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lunedì 30 maggio 2011

L'ESSENZA DELLA GLOBALIZZAZIONE: immagini del mondo e strumenti di orientamento e di localizzazione (2)

Una delle immagini evocate dal termine globalizzazione è quella del globo, o mappamondo. Come già accennato precedentemente, si tratta di una riproduzione in miniatura della Terra, facente parte di quell'insieme di prodotti dell'arte plastico-figurativa che l'essere umano ha realizzato nel corso della propria storia, sino ai nostri giorni. Quando oggigiorno si guarda il globo, o lo si immagina, in un certo senso è come vedere o figurarsi mentalmente la Terra. La si considera un pianeta, avente una precisa conformazione, che gira sul proprio asse e attorno al Sole, immersa nell'universo. In passato, però, avveniva qualcosa di diverso. Dal momento in cui fu introdotto – Martin Behaim lo costruì per la prima volta nel 1490-92 – guardare il globo, o immaginarlo, significava iniziare a considerare il “mondo conosciuto” in modo nuovo. L'introduzione del globo ebbe il senso di una rivoluzione paragonabile a quella copernicana, per due ragioni. Primariamente, perché costituì, presentò e rappresentò una nuova immagine del mondo rispetto a quella di un altro prodotto dell'arte plastico-figurativa, già in uso: la carta geografica. Mentre quest'ultima infatti descriveva il mondo secondo una forma piatta, il globo invece lo delineò secondo una forma sferica. In secondo luogo, perché divenne un nuovo strumento di orientamento e di localizzazione. La carta geografica infatti è, presenta e rappresenta un'immagine del mondo conosciuto ma il suo scopo non è esclusivamente estetico o speculativo. Né l'essere umano l'ha realizzata per puro diletto. Bensì allo scopo di orientarsi nel mondo, vale a dire per dare a se stesso, ai suoi simili, agli altri enti o a determinati avvenimenti una precisa localizzazione. Ciò vale anche per il globo. In questo senso, da quando fu introdotto, guardare il globo anziché la carta geografica significò cominciare a vedere, a immaginare, a pensare il mondo e iniziare a orientarsi, a localizzarsi e a localizzare in esso, in modo nuovo.

Dall'introduzione del globo passeranno cinque secoli per giungere alle prime osservazioni della Terra dallo spazio, le quali proveranno la sua sfericità. Durante questo periodo, il globo è stato migliorato e perfezionato (malgrado le carte geografiche siano maggiormente usate sia perché più facili da trasportare e da consultare sia perché possono essere sempre più perfezionate nei dettagli), divenendo la base per la costruzione degli odierni planetari, quegli strumenti cioè utili per rappresentare il sistema solare. Il planetario, un altro prodotto dell'arte plastico-figurativa, è un'altra rivoluzione simile a quella introdotta dal globo, perché è, presenta e rappresenta una nuova immagine del mondo usata come un nuovo strumento di orientamento e di localizzazione. Se la carta geografica e il globo offrono rispettivamente un'immagine del mondo piatta e sferica, il planetario fornisce un'immagine del mondo più complessa: sistemica. Quel che prima con il globo era indicato come “mondo”, adesso diviene un pianeta (la Terra), mentre “mondo” diventa un insieme di corpi celesti satellitanti attorno a una stella (il sistema solare), tra cui la Terra. Il planetario raffigura quest'ultima come il terzo pianeta di tale sistema, che ruota attorno al proprio asse e attorno al Sole (oggi sappiamo che è soggetta ad altri movimenti, quali la precessione degli equinozi, la precessione orbitale, l'inclinazione dell'asse, la translazione del sistema solare in direzione della costellazione di Ercole e via dicendo). Costruito sulla base delle osservazioni dello spazio operate dagli astronomi, il planetario introduce tre elementi nuovi rispetto alla carta geografica e al globo: un ambiente nel quale si trova la Terra, lo spazio aperto; un luogo entro tale ambiente, il sistema solare; una posizione entro tale luogo, il suo orbitare attorno al Sole tra Venere e Marte. Guardare il planetario anziché il globo, significa iniziare a vedere, a immaginare, a pensare il mondo e a orientarsi, a localizzarsi e a localizzare in esso, in modo nuovo.

