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sabato 30 ottobre 2010

SAGGIO SULLA LUCIDITA' di José Saramago

- di Saso Bellantone
C’è una lucciola che ogni giorno si aggira solitaria nel labirinto silenzioso del nostro animo. Il suono dei suoi tacchi a spillo scuote il torpore della nostra vuota quotidianità e attrae a tal punto la nostra bramosia di sregolatezza che resistere diventa sempre più difficile. Ma arriva sempre il momento nel quale i fili della ragione comunemente accettata si spezzano ed è allora che gridiamo al mondo il nostro amore nascosto e proibito. Quando questo avviene, la compagna che altri ci hanno imposto al momento della nostra nascita, uguale per ognuno, ci accusa di infedeltà e ci costringe a riconoscere la colpa, a pentirci, a tornare alla fredda e silenziosa monotonia coniugale, evirando nel nascere ogni futura tentazione di cedimento. Memori della severa lezione subita, molti si perdono come dei fantasmi per il resto dei propri giorni in questo rapporto nuziale mai voluto, dimenticando l’illusione del vero amore. Ma altri, restano vittime della strampalata gelosia di quella metà che non ama nessuno dei propri compagni e vuole soltanto comandare. Questa sposa è il sistema democratico vigente ma la sgualdrina è la voglia di cambiarlo.
Se in Cecità denuncia l’indifferenza dominante il mondo contemporaneo, nel Saggio sulla lucidità (2004) José Saramago critica la democrazia e il sistema elettorale vigente perché proprio in quest’ultimo, che è il primo fronte di ogni decisione popolare, la lotta all’indifferenza risulta perdente in partenza. La sconfitta a priori del popolo avviene a causa del valore politico comunemente riconosciuto alle possibili opzioni di voto durante le tornate elettorali. Per rendere l’argomento esaminato un problema di qualsiasi democrazia, Saramago riduce tutte le possibilità di voto nelle seguenti: partito di destra; partito di mezzo; partito di sinistra; scheda nulla; astensione; scheda bianca. Ogni volta che si va a votare si sceglie tra una di queste opzioni e alla fine si stabilisce chi va al governo, chi va all’opposizione, chi in nessuno dei due. Le astensioni, le schede bianche e le schede nulle non hanno valore politico, fuorché garantire la regolarità delle elezioni. Per farla breve, dopo ogni votazione ci sarà sempre un governo, sia di destra, di mezzo o di sinistra. Ma il problema che Saramago si pone è un altro: che accadrebbe se la maggior parte della gente non si sentisse rappresentata da nessun partito e, per questo motivo, decidesse ad esempio di votare scheda bianca? Che accadrebbe se i risultati delle votazioni fossero l’8 per cento per il partito di destra, l’8 per quello di mezzo, l’1 per quello di sinistra, nessuna scheda nulla, nessuna astensione, mentre l’83 per cento delle schede restanti fossero schede bianche? Ci troveremmo in una situazione paradossale: in breve, non sarebbe possibile costituire un nuovo governo. In un caso del genere, che cosa accadrebbe?
Proprio in questo modo s’inaugura il Saggio sulla lucidità. Saramago pensa che con queste regole elettorali il popolo è impotente. Anche se si verificasse una simile situazione elettorale, imprevista agli occhi della legge, nella quale il popolo manifesta con la scheda bianca la propria volontà di cambiare la società, la classe dirigente in carica prima delle elezioni gestirebbe il fenomeno a proprio favore. Il popolo è illuso di poter cambiare le cose con queste regole elettorali, ma non è così. La classe politica, infatti, possiede un potere che il popolo non ha, ossia quello di stare nel contempo dentro e fuori la legge. Le regole elettorali vigenti assicurano alla classe politica il mantenimento di un sistema che le garantisce quel potere, del quale il popolo è estraneo. Ogni avvenimento, elettorale e non, è impiegato dalla classe politica per questo scopo, per consolidare il sistema e in questo modo se stessa. Ogni sistema infatti è eterno, non ammette falle capaci di annientarlo, anzi, se dovessero verificarsi, le re-interpreta per potenziarsi, le ingloba, se ne appropria per confermarsi più potente di prima. Il sistema democrazia, in questo senso, è un meccanismo perfetto che assicura alla classe politica la gestione del potere. Il popolo s’illude di partecipare al governo del paese, di prendere decisioni mediante il proprio voto ma di fatto non decide nulla. Anche nella situazione paradossale descritta da Saramago, chi decide veramente, chi ha l’ultima parola è la classe politica. In questa prospettiva, la democrazia, così com’è, a partire dal sistema elettorale vigente, è una oligarchia tirannica. Il rapporto tra governanti e governati non è di libertà, uguaglianza e fratellanza ma tra padroni e schiavi. Nella democrazia, il potere è la capacità di muoversi liberamente dentro e fuori la legge, caratteristica esclusiva dei governanti. I cittadini, i governati, sono impotenti e sono perciò eternamente esposti alla forza di chi li governa, alle decisioni cioè della classe politica.
Saramago propone di riflettere sulla questione del potere e della legge nel sistema democratico in vigore, ipotizzando che cosa si verificherebbe se il popolo manifestasse con la scheda bianca la propria volontà di cambiamento. La classe politica al governo prima delle elezioni, si attiverebbe per mantenere il sistema vigente che assicura il proprio potere, utilizzando l’esito stesso della votazione contro il popolo. Con il pretesto di salvare il paese e la democrazia, la classe politica si avocherebbe il potere con la forza, dichiarerebbe lo stato d’eccezione, sospenderebbe i diritti, indagherebbe sull’accaduto spacciando la votazione nel senso di un infame attentato contro la democrazia. Se non riuscisse a produrre prove (false, naturalmente) di un piano organizzato contro la democrazia, passerebbe dallo stato d’eccezione allo stato d’assedio, si trasferirebbe in un’altra città o paese, considererebbe i cittadini dei traditori della nazione perché hanno votato scheda bianca: «Votare scheda bianca è un diritto irrinunciabile, nessuno ve lo negherà, ma proprio come proibiamo ai bambini di giocare col fuoco, così abbiamo avvisato i popoli che va contro la loro sicurezza cincischiare con la dinamite» (p. 82). Se lo stato d’assedio non bastasse, allora si passerebbe alla lotta psicologica contro il popolo rivoltoso, perché desideroso di cambiare. Si piloterebbe l’informazione, pubblicando in prima pagina titoli severi e provocatori contro la rivolta delle schede bianche. Si provocherebbero degli attentati dinamitardi, attribuendoli a un movimento sovversivo inesistente, per rendere credibile l’esistenza di un simile movimento. Se si decidesse di commemorare con un corteo funebre i morti di questi attentati, la classe politica interpreterebbe la cosa come un’insurrezione bianca e farebbe di tutto per disperdere il corteo. Qualsiasi argomento, insomma, sarebbe strumentalizzato per soffocare sul nascere la volontà di cambiamento del popolo e rinvigorire il sistema che assicura il potere della classe politica.
La scheda bianca, all’interno della poetica di Saramago, è la lucidità popolare della cecità onnilaterale che pervade l’era contemporanea. Rappresenta da un lato la presa di coscienza del popolo del male bianco dominante, l’indifferenza; dall’altro lato, simbolizza la denuncia e la volontà di affrontare questo morbo, la volontà di cambiare la società. Chi vota scheda bianca è stanco di stare in silenzio, di restare indifferente e vuole cambiare le cose. Ma la classe politica non lo permette perché ne va del proprio potere. Per questo motivo, ritorce questa presa di pozione del popolo contro il popolo stesso, tenta in tutti i modi di convincerlo del contrario, facendogli pesare la volontà di cambiare come una colpa immane e imperdonabile e riducendo al silenzio chi si espone in prima persona contro la classe politica stessa.
Il Saggio sulla lucidità è un invito a capire che la lotta contro l’indifferenza e il cambiamento della società comincia nel prendere coscienza dei limiti della democrazia, primo fra tutti il sistema elettorale. Per farla breve, è necessario ripensare il valore politico della scheda bianca. Non può più costituire un voto ininfluente nella scelta di chi deve rappresentare il popolo. Dev’essere, piuttosto, uno strumento utile al popolo per contestare la classe politica, i partiti e magari impedire loro di ripresentarsi alle elezioni future. Anche se difficilmente potrà presentarsi nella vita reale una situazione elettorale simile a quella descritta in questo romanzo, resta da chiedersi se nel Saggio sulla lucidità Saramago descriva soltanto un’ipotesi, una realtà immaginaria o il “tempo normale” nel quale viviamo, dove la democrazia si mostra quotidianamente alla maniera di un’oligarchia tirannica, di un dominio incontrastato e perenne della classe politica, che solo chi non è cieco riesce a vedere*.

