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venerdì 31 agosto 2018

Luoghi




- di Saso Bellantone

Si è destinati a certi luoghi o, forse, alcuni luoghi sono destinati a noi. Non si sa se sia davvero in un modo o in un altro, eppure vi è una stretta relazione tra io e luogo, tra coscienza e ambiente circostante. È un problema, quest'ultimo, ben chiaro già ai primi filosofi anche se, fino a Cartesio, si dava maggiore importanza alla conoscenza delle cose in maniera ultima e definitiva, entro la quale, molto probabilmente in termini mistico-sacrali e religiosi, si forniva un'interpretazione el singolo essere umano. Con Cartesio, e poi con Galileo e Kant, comincia quel processo di indagine della res cogitans e della res extensa che porterà a una visione scientifica del mondo e a partire da Freud della coscienza umana, allo scopo, così come facevano i primi pensatori, di tracciare una immagine certa di entrambi.
Al di là di ogni metodo e prospettiva con i quali giungere a una comprensione risolutiva dei due oggetti in esame, resta tuttavia il problema della loro relazione, ben più pesante e pressante per alcuni rispetto al possesso di una carta geografica completa che consenta di muoversi con sicurezza nell'universo e nella propria psiche. L'io, cioè, continua a sentirsi legato al luogo in cui si trova, la coscienza all'ambiente circostante nel quale è immersa, l'interiorità all'esteriorità nella quale è calata, la psiche alla corporeità, della quale, tra l'altro, fa parte. Perché vi è questa stretta relazione? A che pro? Vi è una ragione di essa? Uno scopo?
Domande, queste ultime, irrisolte e irrisolvibili, se non in chiave mistica, ascetica, teologica, religiosa, ossia per mezzo di prospettive egoistiche ed egocentriche, le cui risposte non assicurano nulla di vero in merito a quegli interrogativi ma soltanto un progetto di potere e di dominio sugli altri, sia per le cose futili e banali sia per quelle di portata più ampia. Mentre alcuni continuano a illudersi con tali fittizi responsi, altri invece sono consapevoli di essere soli con quegli stessi quesiti; soli e bramosi di chiarirli una volte per tutte. E anche se non ci riescono mai, permangono ciechi nel domandare.
La questione interno-esterno è uno dei pezzi galleggianti del relitto della filosofia, affondato nel mare del tempo e della secolarizzazione. Con Nietzsche, si è giunti alla scoperta che anche il pensiero filosofico è soggetto a una laicizzazione, per cui tutte le vecchie domande o crollano con la filosofia o sono poste in maniera nuova, compreso il dilemma interno-esterno. Se l'essere umano continua a porsi tale interrogativo, allora quest'ultimo merita ancora di essere indagato, concependo il problema però in forma nuova, a partire da altre cornici, presupposti e traiettorie.
Innanzitutto l'essere umano, come sintesi di mente e corpo, è già l'esterno di qualcos'altro, ossia dei processi biologici che alimentano e fanno funzionare il suo corpo. Questa esteriorità, tuttavia, è l'interno di qualcos'altro. Trovandosi all'interno dell'universo, dentro quella galassia, quel sistema, quel pianeta sulla cui superficie/ambiente/atmosfera abita, essa, e dunque l'essere umano, è parte di quell'interno. Dal momento che l'universo, nella sua struttura e composizione, è regolato da forze ed energie, la maggior parte delle quali sono ancora da scoprire e da capire, e dal momento che l'essere umano è (al)l'interno di esso, allora anche lui è ordinato nel medesimo modo ed è condizionato da esse, da forze ed energie che si manifestano in maniera macrocosmica, l'universo, e microcosmica, il corpo umano.
Lo stretto legame che l'essere umano percepisce con un determinato luogo non è altro che il segnale di quella stretta connessione tra lui, in quanto esteriorità e corporeità, e l'universo intero. La questione è che tale segnale è recepito e messo a fuoco per mezzo del pensiero, anche questo parte dell'essere umano, il quale però è astratto e invisibile, tranne nel caso in cui si concretizza per mezzo delle azioni corporee con cui raggiunge precisi scopi prefissati (alimentarsi, dormire, camminare e così via) ed è a sua volta condizionato dalla cultura che gli viene trasmessa, che eredita e che esercita quotidianamente. Proprio la cultura, infatti, è ciò che influenza e suggestiona l'essere umano, la sua psiche, la sua percezione dei luoghi e dello stretto legame che vi è con essi.
