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sabato 31 marzo 2012

Versieri: IL TEMPO E’ MUTO di Giuseppe Ungaretti


- di Saso Bellantone

Il tempo è muto fra canneti immoti…

Lungi d’approdi errava una canoa…
Stremato, inerte il rematore… I cieli
Già decaduti a baratri di fumi…

Proteso invano all’orlo dei ricordi,
cadere forse fu mercé …

                                      Non seppe

Ch’è la stessa illusione mondo e mente,
Che nel mistero delle proprie onde
Ogni terrena voce fa naufragio.

Tempo. Che strana parola. A seconda del sistema di riferimento impiegato, della prospettiva sulla quale ci si colloca e del linguaggio che si parla, il termine tempo cambia. Si usa per indicare il divenire delle cose, per misurare il loro spostamento nello spazio, per individuare il cambiamento degli stati – fisici, psicologici, biologici, geologici, astrali – e per determinare l’accadere costante di determinati avvenimenti sociali, lavorativi, burocratici, cultuali. Si utilizza questo lemma in diversi modi, per diversi scopi e, proprio per questo motivo, alle volte, si ha come l’impressione che nel vocabolo tempo ci sia tutto, vale a dire quell’ambiente dai confini sconosciuti e forse impenetrabili che si è soliti chiamare universo, mondo, esistenza. “Quanto tempo ha il mondo? Come misurarlo?” ci si chiede. Ma il tempo non può essere cronometrato da esseri minuscoli quali sono gli umani, relegati in un pianeta periferico del misterioso habitat nel quale si trovano. Per farlo, dovrebbero posizionarsi al di fuori del mondo e osservarlo, paragonandolo a ciò che mondo non è, oppure possedere delle dimensioni titaniche, più grandi di quelle dei pianeti e delle galassie, e stabilire un criterio di misura per stimare il significato del termine tempo in relazione all’intero cosmo. Oppure, ancora, per sciogliere questo arcano, dovrebbero ricevere una rivelazione miracolosa da parte di un dio. Ma queste ipotesi, queste condizioni non sono possibili, così gli umani si ritrovano condannati a convivere eternamente con questo grande segreto insolubile. A causa di tale indecifrabilità, alcuni decidono di abbandonarlo, altri lo dimenticano volontariamente e involontariamente, altri ancora continuano a sfidarlo, in pura perdita, fino all’ultimo respiro. E tuttavia, alle volte, proprio quando credono di averlo scordato o quando non ci speculano affatto, gli umani si trovano nuovamente innanzi al mistero del tempo, mettendolo in relazione, però, a qualcosa che è più a portata di mano rispetto all’immensità del cosmo: la propria vita.
In questi momenti, nei quali signoreggia la domanda “Quanto tempo ha la mia vita? Come misurarlo?”, il singolo essere umano ha l’impressione di trovarsi innanzi al medesimo segreto cosmico, si rende conto cioè che il mistero della durata della propria vita e di quella dell’universo sono connessi e, ahilui, capisce che anche questa nuova domanda è irresolubile al pari della prima. Ed ecco che sorge un preciso stato d’animo, stremante, con il quale difficilmente si riesce a convivere: la disperazione della soluzione.
Innanzi a questa domanda, l’essere umano si sente come un rematore stanco che, vagabondando tra i flutti della vita a bordo della propria canoa e senza porti sicuri né mete, si ritrova improvvisamente all’interno di uno smisurato e immobile canneto, nel quale non soffia neanche un alito di vento. Qui, egli dispera della risoluzione dell’enigma ma volge lo sguardo verso il cielo, patria di sicurezze divine, non soltanto perché gli è impossibile scorgerlo dall’interno del canneto ma perché crede che il cielo sia una voragine fumosa, una nebbia impenetrabile al pari delle domande sul tempo del mondo e della propria vita. Non può rispondere con certezza se esista o non esista un dio. Non ha modo di averne la certezza. E allora in quest’angoscia senza soluzione, l’essere umano scorge i ricordi, si affaccia su di essi e invano tenta di trovare risposta al proprio enigma. Ma non servono a nulla. I ricordi sono soltanto una grazia, un surplus inutile ai fini della scioglimento del mistero.
In questi tormentosi istanti, è inutile districarsi all’interno di tali interrogativi alla ricerca di una soluzione. Le stesse domande, secondo Giuseppe Ungaretti, autore della poesia esaminata, Il tempo è muto, non sono altro che un’illusione, in quanto ogni interpretazione, ogni tentativo di varcare l’impenetrabilità del segreto della propria vita, non può che fallire.

lunedì 26 marzo 2012

La mimosa nera


- di Saso Bellantone
Musica, urla e rumori assordanti squassavano la notte come terrificanti echi provenienti dall’oltretomba. Al passaggio delle orribili onde sonore, le luci dei lampioni sembravano attenuarsi a tal punto da spegnersi, come la fiamma di un cerino al soffio di un respiro. Le strade erano vuote e immobili come paesaggio transilvanico al chiaro di una luna piena, custode di ombre, spettri e antichi segreti. Un odore di morte alitava tra le case spente e fredde come tombe di un cimitero per vivi. Ma non era una necropoli né l’inferno né la fine. Era l’inizio. Il principio di una storia che stava per essere riscritta. Senza inchiostro. Senza parole. Soltanto con la marcia che puntava minacciosa là dove gli echi che infestavano l’atmosfera avevano origine... continua a leggere