* Il testo della presente recensione è stato modificato su suggerimento dell'amico Antonino Dato, a proposito del valore politico della scheda bianca. Nel testo precedente si sosteneva erroneamente che le schede bianche, terminato lo sfoglio elettorale, vengono assegnate al partito (lista o coalizione) che ha ottenuto maggiori consensi. Non è così: le schede bianche non hanno valore, al pari delle schede nulle, per l’esito delle elezioni fuorché garantire la regolarità delle elezioni stesse. Questo, in ogni caso, testimonia maggiormente l’assenza di strumenti elettorali che riconoscano al popolo un potere contrapposto alla classe politica tutta, dunque al di là dei partiti. Il potere cioè di non scegliere nessuno dei candidati di una precisa tornata elettorale e, in caso di maggioranza di una tale non-scelta (scheda bianca), il potere di impedire a questi candidati di ripresentarsi in future elezioni. Scusandomi per l’errore, ringrazio l'amico per i chiarimenti forniti: questo dimostra che un blog non è un diario privato ma uno strumento utile a tutti per stimolare il dialogo, per informarsi, per comprendere e correggersi, specialmente per il sottoscritto.

venerdì 22 ottobre 2010

LA GLOBALIZZAZIONE IN CHIAROSCURO: IL TECNO-TOTALITARISMO ECONOMICO-LAVORATIVO

- di Saso Bellantone
Dalla fine del XVIII secolo e nel corso dell’Ottocento e del Novecento, si è assistito a una serie di avvenimenti epocali – le Rivoluzioni Industriale, Francese, Bolscevica, l’Indipendenza Americana, la dissoluzione degli Stati-Nazione, il crollo dell’Impero Ottomano, del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, le due Guerre Mondiali – che ha generato una radicale metamorfosi onnicomprensiva del mondo umano. Questa rivoluzione è ancora in atto. Ogni giorno annienta il vecchio mondo edificandone uno nuovo nel quale la vita in generale (privata, sociale, naturale) assume dei connotati economico-lavorativi. Ogni giorno smantella i confini spazio-temporali, continentali, statali, privati, legislativi, linguistici, informatici, mediatici, etnico-culturali, morali, religiosi e aziendali. Ogni giorno l’amore, l’amicizia, la fede, la fiducia, il tempo libero, lo sport, le arti, i saperi, le scienze e le tecniche, la politica, l’informazione, i mestieri, la famiglia, la salute, le tradizioni – tutto è incanalato nell’unico binario che porta alla realizzazione di un villaggio globale, di una società cioè esclusivamente capitalistica, consumistica, iper-tecnologica, massificante e nichilistica. Il sogno di una globalizzazione totalmente compiuta, di una realtà che mantiene in stretta connessione tutto con tutti, si avvicina sempre più. Questa trasformazione planetaria, però, non è un progresso bensì una degenerazione, a causa della spersonalizzazione, dell’omologazione, della mercificazione, della svalutazione e della dissacrazione totale che comporta. È un’illusione inquietante.
Questo movimento globalizzante trae la propria forza e legittimazione dalla rapida trasfigurazione delle Corone in Stati-Nazione e di questi ultimi in Repubbliche democratiche e liberali fondate sul lavoro e organizzate con le altre in una o più Confederazioni di Stati. Ma dietro questo cambiamento, se così si può dire, geo-politico del mondo, vi è un avvenimento ben più importante: la crisi dei fondamenti. Tutto ciò che prima si credeva derivasse da Dio, in una parola la verità (valore), adesso si mostra proveniente dall’uomo stesso. Per questo motivo, come per tacito consenso, l’umanità ha preferito (o gli è stato imposto?) una nuova verità/valore rispetto alla vecchia: il denaro. La riduzione della vita in generale in termini di lavoro e di denaro in associazione all’informatizzazione e tecnicizzazione della natura dà vita al fenomeno della globalizzazione, ma quest’ultima somiglia sempre più a un tecno-totalitarismo economico-lavorativo, il cui scopo è assicurare a pochissimi il potere, cioè il dominio della Terra. Prima soltanto i re avevano l’autorità per governare e questa era concessa loro (o conquistata con la forza o acquistata da altri) da Dio. Adesso, la stessa autorità dei re è nelle mani dei capitalisti. Se prima erano i re a comandare gli scopi di un regno con scettro e corona, simboli dell’origine divina del loro potere, adesso sono i capitalisti a creare gli scopi del pianeta, mediante il denaro e il lavoro. I capitalisti sono le divinità che