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giovedì 24 dicembre 2015

Natale Meridiano


- di Saso Bellantone

I fiocchi di neve ondulavano nel cielo come miriadi di altalene appese a fili invisibili. Si muovevano all'unisono, come un'orchestra di fate e folletti svolazzanti in ogni luogo, strumento alla mano. Scendevano lentamente, come il playback di un film non ancora cominciato, e si andavano a depositare sulle case, sulle strade, sulle montagne e sul mare di una Calabria tutta avvolta dall'atmosfera natalizia.
Alberi, luci, palle colorate e stelle ricoprivano per intero i paesi. Presepi semplici o meccanici ornavano gli angoli più in vista o più nascosti dell'interno delle abitazioni, residuo di un sacro ormai scemato nell'ordinario. Panettoni, torroni, cioccolate e bottiglie di spumante occupavano le vetrine dei negozi o le tavolate della gente in attesa della mezzanotte.
Non c'era nessuno per le strade. A parte il ghiaccio, ammassato ai bordi dei marciapiedi, sui davanzali delle finestre o sui balconi, oltre che sui tetti delle case e delle automobili, sui picchi delle montagne e sulla spiaggia.
Era bianca, sì, tutta bianca come una distesa di panna ben spalmata sul pan di Spagna. Non accadeva da quindici anni una nevicata così. Lo stesso mare sembrava un lago calmo attorniato da sponde di neve. Il soffice suono dell'acqua sulla candida battigia ghiacciata spezzava delicatamente il silenzio circostante, evocando quei sogni, quelle visioni, quegli incantesimi e quei desideri che balzano al cuore soltanto questa notte e che soltanto una persona può realizzare, se lo vuole. Quel vecchio dalle universali fattezze, con barba bianca e abbigliamento rosso.
Davanti alla grande luna all'orizzonte, sospesa tra cielo e mare, passò un'ombra. Un suono, prima lontano e quasi impercettibile come il ronzio di una zanzara e poi sempre più vicino e più potente come il rombo di un propulsore, si diffuse tra l'onda e la neve. Poi si udì un fragore e lo scivolare di qualcosa di pesante, molto pesante, lungo la lattea costa.
Era una Harley Davidson. Tutta marrone, lo sterzo grandissimo, sul serbatoio era disegnata una renna. Dietro, attaccata a una staffa introvabile, c'era una slitta, talmente piena di pacchi e buste dai colori inimmaginabili da sembrare una montagna incantata.
Guardò l'orologio da taschino. Era quasi mezzanotte. Doveva affrettarsi, altrimenti avrebbe saltato l'appuntamento. Prese un pacco dalla slitta, diede una carezza alla moto e la renna aerografata sul serbatoio parve muoversi in segno di saluto. Poi si voltò e cominciò a camminare lungo la spiaggia immacolata in direzione del fumo che si alzava, più in alto, sulla strada.