giovedì 22 marzo 2012

OLTREWEB Quel fantasma della sovranità monetaria


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
c’è stato un tempo in cui lo stivale possedeva la sovranità monetaria e i panni sporchi li lavava in casa sua, quasi gratuitamente. Bastava impiegare quel che già possedeva: un po’ di sapone, dell’acqua, olio di gomito e, voilà, come nuovi. In altre parole, se aveva dei problemi economici, li risolveva stampando le sue belle Lire alla Zecca, le metteva in circolo e fine della storia. Toccava poi alle aziende, agli operai, ai commercianti e via dicendo fare la loro parte per la ripresa economica, in seguito all’insulina di banconote.  Oggi invece non è più così. Se ha i panni sporchi, lo stivale non possiede più nulla per lavarli in casa e non può nemmeno portarli in lavanderia, perché quest’ultima non li vuole. Può soltanto segnalare il problema alla lavasecco e questa darà allo stivale acqua e sapone (senza olio di gomito), facendoglieli pagare però più del dovuto. Detto altrimenti, se lo stivale ha dei problemi economici, non può più stampare banconote perché non ha più la Lira bensì l’Euro e deve chiederle alla Banca Centrale del Leviatano del Nord (potrebbe produrre monete di piccola taglia ma di certo non riuscirebbe a risolvere i problemi economici e, anzi, la produzione delle monete gli costerebbe più del valore nominale della moneta). Quest’ultima, naturalmente, allo scopo di salvaguardare la zona-Leviatano, erogherà le banconote a favore dello stivale ma addebitandogli il valore nominale della somma richiesta (e non intrinseco) con l’aggiunta di una piccola percentuale “x”, che varia a seconda dell’importo e del caso specifico. Per fare un esempio, se allo stivale servono 1 milione di euro, la “B.C.L.N.” stamperà e darà allo stivale un numero di banconote pari a 1 milione di euro, ma gli addebiterà 1 milione più diecimila, ventimila, trentamila (eccetera) euro, da restituire in un determinato periodo di tempo. Che cosa è cambiato? Che mentre prima lo stivale, in caso di crisi economica, stampando le banconote da sé spendeva soltanto il valore intrinseco di esse (spesa necessaria per produrre le banconote) e dunque ci guadagnava, adesso, è tutto diverso. Chiedendo le banconote alla B.C.L.N., in caso di crisi economica, lo stivale non spenderà una cifra pari al valore intrinseco delle banconote richieste bensì un importo equivalente al valore nominale di esse (valore rappresentato dalla somma richiesta) più un tasso di interesse, in quanto la B.C.L.N. “presta” l’importo allo stivale e non lo vuole pagato subito (in quanto il richiedente è in crisi economica) bensì gli consente di restituirlo nel tempo. In breve, se con la Lira, in caso di crisi economica, lo stivale ci guadagnava, adesso con l’Euro s’indebita e, anche, più dell’importo che richiede. Magnifico no? Figurati, mio caro web, se si dovesse pensare a prestiti erogati dalla B.C.L.N. direttamente sui conti correnti dei suoi richiedenti: costo più o meno tendente allo zero, per il creditore, tendente all’infinito, per il debitore.
È vero, mio caro web, ti ritrovi in un tempo nefasto, dominato da una crisi economica senza eguali, che costringe ai tagli, all’aumento dei prezzi, alla disoccupazione, alla chiusura delle aziende, ai suicidi, alla fame e alla disperazione, ma credi che restare nella zona-Leviatano convenga allo stivale? Il suo debito pubblico ammonta già a 1.935.800 miliardi di euro e, qualsiasi manovra decida di sviluppare per puntare alla crescita del suo PIL – anche questo in caduta libera, dallo 0,2 % allo 0,7% nell’ultimo trimestre – si ritrova in ogni caso in perdita. Essere in debito con se stessi è una cosa ma indebitarsi con il Leviatano del Nord, chiedendo prestiti su prestiti, può sistemare le cose, può lasciar sperare, dal momento che tali richieste non fanno altro che peggiorare la situazione economica stivalica? Sarebbe forse il caso di riconsiderare la Lira e l’uscita della zona-Leviatano? Sarebbe forse il tempo di riprendersi la propria sovranità monetaria?
Medita web, medita…

sabato 17 marzo 2012

VENTIMILA LEGHE SOTTO I MARI, di Jules Verne


- di Saso Bellantone
Quale mistero si cela dietro l’affondamento delle più grandi e avanzate imbarcazioni di fine ‘800? È forse uno scoglio assente da ogni carta nautica? Un’isola galleggiante? Una balena ignota? Un mostro marino? O tutto questo avviene per volontà divina? Inutile scervellarsi nelle congetture. Non c’è altro modo per risolvere tale enigma se non quello di imbarcarsi sull’Abraham Lincoln e partire all’avventura, alla scoperta della verità. È una caccia lunga, faticosa, che solcando ogni mare mette a dura prova la pazienza, il coraggio e la resistenza fisica, soprattutto quando, a un passo dalla verità, si finisce in mare, perdendo i sensi assieme ai propri amici. Ma una volta risvegliatisi, ecco che comincia la vera avventura alla scoperta di segreti più antichi di quello iniziale, quelli cioè nascosti negli abissi dell’oceano, a bordo di un’incredibile nave, il Nautilus, guidata dal misterioso Nemo e dalla sua ciurma.
In Ventimila leghe sotto di i mari (1870), Jules Verne racconta il viaggio a bordo del Nautilus da parte di Pietro Aronnax, professore di storia naturale, Consiglio, suo domestico, e Ned Land, fiociniere canadese. È uno stupendo itinerario sottomarino durante il quale, indagando contemporaneamente i segreti nascosti in fondo al mare e nelle profondità dell’animo del capitano Nemo, il lettore non fa altro che sondare se stesso e tentare di capire chi egli è veramente.