stanno al di sopra, al di sotto, dentro e fuori a un tempo del tecno-totalitarismo economico-lavorativo. Il lavoro è lo scopo creato per governare, per dominare terre e persone. Con il lavoro, al pari dei vecchi comandi dei regnanti, la vita di ogni cittadino acquisisce senso e valore: denaro. Vivere vuol dire lavorare e lavorare significa fare denaro. Dunque, vivere è fare denaro. Chi ha più denaro, produce lavoro per gli altri e si colloca ai vertici della scala globale. Chi ne ha meno, lavora e si trova agli ultimi gradini. Chi sta sopra, continua a capitalizzare denaro e a inventare lavoro; chi sta sotto, continua a esserne privo e a lavorare. Traducendo tutto l’esistente nel linguaggio dell’economia e del lavoro, i capitalisti sono diventati i nuovi re del mondo, le nuove divinità, mentre i lavoratori sono i loro sudditi, i loro fedeli.
Per assicurarsi questo potere, i capitalisti sono costretti a conservare un certo ordine del tecno-totalitarismo economico-lavorativo, piegandolo di volta in volta alla propria volontà, mediante una serie di inganni. Primo inganno: intervento. Intervengono nel sistema economico-lavorativo come deus ex machina, come burattinai invisibili e separati dalla propria creazione, allo scopo di non essere mai riconoscibili, dunque mai attaccabili e spodestati. Per questo motivo, conferiscono al proprio intervento un’origine interna al sistema stesso, riconducendola a calamità naturali o a decisioni di singoli popoli e individui. Secondo inganno: potere decisionale. Lasciano credere a chi siede nei piani più alti di una precisa realtà lavorativa del sistema, di avere potere decisionale (forza di legge). Impiegando le realtà lavorative esterne, obbligano i gestori di una precisa realtà lavorativa a prendere “alcune” decisioni anziché altre. E così, procedono con tutte le altre. Terzo inganno: controllo. Controllano ogni realtà lavorativa mediante la logica, la struttura, le regole, la gerarchia interne. Ciò vuol dire che governano tutti i lavoratori facenti parte di quella specifica realtà. Con questi tre inganni, si assicurano il dominio dell’intero sistema economico-lavorativo e decidono: il tempo di pace o di guerra; la normalità e la crisi; le mode e i desideri; la storia e la verità; il bene e il male; il destino del singolo individuo, dell’umanità e dell’intero pianeta.
La globalizzazione è la cucitura di tutti i sistemi economico-lavorativi locali, statali, continentali in un grande meccanismo globale regolato dal linguaggio tecnico-informatico, alimentato dal lavoro di tutto e di tutti, che prezza tutto e tutti: tecno-totalitarismo economico-lavorativo. Una macchina infernale comandata da chi sta con un piede dentro e uno fuori ad esso: i burattinai. Il lavoratore non è consapevole dell’esistenza di questi manovratori invisibili né si rende conto che giorno dopo giorno considera sempre più il sistema economico-lavorativo l’unica realtà esistente. Osservandolo attentamente, il suo modo di vivere all’interno di questa nuova realtà ha qualcosa di mistico-religioso. Somiglia molto alla continua relazione che intratteneva con il vecchio Dio dei testi Sacri. Soltanto che adesso questa relazione avviene con il nuovo dio: il denaro. Il lavoro è la nuova realtà, la nuova fede. È quella dimensione contemplativa e rituale a un tempo con la quale si accede nel tempo del sacro e si partecipa della divinità, per trarne beneficio, per essere miracolati (guadagnare). Rispettare e praticare i dogmi, le regole, le gerarchie, i riti, i tempi di attività, in una parola “lavorare”, è la forma di preghiera e di culto del sistema economico-lavorativo. L’azienda è la chiesa nella quale si venera il dio denaro. Il posto di lavoro è la panca nella quale si svolgono la preghiera e il culto quotidiani. Il datore di lavoro è il sacerdote che mette in comunione il lavoratore con il dio denaro. Il portamonete, la busta paga, il conto in banca, il bancomat sono i vangeli che regolano tutte le condotte umane. Lo sportello bancario è il confessionale e l’operatore è il confessore al quale ci si rivolge se (sempre) si è commesso peccato (speso il denaro). La banca è la curia che decide le sorti della nostra fede (cioè del lavoro svolto e della ricompensa equivalente), mentre la banca nazionale si occupa delle sorti della fede delle aziende. Il prestito e il mutuo sono le forme di miracolo cui è possibile accedere oppure no, in seguito alla verifica della nostra fede. Le tasse sono forme di colletta utili per il mantenimento dell’intera fede (il sistema economico-lavorativo). Gli Stati sono i contraenti terreni, credenti e non, coi quali il dio denaro stipula contratti di svariata natura, allo scopo di presenziare in tutte le cose (dare un prezzo a tutti gli enti). Gli assessori, i consiglieri, i parlamentari sono i cardinali della fede. Il Ministro dell’economia è il papa nazionale della fede. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale sono i collegi cardinalizi che dirimono le questioni dogmatiche della fede e aiutano gli Stati più bisognosi dell’intervento divino. Tutte le lotterie e i giochi dei monopoli di Stato rappresentano le promesse di una maggiore partecipazione al dio denaro per chi ha più fede, cioè per chi più lavora, più guadagna, più spende “fiducioso” nel premio stesso. Lo scopo del dio denaro infatti non è di tenerlo per sé (come l’antico profeta Giona) bensì di annunciarlo agli altri, “spenderlo” per rendere anche gli altri partecipi della fede (per farli lavorare); per vivere (perché tutti i beni di prima necessità hanno un prezzo) e per ritrovare, ognuno, la propria fede: tornare a lavorare (guadagnare). In questo modo, il lavoratore vive in pieno nella verità del dio denaro, spera di essere degno del premio, lavorando e spendendo quanto più possibile il denaro ma, nel contempo, proprio spendendolo si macchia della colpa di non essere più con il dio denaro, fa peccato e deve riparare, deve lavorare per guadagnare nuovamente l’elezione del dio denaro. In questo modo, il cerchio si chiude e il sistema economico-lavorativo si mostra come uno strumento di oppressione e controllo psicologico delle masse, una realtà “divina” sì ma disumanizzante. L’essere umano non pensa più, non ama più, non prega più, è infelice, solitario, disperato. Non ricorda il proprio passato, non immagina un futuro. È una macchina per lavorare, per produrre denaro, nient’altro. Non vive più in società perché quest’ultima si è trasformata nel sistema lavoro-denaro. L’uomo sopravvive ma non è detto che ciò gli sia concesso sempre. La realizzazione di questa forma di globalizzazione, infatti, è pericolosa perché aggredisce la natura in modo sconfinato. Oggi tocca alla Terra, domani agli altri pianeti del sistema solare, dopodomani a quelli degli altri sistemi e galassie. Tutta la natura è intesa come una risorsa manipolabile e impiegabile per scopi artificiali, fittizi ma soprattutto dannosi, nocivi non soltanto per l’uomo bensì per la natura stessa. Sfruttando la natura per creare lavoro, per l’economia, restando indifferenti alle alterazioni dell’ecosistema che l’intervento umano provoca, prima o poi si andrà incontro a una catastrofe e sarà troppo tardi per porvi rimedio.
Il lavoratore non si rende conto che dietro questo sistema vi sono i grandi burattinai invisibili, né che tale sistema è un’invenzione e non la realtà. Anche se si accorgesse di ciò, non potrebbe tirarsi fuori perché la propria sopravvivenza dipende dai beni di prima necessità e questi hanno tutti un prezzo. Se non lavora, non accumula denaro e se non ha denaro non può sopravvivere. I marionettisti sanno che i lavoratori sono loro schiavi, così vivono al sicuro irraggiungibili sul trono del comando, giocando con le sorti di persone e cose, comandando lavoro con spirito d’onnipotenza, stravolgendo il mondo. Ma non è mai tardi per chiedersi se la vita possa essere ridotta al lavoro e al denaro, se quest’ultimi costituiscono veramente il suo scopo più alto, se l’umanità e la natura hanno un senso soltanto se interpretati come fenomeni legati al lavoro e al denaro. Porsi queste domande significa continua a interrogare la globalizzazione, non smettere di farlo. Vuol dire chiedersi se sia possibile soltanto questa forma di globalizzazione, che sfocia in un tecno-totalitarismo economico-lavorativo planetario oppure se sia possibile pensarne un’altra, che preveda degli scopi più alti del lavoro e del denaro e che non conduca al dominio terrestre dei capitalisti. Ma forse, per interrogare seriamente la globalizzazione, sarebbe necessario un blackout planetario, che interrompa per lungo tempo il congegno economico-lavorativo. Soltanto in questo modo, forse, l’umanità prenderebbe coscienza dell’estremo bisogno della luce per illuminare l’oscurità nella quale sopravvive.