Lazzaro teneva in mano un cartone. Scuoteva ripetutamente l'aria, affinché il carbone ardente non si spegnesse a causa del freddo e della neve. Aveva messo delle castagne sulla griglia di un vecchio barbecue arrugginito. Un taglio di piatto e niente sale, perché non ce l'aveva. Quella sarebbe stata la sua cena.
La barba e i capelli lunghi, indossava degli abiti e un giubbotto logorati, trovati vicino a un cassonetto della spazzatura. Di giorno vagava per le strade del paese, nella vana speranza che qualcuno gli desse quel lavoro che quel suo aspetto trasandato gli negava. Di notte, dormiva dentro una vecchia Ritmo abbandonata sulla sponda di un antico fiume reggino, del quale era ormai rimasto un rigagnolo, ghiacciato dalla bassa temperatura.
Era solo, al freddo, come tutti gli altri giorni, dimenticato da una società fatta a misura di tasse, di teatrini, di potere e di intrallazzi. Ma preferiva così anziché vendere la propria anima a quel diavolo travestito di santo che si chiama conformismo. Vivere di raccomandazioni, di imbrogli, di mutui per ostentare una ricchezza che non si avrà mai nella vita, non ha mai fatto al caso suo. Preferiva essere se stesso, raggiungere gli obiettivi con le sue sole forze, onestamente e con quel niente che aveva. Per questo motivo, forse, oltre che con l'aiuto dei falsi profeti che siedono sulle poltrone decisionali del pubblico e del privato, si ritrovava là, solitario sulla sponda del fiume, a riscaldare delle castagne raccolte da un albero abbandonato e dimenticato come lui, in una terra in cui non ci andava più nessuno.
Pur avendo una famiglia numerosa, nessuno si era mai preoccupato di lui né lo aveva cercato. Da quando aveva l'aspetto di uno straccione, anzi, se qualcuno lo incontrava improvvisamente evitava finanche di salutarlo e cambiava strada. Il padre, pensionato a quarant'anni presso una celebre azienda nazionale di trasporti, era diventato un ubriacone da quando la moglie, sua madre, era morta al pronto soccorso, per ragioni ancora ignote, perché non c'era abbastanza personale per tutti. I nonni felicemente anziani, dicevano che ai loro tempi “C'era lavoro per tutti! Si usciva da un'azienda e si entrava in un'altra, nonostante la fame e la povertà e la ricostruzione post-bellica! Oggi, invece che c'è tutto quello che a noi mancava, è impossibile non trovare lavoro! Throviti nu lavuru!”.
“Throviti nu lavuru!” la stessa frase che gli ripetevano gli zii e i cugini e gli amici e gli sconosciuti, tutti sistemati ai tempi del boom economico e della rivolta universitaria. Era lì che doveva cambiare tutto... in meglio. E invece, scambiando la dignità con un posto di lavoro o un pezzo di carta, è tutto peggiorato. Se a questo si aggiungono le sottili e introvabili trame tessute da oscure organizzazioni per ridisegnare la carta internazionale degli Stati, si capisce che dal peggio alla fine ultima del mondo che è stato il passo è breve.
“Il passo è breve...” si disse Lazzaro, continuando a rinvigorire il fuoco “Ma perché non accade mai?! Perché non finisce tutto?! Possibile che la gente non si renda conto che non c'è altro modo per vivere? Tabula rasa! Cominciare da capo! Non pensano nemmeno ai figli! Preferiscono augurare loro la stessa sopravvivenza a stento, anzi di più, che avviene oggi! Come si può essere così ciechi...”
Riflettendo su questi pensieri, Lazzaro sentì il rumore di passi avvicinarsi nella fredda oscurità. Gli passò un brivido nella schiena e si voltò in direzione del suono, spaventato, dal momento che non era solito ricevere visite, in quel luogo e a quell'ora e, per giunta, nel giorno di Natale. “Dovrebbero essere tutti a festeggiare al caldo delle proprie case e davanti a portate infinite...” si disse “A meno che non si tratti di qualche cane randagio, affamato anche lui, che ha sentito il profumo delle caldarroste e ne vuole un po'”.
Continuò a guardare le buio, stringendo il coltello con cui aveva tagliato le castagne, nell'attesa di scoprire di chi si trattava, quando tra i fiocchi di neve apparve una strana figura che continuò ad avvicinarsi a lui. Era un omone. Indossava un giubbotto di pelle, un pantalone e degli anfibi neri, un cappello di lana rosso, portava un paio di occhiali a goccia, trasparenti, appoggiati sopra un grande naso. La pelle giovane e vellutata come seta, aveva un orecchino e un pizzetto bianco perfettamente curato. Teneva in mano un pacco colorato e la sua espressione era talmente severa da mettere paura persino ai fantasmi.
Ma Lazzaro non provò paura, anzi, per la meraviglia lasciò cadere il coltello e continuò a fissarlo a bocca aperta.