venerdì 16 marzo 2012

OLTREWEB Attenti al Fiscal Compact

- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
alcuni giorni fa, dopo aver incontrato la “donna del Merkato”, l’uomo del Monte ha affermato che dopo la firma del Fiscal Compact non ci si può rilassare e che il Grande Leviatano del Nord deve fare attenzione alle politiche di crescita, economica naturalmente. Possibile che l’uomo del Monte, anziché a quella del Leviatano, si riferisse inconsciamente alla crescita economica dello Stivale? Sai che cos’è, mio caro web, il Fiscal Compact?
È un trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance dell’unione economica e monetaria firmato il 2 marzo 2012 da 25 Nani facenti parte del Leviatano, che contiene una serie di regole d’oro, vincolanti per i firmatari e utili per mantenere l’equilibrio di bilancio, a sua volta necessario per restare all’interno della zona Leviatano. Questo trattato partirà il 1 gennaio 2013, soltanto se almeno 12 dei Nani firmatari lo avranno ratificato, inserendolo in norme di tipo costituzionale o comunque nella legislazione nazionale. Tra le regole d’oro, ne figura qualcuna decisiva. Ci si impegna per esempio ad avere un deficit strutturale (incapacità di azzerare il deficit) non superiore allo 0,5% del PIL e per i Nani il cui deficit è inferiore al 60% del PIL, non superiore all’1%; ogni Nano deve garantire le correzioni automatiche quando non raggiunge gli obiettivi di bilancio concordati ed è obbligato ad agire con scadenze determinate; il deficit pubblico (spesa pubblica non coperta dalle entrate), come previsto dal Patto di stabilità e crescita (Trattato di Amsterdam 1997), dovrà essere mantenuto sempre al di sotto del 3% del PIL altrimenti scatteranno sanzioni semi-automatiche; e altre ancora.
Come sai bene, mio caro web, lo stivale è in recessione. Il suo PIL non cresce, anzi diminuisce vorticosamente e ogni giorno che passa si prevede il peggio. Basti pensare che nel terzo trimestre 2011 era sceso dello 0,2% mentre nel quarto è sceso dello 0,7%. Se il PIL continua in questa caduta libera, lo stivale sarà, anzi già lo è, al di fuori dei parametri previsti dal Fiscal Compact e, quindi, per evitare sanzioni leviataniche o di uscire dalla zona Leviatano, dovrà sviluppare delle correzioni nella propria economia, perché il Fiscal Compact lo obbliga nel far ciò, per raggiungere gli obiettivi di bilancio, se non il pari, quantomeno, rientrare in quello 0,5%. Sai cosa significa, mio caro web, “correzioni”? Che chi ti governa, o ti governerà, qualora il 1 gennaio 2013 il Fiscal Compact sarà ratificato da almeno 12 Nani firmatari, sarà autorizzato “anche” ad aumentare le tasse per rientrare in quei parametri leviatanici, senza doverti dare delle spiegazioni al riguardo. Se già ti lamenti che le tasse sono troppo alte oggi, quanto lo saranno domani, quanto dovrai lamentartene, e come?
È possibile, dunque, parlando di crescita economica, che l’uomo del Monte pensasse a queste regole d’oro del Fiscal Compact e alle loro conseguenze, e si riferisse proprio allo stivale? Se il PIL continuerà ad affondare e il deficit continuerà ad aumentare, l’uomo del Monte, o altri al posto suo, dovrà accrescere le tasse, ossia, mio caro web, affamarti maggiormente?
Intanto il debito pubblico stivalico raggiunge 1935800 miliardi di euro e di crescita del PIL non si scorge neanche l’ombra all’orizzonte. Possibile che tutto questo sia una macchinazione? Che ignoti burattinai si assicurino il crollo continuo del PIL e l’aumento costante del debito? Si preparano tempi bui ed è ora di chiedersi quanto conviene restare all’interno del Grande Leviatano del Nord.
Medita web, medita…

martedì 13 marzo 2012

31 marzo 2012, l’ora della Terra


- di Saso Bellantone
Basterebbe poco per sentirsi o riscoprirsi una comunità, una famiglia o, semplicemente, umani, figli della Terra. Sarebbe sufficiente spegnere le luci, tutte, restare al buio, al lume di una candela, e pensare, qualora si è da soli nella propria camera; oppure raccontarsi delle storie, qualora si è attorno a un tavolo assieme ad altri; oppure tenersi per mano, raggiungendo una piazza o camminando per le strade buie con le fiaccole accese, cantando una canzone oppure ascoltando le melodie del pianeta, della natura, ancora sveglia, anche quando è notte. Il 31 marzo 2012, dalle ore 20:30 alle 21:30, ricorre l’Ora della Terra e ognuno – ogni persona, ente, associazione, istituzione – ha la possibilità di scegliere come comportarsi o, più precisamente, come immaginare il tempo che viene. L’Ora della Terra (Earth Hour) è infatti un movimento globale sostenuto dal WWF per la sostenibilità del nostro pianeta, che coinvolge tutti fisicamente e simbolicamente a un tempo, per dare al mondo un futuro sostenibile e vincere la sfida del cambiamento climatico. Al mondo, certo, non soltanto alla Terra. Mondo è l’insieme degli esseri viventi all’interno dello stesso sistema, nel nostro caso, la Terra. Dunque, l’Ora della Terra non è soltanto un’iniziativa rivolta alla cura del pianeta, ma anche nei confronti di tutti coloro che lo abitano, nessuno escluso, chiamando in causa, però, principalmente quella forma di vita che ne minaccia l’esistenza futura: l’essere umano.
Con il suo capitalismo, consumismo, attivismo, egoismo, l’essere umano dissangua il pianeta delle proprie risorse, alterandone l’ecosistema, affama i propri simili, uccide gli altri esseri viventi, e soprattutto si avvia verso l’annichilimento di ogni possibilità futura di sopravvivenza dell’intero eco-sistema, che abita assieme alle altre specie viventi, perdendo, giorno dopo giorno, il senso della comunità e della familiarità verso i suoi simili, e del rispetto per la Culla Madre.
L’Ora della Terra è un evento inaugurato nel 2007 nella città di Sidney e che nel 2011 ha coinvolto 2 miliardi di persone, 5200 città e centinaia di imprese e di organizzazioni in 135 Nazioni. Monumenti simbolo come Piazza Navona, il Colosseo, il Duomo di Milano, la Tour Eiffel, il Cristo Redentore di Rio, il Castello di Edimburgo, la ruota panoramica di Londra (London Eye), il Ponte sul Bosforo, le avanzate Kuwait Towers, le Cascate Victoria e il grattacielo più alto di Pechino, sono rimasti al buio assieme a comuni cittadini, testimonial, istituzioni e imprese, per lasciare che la Terra si riprenda, almeno per un’ora, dall’intossicazione capitalistica, consumistica, sfruttatrice e egoistica umana. In ogni edizione dell’Ora della Terra, coloro che vi hanno partecipato hanno respirato un’aria diversa, assieme alla Terra. Il prossimo 31 marzo 2012, si avrà la possibilità di respirare la medesima aria. A tal fine, non occorre svolgere immense imprese. Basta poco: spegnere le luci e restare al buio per un’ora, da soli, in famiglia o assieme agli altri nelle piazze, e provare a capire che cos’è l’Ora della Terra.
In fin dei conti, non è altro che l’Ora in cui l’essere umano si apre alla consapevolezza che sta distruggendo il pianeta nel quale dimora assieme ad altri esseri viventi e alla possibilità di diventare  principio primo e ultimo della cura di esso. Dimorando in questa apertura, per un’ora soltanto, può accorgersi che una comunità, una familiarità, una umanità è ancora possibile, ma si edifica a partire dagli altri esseri viventi, a partire dalla Madre Terra.