Guardando una nuvola, per esempio, si dovrebbe dire di vedere una nuvola ma a seconda della cultura ricevuta si dice di vedere forme geometriche, fantastiche, religiose e altro ancora. Lo stesso vale per i luoghi e i paesaggi.
La cultura è paragonabile a un elastico che può spingere lontano ma può anche tenere legati. Perciò, è lavorando su di essa che è possibile influire sulla psiche umana e aiutarla a percepire le cose, e i luoghi, per quello che sono. In questo senso, si potrebbe dire che un luogo è soltanto se stesso e che non vi è alcun legame con esso, ma secondo una prospettiva macrocosmica, cioè sul piano delle forze e delle energie, non è così. Infatti, se alcuni alimenti possono condizionare la nostra vita e il nostro pensiero, lo stesso vale per ciò che è e resta al di fuori di noi. Così come alcune sostanze ci fanno stare bene o male, allo stesso modo alcuni luoghi sortiscono su di noi lo stesso effetto. È risaputo che vivere in un ambiente degradato condiziona a tal punto da sviluppare un modo di pensare e di pensarsi simile, anche se in alcuni casi spinge a ricercare l'opposto, e viceversa. In questo senso i luoghi hanno un ruolo cruciale nella vita di ognuno, un'importanza tale da deciderne il destino anche sul piano biologico oltre che culturale. Chi vive per esempio in zone montane è abituato alla scarsa quantità di ossigeno presente nell'aria e ritrovandosi a una bassa altitudine soffrirebbe per la maggiore presenza di ossigeno nell'aria, e viceversa. Se tale è l'influenza fisica di un luogo, altrettanto è quella culturale (o la sua interpretazione).
I luoghi sono parte di noi e noi siamo parte di essi. Li vogliamo, li ricerchiamo, in maniera inspiegabile, perché con e per mezzo di essi viviamo grandi emozioni. Da ciò si spiega anche il fenomeno del turismo. Ma oltre che vissuti in maniera irrazionale, occorrerebbe vivere i luoghi in maniera misurata. Ci vorrebbe, cioè, un'educazione ai luoghi sul piano storico, artistico, scientifico e mediante le tante discipline utili per comprendere maggiormente la loro natura, struttura e il loro funzionamento. Ciò chiama in causa un'educazione all'abitare, che significa conoscere l'ambiente in cui ci si trova immersi e, dal momento che la psiche è già immersa in un altro ambiente, il corpo, occorrerebbe anche un'educazione alla propria corporeità.
L'educazione all'abitare, in questa prospettiva, si manifesta duplice, ambiente da un lato e corpo dall'altro lato, ed è possibile con una visione critica dei saperi e delle stesse discipline umane utili per una formulazione di essa. Per enunciarla e formalizzarla è necessario pensare, a partire dalla stretta relazione interno-esterno sopra espressa, e per comunicarla è necessario poi istruire.
Una sfida, perciò, di carattere filosofico, in quanto la relazione interno-esterno si espone al domandare e quest'ultimo, al di là della ruggine tradizionale e dei vuoti estetismi delle mode passeggere, cela sempre i grandi interrogativi sulla vita e sull'universo. In questo senso, nella relazione interno-esterno, io e luogo, coscienza e ambiente, res cogitans e res extensa, e nel fascino che tale mistero suscita ancora, non vi è altro che la domanda sul mistero dell'esistenza, accessibile a partire da qualsiasi luogo e, tuttavia, non ancora risolvibile, e poi quella sulla sua origine e la sua fine, ammesso che di essi di possa parlare, e anche sul nostro destino all'interno di essa.
I luoghi dunque ci parlano del nostro destino, anzi ci chiedono di esso e ci fanno interrogare su di esso. Ci ricordano che il destino è e non è nelle nostre mani, al pari di quello dello stesso domandare. Essere umano, luoghi, domandare sono infatti strettamente connessi in questa parola, il cui significato può morire o risorgere o trasmutarsi a seconda del rapporto che intratteniamo con essa e se lo intratteniamo oppure no.
Per quanto siano soltanto se stessi, da questo punto di vista i luoghi sono anche di più: l'accesso privilegiato a questa parola, sostando con la quale possiamo ancora emozionarci e pensare.

