di cera
mettimi in una forma
riscalda i chiodi
e infilameli
mi hai trasformato in questo
vorrei solo
che fosse a prova di proiettile
Per cui pagami e spara
riempi di piombo
il buco che c'è in me
potrei fare esplodere un milione di bolle
tutte dei surrogati
e a prova di proiettile.


Il mondo non è uguali per tutti. O, almeno, non ancora. Ma manca poco. Verrà il tempo in cui tutti gli occhi vedranno allo stesso modo, in cui tutti gli orecchi ascolteranno le medesime parole e suoni, in cui toccheremo, annuseremo e assaporeremo le stesse cose, i medesimi odori e profumi, gli identici sapori. E allora sarà finita. Il male, e tutti quei sentimenti umani ad esso correlati – perfidia, invidia, crudeltà e così via –, avranno vinto, posando su teste e cuori a tinta unita quell'invisibile sigillo che trasformerà definitivamente la razza umana in macchine www-comandate, programmate e gestite nei suoi istinti più ancestrali. La stupidità, assieme all'ignoranza, alla ristrettezza di prospettive, alla mancanza di buon senso, di buon gusto, di buon tempo e di buoni limiti, è uno dei cavalieri dell'Apocalisse del nostro tempo. Anzi, è la furia che li dirige tutti, i biblici cavalieri del disastro, verso ogni individuo, per fare tabula rasa dei punti di vista e instaurarne uno solo, monocolore, che è quello dietro l'illusione del successo, della ricchezza e del prestigio, che è la legge del più forte.
Un disastro, sì. La razza umana non è altro che questo. È malefica, nociva a se stessa e a tutto, davvero tutto, l'ambiente che le sta attorno, sia reale, virtuale, immaginario o intellettivo. Perché per l'essere umano è più facile far amplificare il deserto anziché ritagliare, e custodire, in esso oasi di libertà. L'unicità è l'adeguarsi al proprio cattivo simile, l'identità l'essere numerabili e codificabili; la differenza un virus, una malattia congenita, un morbo da stanare e cestinare. Non c'è certezza alcuna se non nel fare branco con e attraverso bit di informazioni, applicazioni ottuse e loghi all'ultima moda, per fare il male, causare dolore nell'altro e proseguire nella scalata di un artificioso appagamento personale, artificioso quest'ultimo perché il potere, quello vero, non passerà mai dalle nostre parti.
Noi non siamo il centro del mondo, noi non siamo la sua mente, dio non ha le nostre sembianze. Eppure, crediamo che sia così perché altri ce lo fanno credere. Noi lo sappiamo – se lo sappiamo davvero – e ci sta bene. Vediamo il male, operiamo il male, siamo il male e tutto questo ci sta bene fino al momento in cui il male, appunto, lo subiamo proprio noi. Adesso non siamo d'accordo, adesso non giochiamo più, adesso ci rendiamo conto che oltre alle pene abbiamo bisogno di diritti ma... comprendiamo soltanto ora di averli persi in partenza e che nessuno ce li restituirà.
Così diventiamo più spietati, più feroci, più malvagi di quanto eravamo prima, convinti di potersi riprendere, di nuovo con la forza, quanto ci è stato tolto. E il circolo si chiude: come un cane che si morde la coda, non riusciamo a venir fuori dalla logica diabolica che abbiamo ereditato o che abbiamo costruito con le stesse mani. Non riusciamo a scorgere “altro dal male”, “altro dalla forza” su cui si fonda questa maledetta società, questo maledetto pianeta nel quale viviamo. E facciamo il gioco, volenti o nolenti, di quanti stanno all'apice delle piramidi capitaliste, mediatiche e utopistiche che reggono il mondo, il nostro.
Ma non siamo tutti uguali. O, almeno, non ancora. Ma manca poco. C'è ancora qualcuno che vede in maniera diversa pur guardando gli stessi soggetti e panorami, che comprende in modo differente le medesime parole e suoni, che prova diverse sensazioni nel toccare, annusare e assaporare gli identici oggetti, profumi, sapori. Per questo non è ancora finita e il male non ha ancora vinto. Solo che tali persone, pur seguendo il bene con grande intuizione, intelletto, spalancando gli orizzonti e salvaguardando il senso del limite, sono deboli e sono continuamente bersagliati dal male. Vittime del male che sta loro attorno, oltre a quello che li colpisce in pieno.
Inutile elencare il male. Ognuno lo opera o vi assiste quotidianamente e non fa nulla per impedirlo. Nemmeno questi “diversi”, perché sono soli. Nessuno gli darebbe retta. Sarebbero derisi, fatti fuori socialmente e mediaticamente, sarebbero gettati in gattabuia o, per quei paesi in cui vige la pena di morte, sarebbero fatti fuori.
Consapevoli di ciò, questi “differenti” vorrebbero tanto essere, come recita il brano dei Radiohead, Bullet proof... i wish i was, “a prova di proiettile”. Perché ogni volta che sanno del male altrui si sentono colpiti, feriti, si sentono ogni volta privi di un pezzo di loro, e di un altro e di un altro ancora. Ma non possono farci nulla, fuorché essere quello che la società decide per loro, malgrado loro e abusando di loro, subendo lo stesso male degli altri.
Il mondo, il pianeta, la società dovrebbe pagare questi “solitari” per il male che sopportano. In fondo, se non lo facessero, se fossero meno deboli di quanto sono, potrebbero far sgretolare il sistema con tutte le copie e le fotocopie di cui è costituito. Ma “loro” sanno che è impossibile, perché ad essere a prova di proiettile sono proprio i duplicati, la massa, che reggono i dannati ingranaggi della grande macchina della vita.
Una canzone d'amore, forse, quella dei Radiohead, o forse di amore perduto.
Ma anche un modo metaforico per guardare da vicino il mondo in cui viviamo e la gente che ci sta attorno.
C'è ancora chi desidera il bene.
Per questo il mondo è ancora diverso.
E la razza umana non è ancora finita.