lunedì 12 marzo 2012

OLTREWEB L’era dello Stupido


- di Saso Bellantone
Buon meriggio web,
da tempo edifichi un’infinità di ragionamenti per dimostrare che quella umana è il genere di vita più intelligente sulla Terra. Potrebbe essere, perché no. Gli umani possiedono l’arte, la scienza, i saperi, costruiscono nuove tecnologie e risolvono disparati problemi relativi alla loro sopravvivenza. Vi è un film-documentario di Franny Armstrong, The Age of Stupid, il quale evidenzia invece l’opposto, il fatto cioè che quella umana è, quantomeno attualmente, la forma di vita più stupida della Terra. Mostrando una serie di immagini, di interviste e di dati, il regista sottolinea come il genere umano si trovi attualmente in una nuova era, detta “dello Stupido”, per via del suon comportamento paradossale. In altri termini, pur comprendendo che le tempeste tropicali, gli uragani, lo scioglimento dei ghiacciai, i terremoti, gli tzunami e le altre catastrofi climatiche dipendono dal surriscaldamento globale, e che quest’ultimo può provocare una distruzione del pianeta e lo sterminio di tutti gli esseri viventi, umani compresi, il genere umano non fa nulla per contrastare tale fenomeno, anzi procede inesorabile nella medesima traiettoria surriscaldando il pianeta con il suo attivismo moderno, il suo capitalismo, la sua accelerata e forsennata produzione/consumo dei beni, con lo sfruttamento dei paesi e delle civiltà tecnologicamente meno avanzate per l’estrazione e, dunque, per l’utilizzo del petrolio, con il suo vuoto estetismo dei paesaggi, con il suo invalicabile individualismo, egoismo ed egocentrismo, con la sua paradossalità. Pur comprendendo che è tutto collegato e che, nell’alterare l’eco-sistema, tale atteggiamento contribuisce passo dopo passo all’annientamento, il genere umano, o meglio, le civiltà capitalistiche, anziché cambiare strada e badare alla sopravvivenza propria e a quella del pianeta che abitano, se ne infischiano, dimostrando di essere, a un tempo, tecnologicamente avanzate e intelligentemente degenerate. Continuando di questo passo, la temperatura terrestre potrebbe aumentare definitivamente di 2°, superando così il punto zero dell’auto-annientamento, dal quale non è possibile più tornare indietro.
Questo atteggiamento, mio caro web, sottolinea che Franny Armstrong, e prima di lui tutte le associazioni e i movimenti ambientalisti che sensibilizzano su questo argomento da parecchio tempo, ha ragione. Dal progresso ci si è catapultati nel regresso, dall’intelligenza alla stupidità. L’Era dello Stupido dimostra il fallimento dei sacrifici di intere generazioni, immolatesi per un mondo migliore e una società più responsabile. Ma non è ancora tutto perduto. Occorre che le vecchie leve trovino le forze per l’ultima battaglia. Se è vero un intelligente può capire cosa è stupido e che uno stupido difficilmente può rendersi conto di cosa è intelligente, allora l’unica maniera per riprendere la strada più consona alla sopravvivenza nostra e a quella del pianeta, è soltanto una: educare, sensibilizzare, fare pensare le nuove leve. In breve, strapparle al nemico che i mezzi di comunicazione di massa, le pessime amicizie e parentele diffondono su scala planetaria: la stupidità.
Medita web, medita…

giovedì 1 marzo 2012

L’arte periferica: intervista a Oreste Kessel Pace (parte seconda)

- di Saso Bellantone

CONTINUA DALLA PRIMA PARTE: http://disoblio.blogspot.com/2012/01/larte-periferica-intervista-oreste.html

Uno scrittore può sentirsi tale senza i lettori?
Faccio un esempio su di me. Mi uso come cavia. Sia la maggior parte dei libri che sto pubblicando adesso, sia quelli che devo ancora pubblicare, sono stati scritti in un periodo in cui non pensavo neanche lontanamente a una pubblicazione. Così è accaduto quando ho scritto San Rocco. La Profezia del Lupo Bianco l’ho scritto prima ancora di San Rocco. Non pensavo neanche lontanamente che sarebbero stati pubblicati, per un motivo molto semplice. Qualsiasi cosa fai, se lo fai con quei tre fattori, anima, mente e cuore, non pensi neanche al resto. Mentre scrivi non pensi di correggere quel che scrivi perché al lettore potrebbe non piacergli. La stessa cosa succede a chi dipinge: dipinge in quel modo perché gli piace. Se vuoi davvero produrre delle cose che rimangano per sempre, devi farlo scostandoti dal mondo del lettore. Devi pensare e scrivere come se nessuno mai vorrà pubblicarti. Così è nata La Profezia del Lupo Bianco e tanti altri, già pronti, che non ho mai pubblicato. Non credevo che un giorno l’avrei fatto, né con un piccolo né con un grande editore. Non ci pensavo proprio ed è giusto che sia così. Nel momento in cui uno scrittore, un musicista o un cantante comincia a pensare ai propri lettori o ascoltatori, al fatto che il libro o il cd potrebbe essere già esposto in libreria domattina, perde la sincerità e anche l’ispirazione. L’entità di cui parlavo prima sparisce, facendogli perdere il senso di quel che fa. Ecco perché diciamo “questo cantante ha fatto un cd bello! Ne ha fatto un altro ancora scavalcando le classifiche e poi ne ha fatti cinque che sono immondizia, inascoltabili, un disastro, è caduto nell’oblio”. Nel momento in cui qualcuno usa questi tre fattori, va a scontrarsi con la società che lo innalza, che gli dà importanza, perde quei fattori pensando ai guadagni che farà. Pensando ai guadagni, ti concentri su questo e perdi l’entità, quest’ultima fugge, non può essere sincera.