Naturalmente, le osservazioni astronomiche non si sono fermate al sistema solare ma si sono spinte sempre più oltre, fin dove gli strumenti d'osservazione hanno permesso di vedere. Così in pochi anni – un tempo breve rispetto ai cinque secoli passati per giungere dal globo al planetario – si è introdotta una nuova immagine del mondo usata come un nuovo strumento di orientamento e di localizzazione: la mappa dell'universo conosciuto. Così come è avvenuto con il globo e il planetario, anche quest'ultima è una rivoluzione, perché offre un'immagine del mondo ancora più complessa: caotica. Anche in questo caso, quel che prima con il planetario era indicato come “mondo”, adesso diviene un sistema (il sistema solare), mentre “mondo” diventa l'universo conosciuto. La mappa dell'universo raffigura il sistema solare all'interno della Via Lattea, una delle galassie (insieme di stelle e di altri corpi celesti) di cui è composto l'universo. La mappa dell'universo conosciuto introduce altri due elementi rispetto al planetario: l'universo e la galassia. Il primo diventa un ambiente indefinito, costituito da regioni composte da ammassi di stelle, le galassie. La Via Lattea diviene la regione nella quale la Terra occupa un luogo, il sistema solare, e una precisa posizione, il suo orbitare attorno al Sole tra Venere e Marte. Guardare la mappa dell'universo conosciuto anziché il planetario vuol dire ancora una volta cominciare a vedere, a immaginare, a pensare il mondo e a orientarsi, a localizzarsi e a localizzare in esso, in modo nuovo. Il limite della mappa dell'universo, però, è la sua parzialità. Essa infatti è, presenta e rappresenta un'immagine del mondo incompleta, perché gli astronomi non possiedono gli strumenti e le tecnologie adatti per garantirne un'osservazione integrale.

La carta geografica, il globo, il planetario, la mappa dell'universo sono sì dei prodotti dell'arte plastico-figurativa ma anche dell'ingegno. Queste riproduzioni figurate del mondo non sono state plasmate per scopi puramente estetici o per diletto, ma per la vita. Orientarsi, localizzarsi, localizzare è una necessità cui l'essere umano, nel corso della propria storia, ha dovuto far fronte per vivere. Conoscere dove si trova lui stesso, i propri simili, gli enti, precisi avvenimenti naturali o di altro genere; sapere come è costituito il suo habitat, quanto è grande, che cosa offre, quali pericoli e quali sicurezze si celano in esso; apprendere dove procurarsi del cibo, dove trovare ciò che gli è necessario per la sua sopravvivenza, sapere quali rotte o percorsi intraprendere per commerciare, scambiare beni con altri ecc. – è un bisogno istintivo, imposto dalla vita stessa. L'uso di queste immagini del mondo come strumenti di orientamento e di localizzazione, risponde a questa esigenza spontanea e, nel corso del tempo, anche a un'altra che qualifica l'essere umano diversificandolo maggiormente dagli altri esseri viventi: il piacere della scoperta. All'essere umano piace scoprire nuovi luoghi, regioni, mari, ambienti naturali, enti, esseri viventi, pianeti, stelle e via dicendo. Egli ha il gusto per l'ignoto, ama sfidarlo. Ma per vivere, gli occorre riferirsi a quelle immagini del mondo, a quegli strumenti utili per orientarsi, localizzarsi e localizzare, plasmati sulla base di ciò che già conosce e sa. Se ne facesse a meno, rischierebbe la vita.