venerdì 9 settembre 2016

Numeri e lancette senza occasione


- di Saso Bellantone
"Camminando in punta di piedi alati su Kronos, Kairòs cercava l'uomo ma ha trovato soltanto numeri e lancette".

giovedì 8 settembre 2016

La resa o la lotta?


- di William Shakespeare
"Essere... o non essere. E' il problema.
Se sia meglio per l'anima soffrire
oltraggi di fortuna, sassi e dardi,
o prender l'armi contro questi guai
e opporvisi e distruggerli. Morire,
dormire... nulla più. E dirsi così
con un sonno che noi mettiamo fine
al crepacuore ed alle mille ingiurie
naturali, retaggio della carne!
Questa è la consunzione da invocare
devotamente. Morire, dormire;
dormire, sognar forse... Forse; e qui
è l'incaglio: che sogni sopravvengano
dopo che ci si strappa dal tumulto
della vita mortale, ecco il riguardo
che ci arresta e ci induce la sciagura
a durar tanto anch'essa. E chi vorrebbe
sopportare i malanni e le frustate
dei tempi, l'oppressione dei tiranni,
le contumelie dell'orgoglio, e pungoli
l'amor sprezzato e remore di leggi,
arroganza dall'alto e derisione
degl'indegni sul merito paziente,
chi lo potrebbe mai se uno può darsi
quietanza col filo d'un pugnale?
Chi vorrebbe sudare e bestemmiare
spossato, sotto il peso della vita,
se non fosse l'angoscia del paese
dopo la morte,
da cui mai nessuno
è tornato, a confonderci il volere
ed a farci indurire ai mali d'oggi
piuttosto che volare a mali ignoti?
La coscienza, così, fa tutti vili,
così il colore della decisione
al riflesso del dubbio si corrompe
e le imprese più alte e che più contano
si disviano, perdono anche il nome
dell'azione. Ma zitto! Ora la bella
Ofelia s'avvicina. - Possa tu,
Ninfa, nelle preghiere ricordare
i miei peccati!"
(Amleto)