Che cosa significa oggi vivere come uno scrittore e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
In parte credo di aver risposto prima, parlando dei problemi che ha chi scrive. Non importa se e quanto guadagni, se sei famoso o non lo sei, se pubblichi o non pubblichi. Anche se scrivi un romanzo che rimarrà per sempre nel cassetto, sei comunque uno scrittore. Per l’attività stessa di creare parole e di portare i sogni nelle case, quella è già un’attività di scrittore. Se dobbiamo per un attimo togliere tutto quello che ho detto prima, ci sono due tipi di scrittore: quelli come Stephen King, Niccolò Ammaniti e altri, che sono già affermati e possono vivere scrivendo, quindi non hanno bisogno di lavorare, non hanno nessun tipo di problema economico, e quindi si alzano la mattina come Andrea Camilleri o Stephen King, e scrivono. Stephen King si alza più o meno alle quattro del mattino e non ha niente da fare, non deve andare a lavorare, e allora scrive fino alle dieci circa, dopodiché si fa una passeggiata con un libro e legge. Ritorna, pranza e il pomeriggio lo dedica o a vedere le partite di baseball o a rispondere alle lettere dei fans, oppure segue le sue associazioni, ha anche una radio, ma il momento della scrittura è al mattino presto. Questa è la vita di uno scrittore che vende cinque milioni di copie a libro, tradotto in tutto il mondo, e considerato tra i più prolifici, affermati e geniali scrittori viventi. Lo scrittore che non è ancora affermato e non scrive per vivere, non può farlo, ha tutt’altra vita. Facciamo il mio esempio. Mi sveglio la mattina alle sei, vado in ufficio e lavoro fino alle due del pomeriggio. Ritorno a casa, mia moglie torna alle tre, mi metto a cucinare, rifaccio il letto, passo l’aspirapolvere. Dopodiché, se non devo tornare in ufficio fino alle sei di sera, il pomeriggio vado a fare la spesa, a pagare le bollette, a risolvere qualche problema, o a trovare i miei familiari per risolvere i problemi loro, curo il giardino, pulisco casa, magari c’è da pitturare o un filo da cambiare, insomma faccio quel che è necessario. Questa è la vita di uno scrittore che non è affermato, che non vende migliaia di copie per ogni libro che pubblica e quindi non può fare lo scrittore a tempo pieno. Se uno scrittore del genere avesse la possibilità di farlo a tempo pieno, dunque se non avesse problemi economici – se io lascio il lavoro non posso pagare il mutuo della casa, dei mobili, della macchina, non potrei andare a fare la spesa. Ovviamente se ti rimane un’ora al giorno e riesci a mettere le mani sulla tastiera ti puoi reputare fortunato. Grazie a Dio, io ho fatto sette anni come LSU al Comune di Palmi. Ho iniziato ad aggiustare computer a dodici anni. Quindi ho messo le mani sulla tastiera del computer, già al tempo dei 286, dove i computer erano più macchine da scrivere. A dire il vero, ho iniziato a scrivere proprio sulle macchine da scrivere. Ricordo che mio padre ne aveva una di ferro, bruttissima, che io utilizzavo. Prima di questa, scrivevo già con la penna, ne ho già parlato prima. Che cosa mi ha portato a questo? La nostra generazione è sempre stata con le mani sulla tastiera, di conseguenza è molto veloce. Al Comune di Palmi, ero considerato tra i più veloci con le mani sulla tastiera. E ancora oggi sono considerato tale nell’azienda per cui lavoro. Molti si fermano a guardarmi quando mi vedono digitare al computer. Ho battuto una tesi per un avvocato che doveva laurearsi la settimana successiva, in una notte. Alle quattro del mattino io avevo battuto circa centocinquanta pagine di tesi. Questo fattore mi aiuta moltissimo perché se io ho soltanto mezz’ora in una giornata, dopo che mi occupo di tutto il necessario per vivere, devo essere rapido e sapere già cosa andare a scrivere. Quindi certe volte io preparo la mente prima per quell’unica ora che ho disponibile. E se tu consideri che il martedì e il giovedì lavoro fino alle sette di sera, e quindi è impossibile scrivere, allora togliendo questi due giorni e tutte le mattine che sono in ufficio, mi restano sì e no due o tre pomeriggi. In questi pomeriggi, durante quelle quattro o cinque ore che ho a disposizione, salvo imprevisti, devo fare tutto ciò che non ho fatto in una settimana. Per chi visita il mio sito, è importante che sappia una cosa. Molti di quei racconti che trova li ho scritti in un periodo in cui non ero sposato, in cui facevo il militare o purtroppo ero disoccupato, o lavoravo poche ore al giorno, come in quei sette anni che sono stato LSU. Avendo più tempo, in quel periodo scrivevo davvero tanto, anche se ero molto più lento sulla tastiera. Quindi molti scritti appartengono a quel periodo. Ad esempio Sant’Elia l’ho scritto nei ritagli di tempo di un cantiere dove facevo il muratore. Mi portavo dietro il block notes grande e quando avevo cinque minuti di tempo, me ne andavo in un angolino e scrivevo. Sant’Elia è nato in quel modo. La sera studiavo ovviamente i testi storici, per avere un’infarinatura per poi scrivere un romanzo storico. Quindi il Sant’Elia che mi regalato il Premio Calabria o il Fata Morgana è nato in un cantiere. Il San Giustino, che ancora non è stato pubblicato, è nato in una piccola stanza di un paesino di Ancona, dove lavoravo in fabbrica. Quindi la mattina lavoravo in fabbrica, il pomeriggio andavo all’Università, nelle ore libere aiutavo mio zio in un negozio di computer e infine la sera la dedicavo a studiare per l’università e a scrivere. San Giustino è nato così.