L'oggetto indagato in tal sede, non è la planetarizzazione né un'universalizzazione, cioè i termini richiamati alla mente dal planetario e dalla mappa universale, bensì la globalizzazione. Questo parola infatti evoca l'immagine del globo ma tale evocazione, a ben vedere, indica un riferimento, una stretta connessione cioè che intercorre tra il termine-fenomeno indagato e l'immagine che suscita. La voce globalizzazione si riferisce all'immagine del mondo e allo strumento di orientamento e di localizzazione che il globo è, presenta e rappresenta. Dal momento che lo scopo del globo, così come ogni altra immagine-strumento, è la vita, perché risponde sia all'istintivo bisogno umano di orientarsi, di localizzarsi e di localizzare sia al piacere umano per la scoperta, allora si comprende come la globalizzazione, ancorandosi al globo, accenni a un fenomeno che si pronuncia a proposito di quel bisogno, di quel piacere. Considerando che, però, questo termine evoca assieme al globo altre immagini – la sfera e l'occhio – con le quali dice anche che questo fenomeno coinvolge simultaneamente l'ente Terra e l'essere umano, la visibilità e il vedere, le forme e la rappresentazione dell'ente, un fenomeno dunque filosofico, allora si capisce che la globalizzazione è un avvenimento che parla riguardo a quel bisogno e a quel piacere, in modo filosofico.

giovedì 19 maggio 2011

MONOLIRIUM: monologo in delirio

- di Saso Bellantone
Il monologo è solitario, unidirezionale, monocromatico. Non ha tempo né pause, è un fiume in piena, un deserto senza sabbia. È sicuro, persino nell'insicurezza. È vero soltanto nella sua falsità. È una maschera che non sa vedere chi c'è dietro. Un pendolo che corre a vuoto. È una nota continua senza pentagramma. Una corsia autostradale senza uscite. Una camera stagna, un genio dentro la bottiglia, un dipinto senza osservatore. È una stella senza traiettoria. Una tempesta in balia di se stessa. Uno specchio per ombre e fantasmi. Il monologo vede le minuzie e perde l'insieme, scorge l'insieme ma perde le minuzie. Il monologo investe il mondo, ma nel mondo non trova alcuna veste che faccia al caso suo. Pensa il mondo, lo avverte, ma non sa se è questo il mondo che avverte e pensa. Il monologo è un'enciclopedia che nel sapere tutto, alla fine, sa di non sapere niente.
Il monologo non ammette nessun altro monologo. Se lo incontra, lo azzera, lo zittisce, lo annienta riducendolo a se stesso. Il monologo è se stesso, vive di sé. Vuole essere se stesso perché sa di poter essere ciò che è, sa di poter essere ciò che vuole. Non riesce a fare a meno di volere quel che può essere. Anzi, usa tutto se stesso per essere ciò che è e ciò che vuole. Il monologo è un viaggio per il mondo intero che nel tornare a casa resta soltanto pieno di sé, di quel che già era, voleva, poteva prima del viaggio stesso. In questo senso, è sempre ciò che non è, un volere che non vuole, un potere che non può. Vuole sapere ciò che non è, ciò che non vuole, ciò che non può ma la sua pienezza d'essere, di volere e di potere lo limita. Il monologo è limitato. È il limite che egli stesso, malgrado sé, s'impone, vuole e può. Si autolimita, essendo, volendo e potendo quel che è, vuole e può. Il monologo è un turbine che, alla fine, nel suo turbinare, si snoda, si slega, svanisce. Nell'essere, nel volere e nel potere tutto, alla fine, il monologo non è, non vuole, non può niente.
Il niente del suo essere, volere e potere, il monologo lo mette a fuoco soltanto in un caso: per fatalità. È scritto, forse in qualche luogo non luogo, quale monologo può giungere al proprio niente e quale no. Ogni monologo è un corredo genetico, un complesso di eventi, un'avventura unica e irripetibile. Alcuni monologhi sono destinati a trascendersi dai propri geni, dagli eventi, dall'avventura. Altri sono condannati ad auto-frantumarsi. C'è poco da fare per quest'ultimi. Per gli eletti, invece, la metamorfosi è soltanto l'inizio. Il monolite si spezza e si frantuma, e dall'ammasso dei frammenti sorge altro. Qualcosa di nuovo. L'inatteso, l'impensabile, l'incalcolabile, nei confronti del quale il monologo non riesce a essere, a volere, a potere, ma soltanto ad abbandonarsi, a lasciare andare il proprio mono e il proprio logo.