venerdì 2 settembre 2016

Tramonto e transitorietà


- di Saso Bellantone
"Il tramonto emoziona, sì, ma nel suo magnetismo non vi è nulla di piacevole: emerge, invece, una diversa comprensione delle cose e anche di se stessi, e questo fa male. Non tutti, però, ne sopportano il dolore: alcuni lo nascondono turbati con selfie e fotografie, altri invece lo esibiscono con fierezza con tutta la propria corporeità. Tramonto, dolore, corpo non sono altro che i soggetti di un inarrivabile pittore che traccia su una tela trasparente, con una invisibile tavolozza di colori, la sua follia".

giovedì 1 settembre 2016

Oscurantismo innato

- di Saso Bellantone
"La nera tempesta proviene dalla terraferma e dirige al sole, oltre il mare e l'orizzonte. Vuole oscurarlo, piccola e selvaggia, ma devastante come ogni altra forza naturale del pianeta stesso in cui abita. È l'umanità".

mercoledì 31 agosto 2016

Un'oasi nel nulla

- di Saso Bellantone
"C'è un'oasi al di là del tempo e della vita, dove ogni discesa e salita, ogni meta e tappa, ogni sentiero e crocevia svaniscono nel labirinto della memoria, lasciando affiorare sensazioni effimere come un battito di ciglia, colme di una nuova consapevolezza: è la scoperta di esserci davvero, di essere qui, di essere un tutt'uno con ciò che si ha innanzi".

martedì 30 agosto 2016

Il tramonto del pescatore

- di Saso Bellantone
"Non è il sole, ma uno dei mestieri più antichi dell'umanità a tramontare sotto la falce delle multinazionali e il martello dei Leviatani sovranazionali".