Cosa ti spinge a restare nel Sud?
In realtà, a me non piace tanto. Mi piace la gente, specie quella di Palmi e di Reggio Calabria. C’è stato un periodo che ho tentato di trasferirmi là. Ma non mi piace il territorio, se non dal punto di vista storico-archeologico. Mi piace la storia della Magna Grecia, ne sono innamorato. Ma non mi piace il posto. Ho provato a trasferirmi ad Ancona, avevo trovato una fidanzata, lavoravo in fabbrica, per guadagnare qualcosa in più andavo a svuotare le cantine, ho fatto diversi mestieri e ho cercato di mantenermi l’università. Finché non è arrivato il momento del militare. Secondo me, il militare era, ed è, la più grossa stronzata della società moderna perché non serviva praticamente a nulla. poteva servire ai mammoni, cioè a quelli che si alzano la mattina, si fanno la passeggiata in piazza, e intanto la mamma cucina, gli fa il letto, lava i panni sporchi, gli dà i cinquanta euro per andarsi a divertire. Sicuramente a queste persone serve ma non serve a moltissimi ragazzi che erano con me e che avevano la mia stessa preparazione sociale. Cioè, io mi mantenevo da solo, anche l’università, lavoravo in fabbrica, mi facevo il letto da solo, mangiavo panini se non avevo voglia di cucinarmi. A un tipo così il militare non serve e infatti mi ha fatto perdere l’università. Dopo il militare, su consiglio di mio padre sono rientrato a Palmi, ho perso l’università, tutto quello che avevo costruito là e ho dovuto cominciare da capo, da zero, anche con il lavoro. Infatti facevo il muratore, vendevo pentole al mercato, tutto quello che mi capitava, lo facevo perché ho sempre avuto voglia di lavorare. Il problema è che se fai così, sicuramente non puoi avere il tempo che hanno determinate persone per scrivere. Se avessi avuto molto più tempo sarebbero nati molti altri Sant’Elia. Ho tentato anche di trasferirmi a Treviso, dove c’era mia zia, per quattro-cinque anni passavo tutte le estati là e qui frequentavo soltanto la scuola. Poi ho cercato di trasferirmi a Torino, una città che prima odiavo per via degli ospedali che frequentavo quando ero piccolo, e la vedevo come una città nebbiosa, di dolore e di ospedali. Poi c’è stato un caso incredibile, e cioè che la mia futura moglie ha vinto un concorso e si è trasferita là, ed io dovevo fare avanti e indietro da questa città. A furia di andare avanti e indietro da Torino, mi sono reso conto che non era male. Non c’era la nebbia, c’erano ambienti culturali bellissimi, come l’Einaudi, i caffè letterari, c’era un mondo incredibile, ma soprattutto c’era moglie. Io volevo trasferirmi a Torino, mia moglie voleva tornarsene a Palmi. Quando ho visto che il trasferimento a lei non lo davano, allora ho chiesto trasferimento io per andare da lei ma non ci sono riuscito. Dopo due anni e mezzo d’inferno, mia moglie è riuscita a trasferirsi qui e ci siamo stabiliti qui. Io ho sempre cercato di andarmene da Palmi, in tutti i modi, ma non ci sono mai riuscito. Tutt’oggi ne parlo con mia moglie e le dico di trasferirci, perché i risultati sociali qui non soddisfano per nulla. Cioè, la vita che potresti avere su è molto diversa. Io qui faccio la fame come tecnico informatico, mentre lassù si guadagna molto di più. Se potessi, sia a livello professionale che artistico, mi sposterei. Ho incontrato molti giovani scrittori a Torino, che frequentano ambienti che gli danno la possibilità di crescere. Io qui non mi posso confrontare con nessuno, dal punto di vista della tecnica narrativa, dell’io narrativo. Vivo in una regione che dal punto di vista narrativo è preistorica. Torino va avanti, trova nuove forme di narrazione, nuove tecniche narrative, fa incontri culturali del calibro di King, di Nigro, e invece qui niente. Qui gli unici incontri culturali sono quando gli scrittori locali, che non hanno la possibilità di confrontarsi con nessuno e spesse volte non hanno neanche la possibilità di leggere libri, e quindi scrivono male, promuovono i loro libri. E quindi tu vai a confrontarti sicuramente con autori che non ti possono dare nulla, me compreso. Perché io sicuramente non scrivo bene. Tutti questi libri che scrivo sicuramente non sono libri importanti né dal punto vista culturale né da quello della narrazione, perché io non cresco. Rimango chiuso a Palmi, dove tra l’altro c’è molta invidia, dove non ti danno la possibilità di conoscerti in qualità di scrittore, perché pensano che sei presuntuoso. I miei libri sono dello stesso calibro di tantissimi autori locali che scrivono in modo amatoriale, e hanno tantissime lacune che se fossi vissuto a Torino o altrove avrei annullato, perché mi sarei confrontato con quegli ambienti culturali, quegli autori, quei caffè letterari dove avrei trovato dei maestri, come ce li avevo a Macerata, che in tutti questi anni mi avrebbero fatto crescere in modo esponenziale. Avrei avuto le conoscenze per affacciarmi a editori di un altro tipo. Per un periodo, ho pensato si trattasse di quell’energia di cui parlavamo prima che mi volesse qui a Palmi. Poi ho capito che a questa energia non gliene frega nulla, perché la scrittura è solo una forma di comunicazione. I sogni, le trame, i personaggi, queste cose che ti vengono in mente, ti vengono suggeriti da questa energia indipendentemente dal luogo in cui ti trovi. All’entità non interessa se scrivi bene o male. Lei ti dà soltanto quello che ti deve dare e basta. Non gliene frega nemmeno se tu ti trasferisci né se tu trasponi quello che ti dà su carta o al pc o se li tieni a mente. Molti si accaniscono su una scrittura precisa e perfetta, ma è sbagliatissimo. È vero che chi scrive deve farlo in modo tale da non dare fastidio a chi legge, perché se ho un libro sgrammaticato, poco comunicativo, senza fantasia, dove un bambino di quattro anni parla come un adulto di cinquanta, e questo parla come un altro adulto con lo stesso carattere, allora non va bene. Se tu crei dei personaggi e gli dai un’identità, un commissario non può parlare allo stesso modo della contadina, l’uno parla in un modo l’altra in un altro, e parlano in base al loro passato, al loro presente e alle caratteristiche sociali. Certe volte guardo le fiction italiane dove i bambini parlano come gli adulti, è assurdo. Questo rende la relazione come carta vetrata per chi legge. Stesso dicasi per gli errori di grammatica. Questi ultimi li giustifico fino a un certo punto, poi no. Non importa che la scrittura sia perfetta. D’Annunzio diceva che una cosa è scrivere bene e una cosa è scrivere bello. Credo che il segreto della scrittura sia tutto lì. Non importa che ci sia una “e” senza accento. L’importante è che il libro, dal punto di vista dell’io narrativo e della tecnica, sia a posto. Che poi tu sbagli, o l’editor che ti corregge il manoscritto commette un errore, secondo me non è importante. Anche perché fra tremila anni se capita un tuo libro in mano a qualcuno, non gli interesserà nulla che manca l’accento sulla “e”. Gli importeranno maggiormente i contenuti e la qualità del libro.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
A dire il vero non ci ho mai pensato, perché per me avviene tutto in modo automatico. Il sogno nel cassetto delle persone normali magari è di vincere un concorso, di sposarsi, di avere cinque figli e via dicendo. Per me non è così. Queste sono tutte cose automatiche ed è stato un bene che sia così. Come dicevo prima, ho fatto qualsiasi tipo di lavoro, ho sempre lavorato. Non sono mai stato disoccupato nella provincia con la più alta percentuale di disoccupati d’Italia, perché facevo tutto quello che mi capitava sotto mano. Quindi il mio sogno nel cassetto non è mai stato quello di affermarmi con un concorso o altro. Certo, lo stipendio fa gola a tutti, però ci sono arrivato lo stesso, senza avere per forza quell’unico sogno nel cassetto. Il fatto di essermi sposato è un sogno che ho realizzato, sicuramente, però non appartiene a quella tipologia di sogno che mi stai chiedendo. Quello è tutto normale, fa parte della vita di una persona che vive la sua vita, si sposa, ha una moglie, è felicissimo. Io sono strafelice. Dopo quindici anni di sacrifici, e ho sputato sangue nel vero senso della parola, adesso ho un piccolo stipendio. Magari la metà di uno stipendio normale, però è comunque uno stipendio. Sono felice perché mi sono sposato e questo dà un senso diverso alla vita. Perché quando lavori e sei single, ti metti i soldi in tasca e non hai mai nessuna prospettiva se non quella di andare in pizzeria o in discoteca con gli amici, e basta. Quando invece lavori e sai che hai una casa tua, con i tuoi spazi, e soprattutto hai una moglie con la quale condividi tutto e sei un’unica cosa, è diverso. Io non posso allontanarmi di cinquecento metri senza provare il dolore di essere distante da lei. Noi parliamo con il pensiero, anche a distanza, pensiamo la stessa cosa e ce la trasmettiamo. Non c’è bisogno del cellulare. Se mi avessi intervistato dieci anni fa ti avrei risposto che non esiste l’amore né la donna ideale. Fortunatamente l’intervista avviene adesso e posso dirti il contrario, e cioè che esiste l’amore e la felicità che ti dà. Dal punto di vista della qualità della vita, tu timbri all’uscita del lavoro e sai che torni a casa tua, dove ti aspetta tua moglie con la quale vivi determinati momenti di gioco, di felicità, facciamo lunghe passeggiate, condividiamo i libri, tutto. Da questo punto di vista sono strafelice e non ho altre tappe nella vita privata da raggiungere, se non magari quella di avere qualche figlio. Il sogno che tu mi chiedi riguarda la mia vita artistica ed è quello su cui sto puntando tutte le mie energie. Nel senso che ce la sto mettendo davvero tutta di pubblicare il più possibile innanzitutto, di farlo dando un senso a quello che pubblico, secondo un percorso ben preciso, e sto consumando molte energie, cosa che non facevo in passato, per cercare di acquisire quelle conoscenze necessarie perché possa confrontarmi con la grande editoria e con i grandi scrittori, non tanto per pubblicare bensì per avere dei maestri. Come molti ragazzi che vivono nei nostri paesini, che hanno dei sogni, delle idee innovative, anch’io ho bisogno di maestri che mi indichino la strada e mi insegnino come farlo. Non importa se poi pubblico. Naturalmente il mio sogno nel cassetto è quello di poter pubblicare un giorno con una casa editrice come Einaudi per esempio, di affacciarmi a un concorso letterario come il Campiello, il Viareggio, il premio Strega, e poter fare entrambe le cose un giorno, anche a novant’anni. Tutto questo vuol dire che quel giorno avrò raggiunto la raffinatezza, culturale e narrativa, di scrivere un libro, non perfetta ma sicuramente con delle qualità molto importanti, che adesso penso di non avere. Chi va a leggere i miei libri, sicuramente troverà delle lacune. Tutto quello che trova nei libri è il succo di quello che io sono sul piano della preparazione, in una provincia dove c’è la più alta percentuale di acquisto libri, la più bassa percentuale di lettura, la più alta percentuale di ignoranza. Quindi leggerà le opere di un ragazzo che vive in un siffatto ambiente. Vivere qui è come andare in battaglia, perché ne accadono di tutti i colori. Il mio vero sogno è quello di avere la possibilità di fare quello che sto facendo, a livello di scrittura. Cioè di avere le forze fisiche e la possibilità nella mente di continuare a scrivere. Non importa se pubblichi e con chi, Laruffa, Città del Sole, sono persone che stimo tantissimo, che mi hanno insegnato tanto e con le quali spero di continuare a pubblicare, perché non è detto che se pubblico con Mondadori non posso pubblicare con loro. Continuerò ad amare questi editori così come avviene adesso perché mi danno la possibilità di pubblicare. Ma il mio vero sogno è di mantenere il sogno che sto vivendo adesso. Cioè di scrivere e, ovviamente, di avere più tempo per farlo perché molti di questi romanzi vanno perduti, in quanto non avendo tempo non ho la possibilità di scriverli e li dimentico pure. E questo è agghiacciante, è come ammazzare i propri figli. Il mio sogno è di avere anche un’ora al giorno da dedicare alla scrittura, e che nessuno mi tolga. Un’ora per stare con Kessel e scrivere. È quello che sto vivendo adesso e spero di continuare a farlo, perché non m’interessa pubblicare, ma anche soltanto di vedere il file aperto nel computer, finito, del mio libro, con il titolo, anche se ho sempre difficoltà a trovare i titoli. Quando ciò accade, il mio sogno è già realizzato. Quindi questo sogno lo sto già vivendo.