“Posso?” si pronunciò l'omone, indicando la vecchia ruota posta vicino a quella in cui sedeva Lazzaro.
“E tu chi sei?” chiese il giovane sbalordito come innanzi a un miraggio.
“Mi hanno dato molti nomi nel tempo, Lazzaro, ma preferirei che chiamassi N”.
“Enne? Ma che nome Enne? E che ci fai qua? E poi come fai a conoscere il mio...”
“Non importa... Alcune cose sono irrilevanti, Lazzaro. È ben altro che a noi interessa...” rispose l'omone, mostrando il pacco colorato che aveva tra le mani.
“È per me?” chiese il giovane, osservando l'oggetto “Non ho mai ricevuto un regalo...”
“Lo so...” sorrise l'altro “È per questo che mi trovo qui... Posso?” domandò ancora, porgendo il pacco regalo a Lazzaro.
“Ehm... certo!” il giovane passò una mano sul pneumatico e fece accomodare lo strano ospite.
Enne si sedette al suo fianco, gli porse nuovamente il regalo e Lazzaro stavolta lo accettò, non credendo ancora ai suoi occhi. Poi Enne alzò le mani per riscaldarle davanti al fuoco e disse: “Stanotte mi aspettano tante persone, bambini e adulti, ma... credo che per una volta farà loro bene se noteranno che non sono passato... Direi che sono cotte!”
“Che cosa?”
“Le caldarroste!”
“Ah sì, le caldarroste!” sorrise Lazzaro, pensando ancora alle parole dell'altro “Perché non ne prendi una?”
“Volentieri!”.
Enne afferrò una castagna, la schiacciò tra le mani coperte da guanti di pelle neri, e dopo averci soffiato sopra un paio di volte la addentò.
“Buona!” disse “Non lo apri?”
“Cosa dovrei aprire?” chiese Lazzaro, guardandolo con un'aria mista tra lo stupore e la curiosità.
“Il regalo.” sorrise l'altro, sfregandosi le mani sul fuoco.
“Ah già il regalo! L'avevo già dimenticato... Prendine quante ne vuoi!” esclamò Lazzaro, ridendo.
Enne, osservando divertito la scena e mangiando un'altra castagna, diceva:
“Sono davvero deliziose... Buon Natale Lazzaro.”
“Buon Natale anche a te... Come hai detto di chiamarti? Ah sì, Enne! Buon Natale Enne!” disse Lazzaro, guardandolo con riconoscenza.
Dietro quegli occhiali trasparenti, c'erano due occhi grandi e antichi come le fondamenta della Terra. Lazzaro si sentì talmente rapito che all'interno di essi gli sembrò di vedere la storia dell'intero universo, di tutte le cose esistenti, di tutte le civiltà e anche la sua. Provò una pace indescrivibile, come non la provava da tantissimo tempo, e per un attimo ebbe la sensazione di conoscere il perché la sua vita era andata così com'era andata e il perché si trovava là, alle sponde del fiume, davanti alle caldarroste assieme allo sconosciuto di nome Enne.
Poi, come tornato da un viaggio lunghissimo senza mai spostarsi da dov'era seduto, si ricordò del regalo che aveva tra le mani. Così distolse lo sguardo dall'uomo e concentrò la sua attenzione sull'oggetto. Tolse il filo dorato con cura e fece la stessa cosa con la carta. In realtà, i regali erano due: una penna e un diario.
Non ne vedeva da anni e l'emozione fu talmente tanta che il suo viso fu rigato da lacrime di gioia.
“Grazie!” esclamò, asciugandosi con la mano e volgendo lo sguardo all'altro ma l'altro non c'era più. Si guardò intorno, stringendo i regali, ma dello strano omone non vi era traccia. A ben vedere, per terra, vicino al pneumatico su cui l'uomo si era seduto, non c'erano nemmeno le bucce delle castagne che aveva mangiato.
Si chiese se avesse immaginato tutto o se avesse sognato a occhi aperti, eppure la prova che quell'incontro era avvenuto davvero era proprio nelle sue mani ed era costituita dalla penna e dal diario che aveva ricevuto in dono.
“Grazie Enne!” urlò nel buio, le lacrime ancora agli occhi, rendendosi conto che aveva appena finito di nevicare.

Enne salì bordo della motocicletta e girò la chiave del quadro di accensione. La luce del faro anteriore si accese e illuminò le orme appena lasciate dall'uomo sulla bianca spiaggia. Nel silenzio circostante, disturbato dal soffice suono delle onde che finivano sulla battigia immacolata, un'eco si diffuse nell'aria. Qualcuno aveva urlato qualcosa al cielo e lui sapeva di chi si trattava.
Si fermò, e sorrise, pensando a Lazzaro.
“Erano davvero gustose quelle castagne!” pensò.
“Potevi portarmene una, Nicolaus!” disse la renna aerografata sul serbatoio della motocicletta “Sei sempre il solito egoista!”.
“Tanto a te non piacciono le caldarroste!” rispose Nicolaus “Quando arriviamo a casa ti darò delle noci!”
“Noci! Sempre noci! Uno di questi giorni mi licenzio!”
“Ma smettila Erre! Dove lo trovi un impiego migliore di questo! Lavori un giorno e il resto dell'anno sei libero!”
“Vero... però una castagna me la potevi portare, capo!”
“Il prossimo anno... Dai, piuttosto, metti in moto e andiamo!”
“Agli ordini!” la renna accese la motocicletta e il motore cominciò a sbuffare “Ho sentito cosa ha i detto al giovane... Davvero non vuoi portare regali a nessuno quest'anno?”
“Sì. Stavolta ho deciso così. Sono troppo legati alle cose e meno tra loro. È bene che imparino quanto è importante stare insieme e riflettano su come vanno avanti le cose... Questo mondo ha bisogno di una raddrizzata.”
“Anche questo è vero... Ma così non farai piangere i bambini?”
La motocicletta partì veloce e si alzò subito nell'aria, facendo un ampio giro nel cielo. Le voci disperate di tanti bambini in lacrime, davanti all'albero di Natale completamente privo di regali, si alzavano da ogni parte del paese raggiungendo la moto-slitta.
“Che ti avevo detto?” disse la renna, guardando di sbieco il motociclista “Stavolta l'hai fatta grossa Nicolaus!”
“Le lacrime non fanno sempre male...” rispose Nicolaus, sorridendo “Guarda quaggiù piuttosto, Erre!” aggiunse, indicando il fuocherello sul fiume, vicino alla vecchia Ritmo.
Lazzaro, seduto davanti alle caldarroste, aveva cominciato a scrivere.