sabato 16 ottobre 2010

TANGEMI

- di Saso Bellantone
Quanti anni saranno passati? Dieci? Cinquanta? O di più? Non lo so. Eppure sono di nuovo qui, a casa. Casa… che significa, casa? Vecchie mura sormontate da un logoro tetto, una porta semidistrutta, i vetri rotti di finestre scheggiate dal tempo e un campanello scoperchiato penzolante, costituiscono una casa? È vuoto. Tutto è come lo avevo lasciato. Immobile. Silenzioso. Tutto è al proprio posto. Tranne la polvere. E quest’odore di muffa. Di chiuso. Non ricordavo ci fossero prima. Prima? Sì, prima che partissi… continua a leggere

sabato 9 ottobre 2010

POSSIBILE E IMPOSSIBILE


- di Saso Bellantone
Stanco del suo illimitato vagabondaggio per sperimentare ogni singolo frammento di cui si compone il mondo, Possibile si ritrovò di fronte ad un immenso albero dietro al quale si stendeva un lago smisurato. Decise di sostare qualche istante per ristorarsi della pace che quel luogo sprigionava. Posate le sue cose ai piedi dell’albero, si avvicinò al lago dove, inchinatosi, fece per bere e: – “Impossibile!” – urlò dallo spavento, scorgendo una figura identica a lui che lo guardava dall’altro lato dello specchio d’acqua. Camminando a ritroso, pieno di paura, sbatté la schiena con la corteccia dell’albero e qualcosa gli precipitò sulla testa. Volto lo sguardo verso terra, Possibile vide che era un frutto: lo prese, l’addentò e da quel momento non ricordò nulla di quanto era appena accaduto, nemmeno il proprio nome. Quando se ne andò, un demone scese giù dall’albero, che era l’albero della Vita, e disse: – “E questa è fatta!”. Era il tramonto... continua a leggere