martedì 26 luglio 2016

Elham va in esilio


Amava il suo lavoro. Gli permetteva di stare a contatto con la gente, specialmente quella più bisognosa. E lei, sapeva cosa voleva dire aver bisogno d’altri, aver bisogno di aiuto. Veniva da una famiglia numerosa e povera. Quindici figli. Il padre, fin dal dopoguerra, aveva fatto i lavori più impensati per sfamare la famiglia. Era stato in Olanda, a Milano, aveva fatto il falegname, il facchino, il fruttivendolo, di tutto. Rimasto orfano da ragazzino, non voleva che i suoi figli patissero quel che aveva patito lui assieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle. A volte era rigido, sì, ma lo faceva soltanto per educare bene i propri, mettendo al primo posto l’amore per la famiglia e il rispetto per qualsiasi altro essere vivente si trovasse al mondo e s’incontrasse. Anche la madre non era da meno. Oltre a pensare quotidianamente alla cura di così tanti figli, andava a fare le pulizie in casa d’altri, produceva il formaggio, trasportava il pesce da valle a monte. Lavorava instancabilmente fin da ragazzina, anche lei, con la speranza, un giorno, di vedere tutti capaci di badare autonomamente alla propria sussistenza e di essere felici. Malgrado non sapessero se ogni giorno era possibile nutrirsi, malgrado abitassero tutti in una sola grande stanza senza acqua corrente, malgrado usassero sempre gli stessi abiti e non avessero nessun giocattolo con cui distrarsi, erano felici. Sì, nonostante la povertà, la fame e il bisogno di qualsiasi cosa, erano felici perché si ritenevano fortunati. Fortunati, per avere giornalmente la compagnia e il sorriso dei propri cari e di pochissimi sinceri compaesani.
Per questo Elham amava il suo lavoro. Perché stando quotidianamente a contatto con la gente bisognosa, poteva offrire loro la compagnia, il sorriso, l’aiuto necessari per andare avanti e sopravvivere, specialmente in quei tempi di nuova crisi attraversati dallo Stivale.
Era entrata nel corpo di Servizio Civile intorno ai vent’anni e subito era stata amata da tutti. Aiutava gli anziani, gli ammalati, i bambini, le ragazze madri, i disoccupati, gli isolati e gli abbandonati. Il suo cuore era grande a tal punto da passare ogni giorno, dalla mattina alla sera, aiutando più persone possibili e in qualsiasi modo, senza fermarsi mai e senza badare a razza, etnia, estrazione sociale o professione religiosa. Passava la vita insomma al servizio della gente in difficoltà, e senza dimenticarsi mai della sua famiglia, alla quale, pur indebitandosi, non faceva mancare nulla.
Considerava il Servizio Civile una vera e propria missione “umana”, cioè pensava che ciò di cui tutti avessero bisogno, intendendo quasi la comunità in cui operava come una grande famiglia, fosse soltanto un po’ d’attenzione, di comprensione e di umanità. Passava il tempo con gli avvocati e gli operatori ecologici, gli ingegneri e gli operai di fabbrica, gli intellettuali e gli sportivi, i politici e gli artigiani, i giovani e gli anziani. Oltre che avere un grande cuore aveva anche infatti una spiccata intelligenza e tutti si consigliavano con lei per qualsiasi questione: lavorativa, affettiva, scolastica, commerciale, filosofica. E anche in tutti questi casi, non si risparmiava con nessuno, ritenendo il proprio punto di vista una forma di aiuto per chi ne avesse urgentemente bisogno.
Quel che però faceva più soffrire Elham e le faceva più rabbia, era la gente dimenticata dallo Stato e da tutti. Come per esempio tutti quei padri o quelle madri che avevano perso il lavoro e che si presentavano in lacrime da lei non sapendo più come dar da mangiare ai propri figli. Ogni volta che accadeva ciò, non perdeva un istante e donava loro qualcosa di propria tasca per sfamare i propri bambini. Stesso dicasi allorquando incontrava la duchessa Sembrillo, una vecchia donna proveniente da una famiglia nobile, che per vivere vendeva tutti i documenti e gli averi di famiglia. Ogni volta che si presentava a lei, Elham le dava cinquanta, cento, duecento euro, quanto aveva, dicendo alla vecchia donna di conservare i propri averi per altri momenti. La vecchia la ringraziava mille e mille volte, piagnucolando come una bambina e quando se ne andava via si voltava continuamente ora con la mano sul cuore ora mandandole baci in segno di gratitudine e di affetto. Non accettava che lo Stato potesse dimenticarsi così della povera gente, né che i familiari lasciassero sola una povera donna come la duchessa Sembrillo. E ogni volta che capitava un fatto del genere, si prometteva di fare ogni giorno di più per coloro che avevano veramente bisogno.
Elham dunque era amata da tutti, perché non si risparmiava con nessuno. Per questo motivo in paese tutti parlavano di lei: sia quelli che l’amavano sia quelli che, proprio perché era amata da tutti, la odiavano. Infastiditi dall’idea che una donna così bella e intelligente fosse amata da tutti, coloro che la odiavano cominciarono a escogitare il metodo adatto per infangare la sua reputazione, distruggerla e togliersela dai piedi. L’occasione adatta si presentò quando, scrivendo denunce anonime e architettando diabolici disegni per incastrarla, giunse nel paese un nuovo caporale dei Vigili del Fuoco: Giuditta.
Era una donna sulla trentina, bionda, occhi azzurri, non troppo alta, una bella donna anche lei. Proveniva da una famiglia disagiata al pari di quella di Elham, diversamente da quest’ultima Giuditta intendeva il proprio lavoro soltanto un lavoro. La sofferenza, la povertà, la fame provati nella propria giovinezza l’avevano indurita a tal punto da concepire il proprio mestiere non come un servizio per la comunità, votato all’amore e alla cura d’altri, ma come il sentiero adatto per la scalata sociale e per ottenere ricchezza, prestigio, potere.
Consapevoli dell’anima nera del nuovo caporale dei Vigili del Fuoco, coloro che odiavano Elham fornirono a Giuditta tutti gli strumenti, le menzogne e i pretesti necessari per spazzare via Elham e Giuditta, compreso che la propria strada per il potere passava per la rovina di Elham, non si fece scappare l’occasione. Anzi, mettendoci lo zampino di propria mano, in modo accurato e sotterraneo, si assicurò che la reputazione di Elham cadesse nel peggiore dei modi. Radiata dal corpo del Servizio Civile e accusata di aver fatto apparentemente del bene ma soltanto allo scopo di beceri interessi personali, Elham fu allontanata dal paese di Granaba e costretta all’esilio su di un’isola sperduta nell’Atlantico fino a data da destinarsi.