martedì 21 agosto 2018

Chiedimi chi sono



- di Saso Bellantone

“Chi sono?” è una delle domande che l'essere umano ha iniziato a porsi – e in seguito altre quali “Dove sono?”, “Perché sono?”, “A che scopo?” – dal momento in cui ha preso coscienza di essere, esserci, esistere. Un enigma insolubile, la cui inesplicabilità spesso spinge alla resa, lasciandosi persuadere che la propria identità coincida perfettamente con il contingente, la società, la vita così come accade ed è vissuta.
Vi sono dei momenti, tuttavia, in cui la sicurezza radicata nell'evidenza dell'accadere e nella chiarezza della ripetizione va in frantumi e tutto ciò che finora è stato dato per scontato viene messo in discussione. Si vaga nel buio, si torna indietro sui propri passi e si cambia nuovamente rotta ma non si scorge traccia dell'uscita dal labirinto oscuro in cui si è finiti. Si sospende il giudizio, si torna alla vita di prima ma è tutto diverso, adesso. Non soltanto non c'è più la vita così come prima avveniva, non vi è proprio il prima né il dopo. Restano solo il qui ed ora e la domanda che riverbera nella coscienza con tutto il peso di ciò che costituisce l'esistente: “Chi sono?”.
Si potrebbe rispondere in molti modi, senza sapere, però, qual è l'opzione giusta:
  • in maniera mistico-religiosa, e cioè secondo una o più delle interpretazioni con cui gli essere umani traducono in forma rituale il loro istinto teologico e la ricerca del divino;
  • in maniera social-comunitaria, ossia sulla base dell'interpretazione della vita e dei ruoli all'interno dello specifico clan o gruppo cui si appartiene;
  • in maniera tecnico-economica, vale a dire per mezzo del lavoro che si pratica e dei guadagni di cui si dispone;
  • in maniera intellettual-letteraria, e cioè mediante uno o più dei tanti saperi cui si ha accesso;
  • in maniera web-mediatica, ossia tramite le informazioni che è possibile trarre da internet e dai media;
  • in maniera solipsistico-decadente, vale a dire mediante le convinzioni maturate nel tempo, espresse per monologhi, interiori o scritti, spesso accompagnati dall'uso e dall'abuso di sostanze stupefacenti, alcoliche, farmaci e psico-farmaci, consapevoli o no dei loro effetti.
Alcuni si accontentano di una delle precedenti alternative, spesso coscienti di non aver trovato risposta affatto al quesito, vivendo il resto della vita come spettri illusi in un paesaggio grigio fatto di sorrisi falsi e lacrime invisibili; altri non trovano ristoro in nessuna delle precedenti possibilità e continuano a ricercare senza sosta la risposta, in una continua partita a scacchi a tre, assieme alla follia e alla dama nera.
Il pensiero sistemico ed ecologico, d'altro canto, ha evidenziato come un determinato soggetto non sia altro che la risultante dell'ambiente in cui è immerso e vive, in un continuo scambio di influenze reciproche. Un processo di tira e molla, quest'ultimo, destinato a non avere fine e che, pur passando per momenti di apparente equilibrio, si evolve di continuo per mezzo di ogni novità di cui è informato il sistema soggetto-ambiente. In questo panorama, l'identità della persona facente parte di un determinato contesto sociale – a sua volta costituito da micro-sistemi quali la famiglia, il lavoro, la scuola, lo sport e così via – non può essere definita in maniera definitiva; si può pensare, invece, a identità temporanee, destinate a loro volta a essere abbandonate, superate, oltrepassate.
I totalitarismi, e in particolare quello nazional-socialista, protagonista della Seconda guerra mondiale e della Shoa, hanno messo in evidenza come l'identità della persona – si pensi al caso Eichmann –, all'interno di una interpretazione del mondo in chiave mistico-militare totalizzante, possa essere confinata alla mera esecuzione dei ordini ricevuti, senza spazio alcuno per un giudizio personale, figuriamoci morale, pena: la morte. Una parentesi agghiacciante, quest'ultima, della storia umana perché oltre a far luce su altre guerre passate e contemporanee, evidenzia anche il funzionamento del giudizio umano all'interno di un sistema politico-militare basato sull'accentramento del potere e sul terrore. L'identità singolare, in un contesto simile, non è altro che una pagina scritta a matita, perfettamente cancellata dalla gomma della violenza e riscritta dalla penna di chi possiede la sovranità; in altri termini, l'identità del singolo non è altro che quella collettiva, di ogni altro, simile a quella delle api, delle formiche, delle termiti, della catena di montaggio e delle varie tecnologie robotiche che ci circondano, presto sostituite dalle I.A.
Si potrebbe rispondere alla domanda sostenendo di essere carne e mente, hardware e software ma sarebbe troppo banale e si resterebbe all'interno di un circolo vizioso monologistico. L'essere umano non può essere soltanto il proprio corpo e le informazioni ricevute o impiantate nella propria testa, né il frutto di chirurgia estetica, invasiva e non, né le notizie con cui si aggiorna, non è la moda che sceglie di seguire tanto meno il linguaggio che decide di impiegare. Se non è nulla di tutto questo, allora come rispondere alla domanda?
Forse, “Chi sono?” non è un interrogativo a cui si può rispondere in maniera solitaria. Forse, è un quesito del quale si può rispondere a qualcun altro, ammesso che vi sia qualcuno ancora interessato non a sapere dell'altro nella forma del gossip ma a conoscere l'altro, ascoltando personalmente quanto ha dire, in qualsiasi modo egli si esprima.
La domanda “Chi sono?”, ammessa la resistenza di spazi di relazione con l'altro in maniera autentica, diventerebbe dunque “Chiedimi chi sono?”, una domanda completamente diversa dalla precedente in quanto, nella società attuale, figurerebbe anche come una richiesta, un'urgenza di ciò che non avviene più se non raramente e fortuitamente.
È probabile che la fatalità con cui tale domanda-richiesta si presenta, anche quando non è pronunciata palesemente, scandisca il tempo autentico di ognuno e lasci emergere le tracce di quella che potrebbe essere la propria identità ma non vi è certezza neanche in questo. Resta soltanto la speranza della relazione con l'altro in una società abitata da innumerabili cupole di vetro oscurato quali noi siamo.