venerdì 8 ottobre 2010

CECITA' di José Saramago

- di Saso Bellantone
Che accadrebbe se diventassimo tutti ciechi? Continueremmo a vivere così come abbiamo vissuto finora? La nostra identità, la relazione con altri, la società umana, il pianeta resterebbero gli stessi? O cambierebbe tutto? Verso quale futuro ci dirigeremmo? Da questi interrogativi prende avvio Cecità, di José Saramago. Pubblicato nel 1995, Cecità racconta in chiave metaforica l’evolversi di un’epidemia di massa, invisibile ma estremamente reale, che frantuma l’intera società nella quale viviamo. Questo morbo non è il solito ottenebramento della vista che a causa di difetti fisiologici o di disfunzioni strutturali, appunto, rende ciechi. Si tratta di altro: del “mal bianco”. Che cos’è?
Chi è cieco, non ha bisogno di cure, non spera affatto nell’esistenza di un rimedio fuorché in un miracolo: «i ciechi non vanno dall’oculista» (p. 20). Il mal bianco è una malattia sconosciuta, una cecità diversa dalla normale impossibilità di vedere quel che ci sta attorno. Questa cecità bianca non ha precedenti già noti né sintomi. Coglie alla sprovvista, impreparati. Per questo ci si rivolge all’oculista, per capire di quale genere di cecità si tratta. Il problema è che, visitandoci, l’oculista potrebbe non trovare «niente nella cornea, niente nella sclera, niente nell’iride, niente nella retina, niente nel cristallino, niente nella macula lutea, niente nel nervo ottico, niente da nessuna parte» e risponderci: «Non le riscontro alcuna lesione, i suoi occhi sono perfetti» (p. 23). Come si può esser ciechi quando non si ha nulla né agli occhi né all’intero sistema visivo? Come può manifestarsi un’epidemia del genere, una cecità che non è cecità? «Ma un’epidemia di cecità non si è mai vista […] Neanche si è mai visto un cieco senza motivi apparenti per esserlo» (p. 36).
La cecità di cui parla Saramago è anomala, invisibile ma reale: «se un cieco non vede, mi domando, come potrà trasmettere il male con la vista» (p. 98). Malgrado non sia trasmissibile ad altri, paradossalmente, questa cecità ci colpisce tutti, come la morte: «la cecità mica si attacca, Neanche la morte si attacca, e ciò nonostante moriamo tutti» (p. 38). Non è magia né un maleficio bensì un male dello spirito, del pensiero, della coscienza. Si diventa ammalati di cecità bianca quando «si comincia col cedere nelle piccole cose e si finisce per perdere completamente il senso della vita» (pp. 147-148); quando «ci si abitua talmente ad avere gli occhi che ancora si crede di poterli usare anche quando non servono più a niente» (p. 83). Il mal bianco è un effetto di una precisa abitudine. Quando consideriamo il vedere qualcosa di scontato, non ci accorgiamo più di quel che ci accade né di chi o di che cosa ci attornia né di quanto dipendiamo dagli altri e dalle cose stesse. In questa omnicomprensiva abitudine alla disattenzione, crediamo che “vedere” abbia ancora un senso e invece non lo ha più, perché non c’accorgiamo di nulla. La cecità che Saramago narra è un male latente nell’essere umano, che colpisce quando ci si abitua a essere noncuranti. È l’abituarsi a non vedere, a essere indifferenti nei confronti di tutto e di tutti fuorché di se stessi. È l’assuefarsi alla paura, all’indecisione, all’amor proprio che rende continuamente stanchi di vivere, di comprendere, di ricordare, di lottare, di sognare, di sperare: «la cecità è anche questo, vivere in un mondo dove non ci sia più speranza» (p. 180).
Quando inconsapevolmente si è avvezzati al non vedere, si diventa come dei fantasmi: i nostri nomi non hanno più senso perché è come se non esistiamo. Crediamo che tutto vada bene soltanto perché respiriamo ancora, quando invece il limitarci a sopravvivere costituisce la prova che tutto va male. Diventiamo freddi, spersonalizzati, omologati, egoisti, solitari; restiamo totalmente privi di valori e di norme trascendenti capaci di frenare il nostro istinto ancestrale alla guerra di tutti contro tutti per il potere, per il dominio, per la gloria, per la ricchezza, per la proprietà, per vincere. Questa abitudine al niente dei valori e di Dio, ci mantiene tutti ciechi contro altri ciechi, ci assuefa nel continuare a esser ciechi. È una regressione generale della civiltà umana e della società contemporanea che soltanto gli occhi di Saramago potevano vedere e denunciare, occhi diversi, come quelli della moglie del medico la quale, nel racconto, è l’unica a vedere in un mondo di ciechi.