Oggigiorno, il nome di Elham viene continuamente infangato nelle strade, nelle pagine dei giornali e dei siti internet, in particolar modo da coloro che la odiavano, soddisfatti del suo allontanamento; da quanti, anziché paghi dell’amore gratuitamente donato loro, al tempo volevano soltanto appagare i propri balordi interessi personali; da quanti hanno conosciuto la donna soltanto con le voci screditanti fatte circolare diabolicamente nel paese, i quali provano piacere nell’infangare chiunque possa essere reputato la causa della propria vita infelice. Contemporaneamente, Giuditta assapora la vittoria della tappa nella scalata del potere a scapito di tutti quanti. I familiari di Elham invece attendono silenziosamente che sia fatta totalmente luce sull’oscura macchinazione contro Elham e che quest’ultima torni rapidamente nel luogo dal quale è stata allontanata.
Non si sa cosa faccia Elham in questo momento, dal momento che sull’isola sperduta nell’Atlantico non può andare nessuno. Se però potesse leggere tutto quel che si scrive sul suo conto, Elham risponderebbe:
- a coloro che la odiavano perché era amata da tutti e che ora sono soddisfatti del suo allontanamento, che sarebbe bastato amare un po’ di più il proprio prossimo, dunque chiunque, per essere amati al pari di lei;
- a quanti hanno approfittato del suo amore per appagare i propri interessi personali, che la ricchezza e qualsiasi forma di avere priva dei sentimenti di amore e lealtà, costituiscono la vera miseria esistente, quella cioè dello spirito;
- a quanti provano piacere nell’infangare lei e chiunque altro, reputandoli la causa della propria infelice vita, che la felicità o la infelicità attuali si costruiscono con le proprie mani e con la continua scelta tra spirito di sacrificio e nullafacenza.
Se scoprisse che Giuditta ha realizzato quella macchinazione per ottenere maggiore potenza, ingannando tutti i compaesani, Elham proverebbe compassione, perché reputerebbe una vita votata esclusivamente all’appagamento del proprio desiderio della potenza, soltanto una vita sprecata e insensata.
Infine, se potesse dire qualche parola ai suoi familiari e a tutte quelle persone che attendono in ogni istante il suo ritorno, Elham direbbe: “Vi voglio bene. Tornerò presto tra di voi”.
16-3-2013

sabato 23 luglio 2016

DISsud: le foto 42

- di Saso Bellantone
"Il passo del Diavolo, Monte Sant'Elia, Palmi (SUD)".

mercoledì 20 luglio 2016

Animali pensanti o pensatori animali?