mercoledì 18 maggio 2011

L'ESSENZA DELLA GLOBALIZZAZIONE. Prologo (1)

- di Saso Bellantone
Si è soliti associare la globalizzazione all'idea del mercato mondiale unico, interpretandola alla maniera di un fenomeno esclusivamente economico, oppure all'idea del World Wide Web, intendendola un fenomeno informatico, o a entrambi. Ciò avviene perché la fortuna del termine globalizzazione si è accresciuta proprio mediante quelle idee ma, a ben vedere, questi accorpamenti sono fuorvianti. La globalizzazione infatti non è niente di economico né di informatico, ma qualcosa che avviene prima di questi ultimi e che, nell'accadere prima di essi, li rende possibili. In questo senso, la globalizzazione non è nemmeno un fenomeno recente ma qualcosa che ha una sua storia. Per comprendere di che cosa si tratta, cominciamo a chiederci: quali immagini evoca questo termine?
La prima immagine che la parola globalizzazione suscita è quella del globo, o mappamondo. Si tratta di una riproduzione in miniatura della Terra e può essere considerato uno di quei prodotti dell'arte plastico-figurativa che l'essere umano ha realizzato nel corso della propria storia sino ai nostri giorni, allo scopo di orientarsi nel mondo, vale a dire per dare a se stesso, ai suoi simili, agli altri enti o a determinati avvenimenti una precisa localizzazione. Oggigiorno, guardare al globo, in un certo senso, è come guardare alla Terra. La si pensa come un pianeta, dalla conformazione dettagliata, che gira su stessa e attorno al Sole, immersa nell'universo. In passato, e più esattamente dal 1490-92 in poi, cioè da quando fu costruito per la prima volta dal tedesco Martin Behaim, guardare al globo significava qualcos'altro. Vale a dire, considerare la Terra non più dalla forma piatta bensì sferica.
La sfera è appunto la seconda immagine che il termine globalizzazione richiama alla mente. In termini geometrici, una sfera è quel solido la cui superficie è costituita dall'insieme dei punti la cui distanza (r) è uguale (o minore o maggiore, nel caso di sfere imperfette) da un punto centrale e interno alla superficie sferica stessa (O). Quando un ente è detto sferico vuol dire che la sua forma risponde alle caratteristiche geometriche appena elencate. Tuttavia, l'ente-sfera possiede altre caratteristiche. Per esempio, la sua superficie è uniforme, cioè non conosce lati né spigolature, e lo separa da un ambiente esterno dove ci sono altri enti (aventi forme simili o differenti) e forze. L'ente-sfera può muoversi, qualora entra in contatto con gli altri enti e le forze esterne (o qualora l'ambiente stesso è fatto in modo tale da costituire esso stesso una forza), o può restare immobile nel caso in cui avviene il contrario. Il modo e la durata del suo movimento dipendono dall'intensità del contatto o dalla tipologia di ambiente nel quale si trova. Il suo movimento può essere duplice: può ruotare su se stessa e muoversi nell'ambiente esterno, e via dicendo. Considerare la Terra secondo una forma sferica, vuol dire attribuirle le caratteristiche della sfera, immaginarla, vederla in questo modo. In questo senso, quando si osserva il globo, ieri come oggi, quel che i nostri occhi riconoscono è sì la Terra, ma soprattutto il suo presentarsi alla maniera di una sfera, il suo rendersi visibile con questa forma.