Il morbo bianco, secondo Saramago, proviene da un modo di pensare che fa del “non vedere” il punto di forza per inglobare tutto e tutti, come isolati, nel circolo vizioso del potere. La cura consiste in un modo di pensare che considera il “vedere” il baricentro necessario per proiettare tutto e tutti nella rete dell’amore, della solidarietà, della cura dell’altro, della comprensione. Mentre la logica del non vedere considera tutto secondo la prospettiva del potere e in questo modo smantella l’intrinseca connessione di ogni cosa e persona con tutti gli altri, la logica del vedere ricalca questa interconnessione generale degli enti e l’importanza delle piccole cose e degli altri per la vita. Un tozzo di pane, un po’ d’acqua, un abito, una casa, un letto, un gabinetto puliti, farsi un bagno, darsi la mano, accarezzarsi, amarsi, capire, pregare, respirare aria pulita, ricordare un avvenimento passato, avere un amico e via dicendo – dare a valore a tutte queste piccolezze vuol dire dare valore alla vita in generale. In questo modo si genera – o si scopre – il senso della vita. La cecità dell’era contemporanea consiste nell’incapacità di riconoscere che sono le piccole cose ad alimentare la vita e che tutto è legato a tutto il resto. Soltanto se si colma tale ignoranza, la vita stessa può acquisire un senso: «probabilmente solo in un mondo di ciechi le cose saranno ciò che veramente sono» (p. 113).
Quando si prende consapevolezza di questa cecità bianca, ci si trova in un momento critico, in un punto zero tra due modi di pensare. All’inizio, è una situazione opprimente, dolorosa, insostenibile perché si è i soli a vedere: si crede di non avere «il diritto di guardare se gli altri non possono guardare me» (p. 63). Poi però s’incomincia a capire che «oggi è oggi, domani è un altro giorno, e io la responsabilità ce l’ho oggi, non domani, se sarò cieca, Responsabilità di cosa, La responsabilità di avere gli occhi quando gli altri li hanno perduti, Non puoi guidare o dare da mangiare a tutti i ciechi del mondo, Dovrei, Ma non puoi, Aiuterò per quanto sarà nelle mie possibilità» (p. 213). “Vedere” non è un optional, non si tratta di premere l’interruttore a piacimento, di accendere e spegnere la vista quando conviene. “Vedere” è una responsabilità: da ciò dipende il destino nostro e altrui, del genere umano, della società, del pianeta. Se la maggior parte di noi è soggiogata da tale falso biancore della vista, quei pochi che ancora vedono sono chiamati a dare voce a quel che vedono, sono interpellati a spezzare il monotono pallore della quotidianità con il rumore dissonante della propria voce, perché «il rumore è indiscreto, impossibile da mascherare» (p. 50). Se si spengono anche questi ultimi occhi, come pensare alla storia e al futuro dell’umanità e del pianeta Terra? Tutto svanirebbe.
Il mal bianco è la malattia invisibile che si diffonde nel nostro mondo, per mezzo del modo di pensare dominante legato al potere, che rende indifferenti, spaventati, egoisti, disperati. In questo senso, non fa differenze di colore, idioma, etnia o cultura, può colpire tutti e, per questo motivo, può minacciare il nostro destino. Se tutti ci ammalassimo di questa cecità bianca, ci ritroveremmo ognuno a far guerra contro tutti gli altri: «sarebbe terribile, un mondo di ciechi, Non voglio neanche immaginarlo» (p. 54). Con Cecità, Saramago denuncia questo morbo invisibile celato nella nostra società, perché sa che la posta in gioco è il destino del genere umano. Il racconto ci pone su di una prospettiva che è oltre i confini delle leggi finora adattate per regolare la nostra condotta. Da questo panorama al di là della legge, dobbiamo tornare a ri-vedere tutto, tornare a circoscrivere, definire, misurare e connettere ogni ente con tutti gli altri, vivente e non, umano e non. Tutto, anche i sentimenti e la fede, dipendono dalla capacità di comprendere l’importanza delle piccole cose, degli altri, del pianeta e dell’interconnessione cui tutto e tutti sono coinvolti. È questa la sfida delle sfide dell’era contemporanea: occorre tornare ad accorgersi di tutto e di tutti e ad apprezzarli così come sono nella loro semplicità, vale a dire per la vita che alimentano. Da ciò scaturisce la riscoperta del senso e della qualità della vita. Il punto di partenza, secondo Saramago, è porsi il problema del mal bianco, della nostra abitudine a non vedere niente: «Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono» (p. 276).