lunedì 7 dicembre 2015

L'illusione della meta


- di Saso Bellantone

"La vita è l'eterno attraversamento di una tempesta in mare aperto, illusi di poter raggiungere porti sicuri".

giovedì 26 novembre 2015

Tutto è compiuto


“Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno d'aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, spirò.
- di Giovanni, 19, 28-30

martedì 3 novembre 2015

Quando se ne va un docente universitario (lasciatemi pensare)


- di Saso Bellantone

Quando se ne va un professore universitario, se ne va l'Università. La mia Università, quella di Messina, non c'è più. Neanche il Corso di Laurea in Filosofia. Non è più lo stesso. È altro da sé. Forse, non è più.
Anni indimenticabili, di incontri e di scontri, di gioie e di delusioni, di crescita e di rieducazione. Ma soprattutto anni indelebili, negli invisibili fili di una labile memoria tenuta in piedi da mollette rotte e usurate che tengono appese sbiadite istantanee, pronte a irrorarsi di colori caleidoscopici con un solo battito di ciglia.
La sbirciata non è sempre volontaria né tutte le volte è originata dalla curiosità di vedere e di sapere. Accade, improvvisamente, proprio come nel ritrovare un oggetto dato per perduto o come il balenare e l'immediato fuggire via di un raggio di sole attraverso le nubi nere che, a tenuta stagna, ci separano dall'azzurro del cielo.
Una volta presa coscienza del rinvenimento o della folgorazione, non si è più gli stessi. Ci si ritiene alterati. Non si è più quel che si è stati, o che si è creduto di essere, fino a un attimo prima. Cambia tutto. Anzi, tutto cambia: il tutto e il niente, l'universale e il particolare, l'essere e il divenire, il soggetto, l'oggetto, le categorie, l'attività stessa del giudicare e del pensare, persino la stessa filosofia, con i suoi autori, i suoi libri e manuali, i suoi insegnanti e discenti, le aule, i banchi e le sedie, le scrivanie, i corridoi, i piani, le scale, le porte, le strade, le vite e le esperienze che hanno condotto là. In via XXIV Maggio prima e all'Annunziata poi.
La prospettiva si trasforma, come viaggio dentro il viaggio, e ti trasforma, come creta fusa, impastata e cotta di nuovo o come atomi scomposti e ricomposti con legami diversi dai precedenti.
Restano tuttavia la fragile memoria, i suoi fili trasparenti, le mollette spezzate e consumate, le fotografie scolorate di quegli attimi vissuti tanto tempo addietro e anche un momento prima, portatori sani e contagiosi di quelle tracce luminose nel buio sentiero della conoscenza e della scoperta di sé. E li si afferra, li si tiene stretti a sé per evitare che la metamorfosi storpi anche loro o li recida definitamente da noi, condannandoci alla perdizione, alla evaporazione di quanto fatto finora, alla cancellazione delle orme che segnano il nostro passaggio sulla traiettoria delle generazioni e resistono al soffio della donna nera con la clessidra e la mannaia in mano.