- di Saso Bellantone
“Che cosa significa pensare? - si chiedono alcuni. Se l'uomo è solo un animale, allora pensare è solo un passatempo”.

martedì 19 luglio 2016

lunedì 18 luglio 2016

DISsud: le foto 41


- di Saso Bellantone

"Castello Normanno, Nicastro, Lamezia Terme (SUD)".

sabato 9 luglio 2016

Il lido dell'essere


- di Saso Bellantone
"Esistono due tipologie di stabilimenti balneari in cui abbronzarsi: del mondo e del pensiero. Mentre il primo scurisce soltanto la pelle, il secondo, invece, colora le idee, i ricordi e le prospettive".

mercoledì 22 giugno 2016

Elementare ed impervia l'opzione

- di Saso Bellantone
"È facile restare nell'oscura sicurezza della notte; arduo, invece, è ricercare l'alba tra le ignote briciole di bagliori fuggenti".

venerdì 10 giugno 2016

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Carmelo Morabito, voce dei Southern Gentlemen League


Carmelo Morabito (Scilla, 1986) inizia la sua crescita artistica suonando in diverse band (Travelling Blues Band, the Xero, New Seekers, Bad Radio, the Experienced, The Unkown Pleasures, The Black Seeds) perfezionando la conoscenza dello strumento e cercando di racchiudere nei repertori di queste band tutti i brani lo appassionano.
Partecipando anche “come cantante” ad un seminario di Bred Garsed, le sensazioni provate suonando con un artista di grande fama, lo convincono a prendere il “fatto di fare il musicista nella vita” seriamente.
Nel giorno del suo 18° compleanno, riceve in regalo dai suoi genitori, per la terza volta nella sua vita, una chitarra, la sua prima Fender Stratocaster, per la quale non smette mai di ringraziarli. In seguito viene colpito da una malattia, fortunatamente superata, ma proprio quel periodo fa scattare il lui la voglia ed il bisogno di scrivere testi e di comporre musica. Così, con gli stessi componenti dei The Xero, forma gli Alcoholic Water con i quali pubblica anche un disco, “To Love Again”, con un'etichetta indipendente. Un album di 10 brani inediti che raccontano delle paure, emozioni e ostacoli affrontati durante la fase di cura della malattia. Con loro per diversi anni fa innumerevoli concerti al sud dell'Italia, cambiando molte volte formazione finché al basso arriva Mirko Rizzo e, con lui, il salto di qualità.
Con Mirko sviluppa un'affinità nel comporre nuovi brani mai avuta prima con altri ed in pochissimo tempo i due arrivano a suonare nella capitale e, addirittura, a fare un tour di tre date in Inghilterra, passando per Londra, Brighton e Kingstone.
Al rientro, l'abbandono della band da parte dell'ennesimo batterista fa finire definitivamente nel cassetto dei ricordi gli Alcoholic e, quindi, l’unico progetto di inediti mai avuto prima. Ma mai dire mai. Nella vita, si sa, le cose belle nascono come se le potentissime forze della natura facciano in modo che accadano. Vincenzo Tropepe (carissimo amico) propone loro di formare una band Southern Rock ispirata agli Allman Brothers, Black Crowes e altri e così i due decidono di inserire nel nuovo progetto gli inediti non registrati degli Alcoholic Water, rivisitandoli in chiave Southern Rock.
Ecco che nascono i Southern Gentlemen League (SGL).
Con i SGL, definiti da Carmelo grandi persone e grandi musicisti, comincia nel proprio piccolo a realizzare i sogni in cui crede da sempre. Assieme agli SGL, Carmelo è impegnato da due anni in diversi Tour tra Italia, Europa e Stati Uniti. In questi ultimi, precisamente ad Atlanta (Georgia), Carmelo e gli SGL hanno fatto il mixaggio e mastering del loro primo disco: “My world in the Other Hand”.