La terza immagine che il termine globalizzazione evoca è quella del globo oculare, dell'occhio, cioè l'organo relativo al senso della vista. Posto nella cavità oculare, nel cranio, a sua volta sostenuto dal corpo, l'occhio consente all'essere umano di vedere dove si trova, chi e/o che cosa c'è in esso, quali eventi accadono, quali caratteristiche possiede tutto ciò che vede. Si è sempre discusso a proposito di creazionismo e di eternità del tutto, così come di centralità e non centralità dell'essere umano nel mondo, sia secondo una prospettiva religiosa sia secondo una scientifica. All'interno di tali questioni, sarebbe interessante chiedersi: perché l'essere umano (ma anche altri esseri viventi) è stato dotato, da un ente superiore (dio) o dalla natura, del senso della vista? Perché possiede un organo capace di vedere? Egli si trova in un universo costituito da svariati enti – oggigiorno siamo disposti ad accogliere l'idea che è indipendente dall'uomo – che può permanere alla scomparsa dell'essere umano. Sono state fornite numerose risposte a questo interrogativo ma forse la risposta più semplice consiste nell'idea che l'essere umano vede, possiede il senso della vista perché buona parte degli enti che costituiscono l'universo è visibile all'occhio umano. In altre parole, egli vede perché la visibilità è una proprietà degli enti (non di tutti, sia chiaro) al pari della sostanzialità. In quale modo, però, l'essere umano vede gli enti? Come quest'ultimi si presentano a lui? Principalmente, mediante le forme. Una forma è il modo di presentarsi dell'ente. La peculiarità di ogni forma è la sua definizione, la sua finitezza. Se le forme fossero indefinite, dunque senza fine, l'occhio umano non potrebbe vederle. L'occhio umano vede le forme perché sono definite e in quanto tali possono essere abbracciate interamente con lo sguardo. Se fossero indefinite, prive di definizione, l'occhio umano non riconoscerebbe quel che vede perché scorgerebbe soltanto il caos, un ammasso confuso e indefinito. In altre parole, non vedrebbe gli enti, perché le forme sono il modo di presentarsi degli enti.
Le forme stabiliscono dunque una stretta relazione tra gli enti e l'occhio umano. Da un lato, sono il modo di presentarsi degli enti, di rendersi visibili; dall'altro lato, sono il modo con il quale l'occhio umano scorge gli enti, li vede e può dunque notarne le somiglianze e le differenze – sia chiaro, può farlo anche mediante altre qualità, come per esempio il colore, la distanza, la vicinanza ecc. – scansando il caos. Dal momento che è l'essere umano a dare un nome alle forme, si ritiene che sia stato proprio lui a imprimere le forme nel mondo. Se però si considera l'ipotesi della persistenza degli enti – e delle loro forme – in seguito alla scomparsa dell'essere umano, tale idea crolla. In quanto proprietà degli enti al pari della sostanzialità, le forme sono negli enti indipendentemente dall'essere umano, dunque non è lui a imprimerle sugli enti. Naturalmente, se scomparisse l'essere umano, la multiformità degli enti e la loro visibilità sarebbero un surplus, a meno che non esistano altri esseri capaci di scorgerli. Le forme degli enti, dunque, hanno senso finché vi è un osservatore: se mancasse quest'ultimo, sarebbero insensate, nonostante la loro persistenza. Le forme sono dunque il punto di contatto tra gli enti e l'occhio umano: da un lato rendono gli enti visibili; dall'altro lato, consentono all'occhio, cioè all'essere umano, di vedere. Le forme sono alla base della visibilità degli enti e del vedere umano.
Le immagini evocate dal termine globalizzazione, e cioè il globo, la sfera e l'occhio, evidenziano che questa parola, prima di riferirsi a un fenomeno strettamente economico o informatico, dice qualcos'altro. Si pronuncia cioè a proposito di un fenomeno che coinvolge simultaneamente l'ente Terra e l'essere umano, la visibilità e il vedere, le forme e la rappresentazione dell'ente. Per questo motivo, si comincia a capire come il termine globalizzazione indichi un fenomeno che non ha nulla a che vedere con l'economia e l'informatica, ma che si pronuncia sull'ente e, in particolare, sull'ente Terra. In questo senso, la globalizzazione è un fenomeno di carattere filosofico, dunque un fenomeno del pensiero.