domenica 3 ottobre 2010

IL LIBRO DELL'ESSERE

- di Saso Bellantone
Aveva letto tutto. Tutti i libri che aveva. Ma aveva ancora sete. Della conoscenza, non riusciva a dissetarsi. Mai. Così andò alla libreria. La solita. Si chiamava Geosofia. Entratovi, respirò l’aria stagnante di carta, inchiostro e polvere. La stessa aria che c’era in casa sua. E cominciò a vagare. Tra uno scaffale e l’altro. Di mensola in mensola. Tra colonne e tavolini. Di corridoio in corridoio. Era in un labirinto. Un labirinto di libri. Il labirinto del sapere. Ogni settore era uguale a tutti gli altri. Malgrado il nome di ognuno fosse diverso. Poesia, letteratura, storia, filosofia. Teatro, cinema, arti, religioni. Scienza, fantascienza, romanzi e racconti. Favole, fiabe, fantasy e centinaia di altri generi ancora. Sfogliò un libro. Poi decine e centinaia e migliaia. Ma nessuno corrispondeva alla sua sete. E continuò a sfogliarne degli altri. L’uno dietro l’altro. Mentre il tempo non era altro che un lontano ricordo confuso. Quando infilò l’ennesimo libro nel proprio scaffale, vide un vecchio che mi guardava divertito. Era seduto su di una pila di libri, col bastone e il berretto appoggiati sulle gambe: - Dacci un’occhiata - disse all'altro, porgendogli un libro. I suoi occhi infondevano sicurezza. La sua risata, invece, la cancellava. L'altro prese il libro. Pesava a tal punto che dovette sostenerlo con entrambe le mani. Era freddo, quasi ghiacciato. Dovette sedersi anche lui. Lo pose sulle ginocchia e notò che il titolo IL LIBRO DELL'ESSERE era scritto a caratteri cubitali su di una copertina fatta soltanto di specchio... continua a leggere