Come ti sei avvicinato alla musica?
Il primo approccio alla chitarra è stato all’età di 7 anni, grazie a mio padre e a mia madre: mi regalorono una chitarra classica e mi iscrissero ad una scuola privata per lo studio della musica e dello strumento.
A circa 11 anni, presi in mano la mia prima chitarra elettrica, una Yamaha ERG121 ed iniziai a scoprire, tramite l'ascolto di un infinità di dischi, il bellissimo mondo del Blues e del Rock’n Roll, quello vero. Per citare alcuni artisti, BB king, Muddy waters, Elmore James,Willie Dixon, come anche, Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Allman Brothers, Pink Floyd, Black Crowes e tanti altri ancora il cui numero è talmente grande che non basterebbe un libro intero per citarli tutti.

Che cos'è la musica?
La musica, come tutte le altre forme di arte, è innanzitutto l'espressione più profonda dell'anima dell'artista. È una magia. Rispecchia nel modo più sincero e diretto la vera personalità del musicista; il suo vero essere. Ma è anche un amore indescrivibile, di quelli che quando ti entrano nel cuore, non ti lasceranno mai più.
Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della musica, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Se devo dare un senso a questa bellissima forma d'arte, sicuramente mi viene da pensare al bisogno di ogni singolo individuo di chiudersi nella propria dimensione. Là dove nessuno può ostacolare i tuoi pensieri. La musica ti distacca dalla monotonia quotidiana, da qualsiasi forma di delusione e riesce sempre a trasmetterti le sensazioni giuste per trovare la via della felicità. Il senso della musica è il bisogno di ognuno di noi di essere liberi.
Credo anche che la musica abbia l'impressionante potere di essere utilizzata per qualsiasi scopo, anche per diffondere la pace nel mondo.
Sono certo che se si riuscisse a debellare tutto l'odio che l'essere umano ha sviluppato dentro di sé, tutte queste guerre tra popolazioni di religione diversa, di fazioni politiche contrastanti o di differenti interessi sia economici sia territoriali, il nostro pianeta diventerebbe il posto più bello dell’universo intero. E quest'odio, lo si può scacciare anche attraverso questa forma d’arte che sì, è astratta, ma se la si fa percepire nel modo giusto può diventare un'arma potentissima contro qualsiasi forma di male.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire la tua musica “poesia”, opera d'arte, creazione nel senso pieno del termine?
Ovviamente sì. La musica e la poesia secondo me camminano di pari passo. Sono come due sorelle esteticamente diverse ma con la stessa madre. 
Un poeta, quando scrive ed è ispirato, non fa altro che esternare le proprie emozioni su un foglio di carta attraverso il suo strumento, la penna. Se ci si pensa attentamente, non è diverso da quello che fa un musicista nella stessa situazione. Cambia solo lo strumento.

Perché suoni? Perché senti l'esigenza di comunicare mediante l'arte della musica?
A questa domanda purtroppo, non riesco a dare una risposta che rispecchi a pieno il perché di questa mia esigenza. Posso dire solo che scrivere musica ed esprimermi attraverso la mia chitarra, mi porta in una dimensione mentale e spirituale che mi dà la possibilità di esternare le emozioni più profonde che tengo inconsciamente dentro di me, che altrimenti a voce o in qualsiasi altro modo non riuscirei mai a comunicare.

Che cosa racconti con la tua musica?
Un musicista come qualsiasi altro tipo di artista, che sia pittore, poeta, scultore, eccetera, crea dei metodi personali per riuscire ad arrivare al proprio scopo, cioè finire la propria opera.
Io scrivo sempre qualsiasi cosa mi viene da scrivere, in qualsiasi momento mi sento ispirato. Una volta mi portavo dietro sempre un taccuino ed una penna per poter assolvere a questa mia esigenza nei momenti inaspettati della giornata, per poi mettere insieme le parti che più si adattavano per la conclusione di un testo di una canzone. Adesso, dato che il mondo e la tecnologia vanno avanti, prendo nota con il mio cellulare. Ma va bene così, il risultato è sempre quello alla fine. In un secondo momento, aggiungo tutta la parte riguardante il background musicale del brano e non nascondo il fatto che questo mi viene anche molto facile. Detto questo, concludo dicendo che la mia musica, racconta della mia vita vissuta giorno per giorno.