Il tuo ultimo romanzo s’intitola “La profezia del lupo bianco”. Di che cosa tratta?
È difficile da sintetizzare ma ci provo. Ho unito tre trame di tre libri diversi. In un romanzo volevo scrivere, approfittando dell’Aspromonte che io amo moltissimo, di una spedizione in Aspromonte per recuperare un bambino in pericolo di vita, perché rapito e abbandonato dagli stessi rapitori. In un altro romanzo volevo scrivere invece, ambientato completamente a Palmi, di una Madonna che all’improvviso piange sangue e di un bambino che era in contatto con questa Madonna, per un motivo che neanch’io, mentre scrivevo, riuscivo a capire. In un altro libro, volevo ambientare a Palmi una storia di uno scrittore che si trasferisce da Milano e che ha un approccio con la nostra cultura. A un certo punto i tre romanzi si sono incontrati, si sono fusi in uno ed è nata La Profezia del Lupo Bianco, che narra di questo scrittore di Milano, che scrive benissimo e del quale nessuno pubblica i libri. Misteriosamente, a un certo punto, senza motivo, un editore decide di pubblicare i suoi libri. In realtà, un motivo c’è. Questo editore gli fa firmare un contratto nel quale lui può pubblicare i suoi libri, però deve fargli anche come reporter per una televisione locale di sua proprietà. La prima cosa che gli chiede è di andare in Aspromonte, unirsi alle ricerche di questo ragazzo rapito e tramite suoi amici gli dà la possibilità di essere spalla con spalla con le forze dell’ordine, giorno per giorno. E quindi lui lascia Milano, lascia la mamma malata, firma questo contratto e viene a Palmi. Mentre comincia a fare questo tipo di attività, accade che questa Madonna comincia a piangere sangue e un bambino, al quale è stato ucciso il padre per una questione di mafia, comincia a vedere in sogno l’altro bambino rapito. Si accorge soltanto lui di questa caratteristica. Cioè, questo bambino che vive a Palmi e che ha perso la parola, per via dello shock, riesce a capire che il bambino rapito fa i disegni dell’Aspromonte e lui li vede con gli stessi occhi di quel ragazzo. Così, di nascosto alle forze dell’ordine, facendosi guidare da questi disegni, si organizza una spedizione per recuperare questo bambino. Intorno a questa vicenda, ci sono altre cose. Per esempio, il mistero di due lupi, uno bianco e uno nero. Il lupo bianco è in Aspromonte e segue il ragazzo rapito, non rivelo di chi si tratta in realtà; il lupo nero è a Palmi e comincia a massacrare il sindaco, i boss mafiosi, i killer che hanno ucciso i genitori del ragazzo, insomma uccide il male. Contemporaneamente c’è questa Madonna che piange sangue. Quindi in ogni pagina c’è moltissima azione, avventura, rivelazioni, la coppia di lupi, la Madonna, personaggi molto misteriosi, lo spettro del papà del ragazzo che ha perso la parola, ucciso a Sant’Elia, che cerca di avere un approccio un po’ particolare con il figlio e per raccontargli il motivo per cui la Madonna sta piangendo sangue. Il romanzo non ha nessuna pretesa se non quella di essere letto. Si può leggere dal dentista, in sala d’attesa, ovunque. È un romanzo scorrevolissimo, non ci sono vocaboli complicati, è un fiume in piena. Il lettore può leggere moltissime pagine senza rendersene conto, perché il romanzo è diretto. Credo che bisogna essere diretti perché il lettore di oggi vive velocemente, è abituato a stare su internet, ad avere quello che desidera rapidamente, e occorre stare al passo coi tempi perché la scrittura deve riuscire a comunicare.