Un musicista può sentirsi tale senza i gli ascoltatori?
Sì, penso di sì, ma fino ad un certo punto, perché un artista, per dare un senso al proprio lavoro, deve per forza di cose sottoporsi al giudizio ed alla condivisione dei propri lavori ad altre persone. La musica senza gli ascoltatori non avrebbe senso.

Che cosa significa oggi vivere come un musicista e vivere esclusivamente della propria musica? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Sicuramente di questi tempi la vita di un musicista è molto ardua a livello sia economico sia affettivo. Per un musicista è quasi impossibile avere una vita stabile. La tecnologia ha sconvolto il mercato discografico, quindi, di dischi se ne vendono ben pochi. Siamo costretti a stare sempre fuori casa per fare tour e concerti perché è l'unica forma di sostentamento economico sicura. Ormai viviamo da nomadi e questo comporta i suoi svantaggi. 
Devo anche dire, però, che tutto ciò comporta anche molti aspetti positivi, per esempio il vivere in libertà assoluta, il conoscere sempre nuove persone, nuove culture e il vedere giorno dopo giorno dei posti del nostro pianeta nuovi e meravigliosi. Si vive la vita fino in fondo.

Cosa ti spinge a restare nella tua terra natia?
Amo la Calabria incondizionatamente. Quando parto per lunghi periodi ne sento fortemente la mancanza. Provo sentimenti per la mia terra che non sono molto lontani da quelli che sento per mia madre. Qui mi sento protetto, al di là di tutte le difficoltà che si hanno per restare.

Puoi definirti una sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Sfido qualsiasi persona a trovare un musicista che non sia un sognatore. Sì! Assolutamente lo sono. Cerco sempre di fare di più per trovare sempre la strada giusta per crescere a livello sia artistico sia umano, ma posso dire che ho sempre sognato di vivere la mia vita facendo quello che mi piace fare e per il quale sento di essere nato. Suonare ovunque. Nel mio piccolo, sto per vivere il mio sogno nel cassetto.

Parlaci del tuo ultimo disco, “My world in the other hand”.

È il disco che ha in qualche modo fatto crescere dentro di me la convinzione e la voglia di continuare a percorrere la strada del musicista. È un disco composto da 12 brani, dei quali 11 inediti e 1 cover intitolata “Whippin' post”. Abbiamo fatto la scelta di inserire questa cover nella play-list del disco perché è stata scritta da una band degli anni '70 che, proprio nel 2014, mentre stavamo per registrare il disco negli Stati Uniti, ha deciso di ritirarsi dal mondo discografico per evidenti motivi. Gli “Allman Brothers” sono l’emblema del nostro stile musicale, il Southern Rock! Abbiamo voluto rendere loro omaggio.
Il disco, da come si può capire dal suo titolo, racconta dei nostri stati d’animo vissuti giorno per giorno: i disagi di ogni genere causati da tutto il sistema mondiale; i sentimenti, belli come l'amore verso il prossimo e lo stare bene insieme facendo nuove esperienze, o brutti come di dolori dati da malattia e quant'altro. In breve, rispecchia il nostro modo di vivere e di essere.

Chi desidera seguirti e saperne un po' di più sulla tua musica, dove può rivolgersi?
Noi abbiamo un sito internet, dove si può trovare tutto il nostro materiale come il disco, l'ep, le nostre bio, i contatti, le date concerti e le news:

Abbiamo anche un canale Youtube:

E una pagina Facebook:

Alcune parole per i giovani.
Ricordate, e mi rivolgo specialmente ai più giovani, che il futuro della nostra esistenza dipende da noi! Siamo noi a dover costruire il nostro avvenire. Se desideriamo un mondo migliore di questo, bisogna fare in modo che lo diventi!
Non smettete mai di rincorrere i vostri sogni: fate di tutto per lasciare che si avverino!