Alcune parole per i giovani.
Sarebbe molto più bello se loro dessero dei consigli a me, e non il contrario. Anche perché i ragazzi non sono ascoltati quasi mai. Non credo di aver raggiunto l’età adatta, e dunque l’esperienza, per dare dei suggerimenti ai giovani. Comunque mi rivolgo ai giovanissimi. Lasciando perdere le frasi fatte – seguite i vostri sogni eccetera – che sono importanti, credo che serva qualcosa di più. Preparatevi all’impatto, che è violento, con la nostra società, con il datore di lavoro, con gli orari che occorre rispettare fin dalle prime luci dell’alba, anche per fare soltanto il muratore. La nostra società non ci offre molto. È finito il tempo dei concorsi, nei quali vinci e stai davanti alla scrivania del Comune di Palmi o altrove. Io li controllo sempre ma, da un mese all’altro, spesso capita che non ne esca uno. I concorsi sono finiti. L’unico modo per sopravvivere è di munirvi di quegli strumenti necessari in un mondo che è un disastro. Quali sono questi strumenti? Essere pronti a sacrificarsi, a lasciare l’ambiente in cui si è nati e cresciuti, dimenticare l’idea che finita la scuola e presa la laurea si va a lavorare, abituarsi all’idea della disoccupazione e all’idea di un governo che continua a tassare, anche più del necessario. Quindi, studiate sì, laureatevi sì, fate concorsi sì, siate dei bravi ragazzi perché un giorno avrete lo stipendio, una casa, vi sposerete… credo che non sarà così semplice realizzare tutti questi obiettivi. Io ho uno stipendio misero rispetto a tanti altri, ho un mutuo da pagare, decine di tasse da pagare e la sera vado a dormire sperando che non si guasti nulla in casa. Fornitevi di spada e scudo, perché il nostro mondo è così. Con spada e scudo intendo una cultura personale, per poter affrontare qualsiasi tipo di evento. Io mi sono confrontato con persone di tutti i tipi, dai criminali agli ignoranti completi ai muratori che invece a casa avevano la biblioteca ed erano più saccenti degli assessori alla cultura, ai datori di lavoro sfruttatori e che mi facevano lavorare anche la domenica. Voi dovete avere il bagaglio culturale per potervi confrontare e tenere il discorso – così mi consigliava la mia maestra – con qualsiasi tipo di persona vi troviate innanzi. Dovete avere il fisico per affrontare qualsiasi tipo di sacrificio, anche di alzarsi la mattina alle quattro e di tornare a casa la sera alle undici, e di portare a casa in un mese, sì e no, quattro-cinquecento euro. Dovete avere una mente aperta, capace di farvi dialogare con voi stessi e di farvi accettare il lavoro che c’è, malgrado spesso non sia economicamente conveniente, vi facciano lavorare anche nei giorni festivi e non potrete vedere spesso la persona che amate. Quando finirete la scuola, dovrete essere capaci di sopportare tutto questo. I genitori vi parleranno chiaro e vi diranno di cavarvela da soli. Ci vogliono muscoli, dunque andate in palestra, e mente. Quest’ultima dev’essere una gabbia d’acciaio, perché dovrete essere pronti a farvi offendere, a farvi ingiuriare, a sentir parlare male di voi, a sopportare i pettegolezzi e ad essere capaci di non rispondere. Perché vi renderete conto che usare la spada in alcuni momenti fa più danno che usare lo scudo. Solo questo mi sento di consigliarvi: avere il fisico, la mente, il senso del sacrificio e la cultura. Leggete tantissimo, guardate tantissimo cinema, non soltanto Spiderman ma film di un certo tipo che possono insegnarvi qualcosa, come Amistad, e darvi degli input, stimolare la vostra fantasia. La cultura è fondamentale per questo: più leggi, guardi cinema, impari a riconoscere un Picasso da un Van Gogh, più hai le basi per affrontare qualsiasi tipo di pericolo, evento o persona. Il pericolo maggiore oggi non è la disoccupazione, è costituito dagli uomini. Quelli che non si fermano allo stop e vogliono avere ragione, quelli che ti fanno firmare la busta paga in un modo e ti pagano in un altro. Avendo la cultura, potrete affrontare un discorso anche con un criminale e uscirne sicuramente vincitori. Se non l’avrete, non riuscirete a sopravvivere e ad affrontare le difficoltà della vita. E oggi, grazie a chi ci governa, di difficoltà ne abbiamo tantissime. Dieci anni fa non era così. C’era una disoccupazione terribile, certo – l’altro giorno ho buttato una carpetta immensa piena di concorsi che ho fatto e che non ho mai vinto – ma oggi, oltre alla disoccupazione, c’hanno regalato anche la crisi. Oggi l’Euro non vale più niente. Come faranno questi ragazzi? Quale destino avranno? Quindi, fornitevi delle armi necessarie per sopravvivere, siate pronti a fare sacrifici immensi e sicuramente, pur guadagnando poco o nulla, vivrete una vita felice. Siate pronti a battervi per quell’unica possibilità che vi spetta. Potrà capitare in qualsiasi momento, tra mezz’ora, domani o chissà quando, ma siate pronti. Armatevi per la vostra unica possibilità.