Il professore Curatola, Vincenzo, è l'Università di Messina. È il Corso di Laurea in Filosofia. Assieme a tutti gli altri docenti che ho avuto la fortuna di incontrare, di conoscere, di seguire. Ma adesso che non c'è più, non c'è neanche l'Università di Messina né il Corso di Laurea in Filosofia. Non c'è, malgrado restino tutti gli altri docenti, i concetti, la filosofia, i filosofi, i libri, le strutture, le vie e i ricordi.
Un uomo per bene, un pensatore davvero, pochissime pubblicazioni e tante cose da dire e da insegnare. Un filosofo vivente e parlante, alla maniera di Platone, perché la scrittura è la copia della copia. Di aspetto semplice, trascurato, con la barba lunga e la giacca non sempre a posto e spolverata, motivo di scherno a volte da parte di colleghi e colleghe studenti che si ritengono già inscritti nell'albo dei sette sapienti della nuova era, il professore di Estetica è un unicum, un'eccezione, è il professore. Nel senso che è colui che parla nel contempo a favore della filosofia e dei suoi allievi. Una sfida difficilissima, sia per la filosofia giunta alla sua fine e in cerca dell'altro inizio, sia per gli allievi giunti al termine di un percorso di vita e alla ricerca di un nuovo cammino. Eppure il professore tiene testa ad ambo le facce della sfida, nella maniera più elementare: con il pensiero.
La parola di Vincenzo Curatola è pensiero e il suo pensiero è parola. I due termini non sono divisibili, sono un tutt'uno. A dimostrazione di questo basta seguire una sua lezione o dialogare con lui nel tempo extra-accademico. Come alla prima lezione di Estetica o sulla nave Messina-Villa o viceversa.
Ricordo ancora la mia prima lezione. E anche le altre. I libri sulla scrivania, consultati soltanto dal professore per prendere spunto per l'insegnamento, di fianco il gesso, per spiegare i concetti e i passaggi più controversi per noi, poi parole, pensiero, ragionamento, divagazioni mirate, chiarimenti, domande e risposte, ironia, dialogo con gli studenti, anche su argomenti apparentemente estranei alla disciplina. Vincenzo Curatola è sempre dalla parte degli studenti, senza eccezioni, e con carte alla mano. Con estrema trasparenza. Sempre disponibile, sempre pronto a conversare o a scherzare. Anche nei corridoi, in strada o sulla nave. Anzi, soprattutto al di fuori delle lezioni.
Ricordo ancora la mia prima volta sulla nave con il professore. E anche le altre. Si siede con me, chiacchiera con me della filosofia, della mia vita e della vita in generale, seguendomi con estrema attenzione e perdendosi in una lontananza impossibile da abbreviare. Quella di chi pensa o di chi è preso dal pensiero, di chi affronta i propri demoni o di chi ne è invasato.

Se oggi mi chiedessero “Che cos'è la filosofia?” oppure “Che cosa significa pensare?”, risponderei a entrambi i quesiti nel medesimo modo: “Vincenzo Curatola, il professore”. E se mi domandassero “Chi è Vincenzo Curatola, il professore?” e “Professore di che, di quale disciplina?”, risponderei a entrambe gli interrogativi così: “Il Professore di Estetica”. E se sollecitassero ulteriori chiarimenti con altre questioni, come “Dov'è che fa il Professore di Estetica? Dove Insegna?”, direi “All'Università di Messina, Corso di Laurea in Filosofia”. E se dicessero: “E dove si trovano questo Corso e questa Università?”, ribatterei “Via XXIV Maggio prima, Annunziata poi”.
Se m'informassero di essere stati all'Annunziata, in Via XXIV Maggio, al Corso di Laurea in Filosofia, all'Università di Messina, alla lezione di Estetica e di non aver trovato il professore Vincenzo Curatola, risponderei che si sono sbagliati. Perché in realtà non c'è più l'Annunziata né la Via XXIV Maggio né il Corso di Laurea in Filosofia né l'Università di Messina né la lezione di Estetica ma “Vincenzo Curatola, il professore” c'è. È ancora là nonostante non ci sia più tutto il resto. Direi che non riescono a vederlo perché, anziché cercarlo oggi, dovevano cercarlo prima. Seguire le sue lezioni e dialogare con lui prima. Direi che io lo vedo, senza muovere muscolo alcuno. Restando fermo, esattamente dove sono. Perché sono ancora un suo allievo e perché mi ricordo.
Direi, di lasciarmi pensare...

martedì 27 ottobre 2015

Versieri: L'UNIVERSO-SOLITUDINE di Paul Éluard


- di Saso Bellantone

I miei occhi si sono chiusi dietro a me
la luce è riarsa decapitata la notte
uccelli più smisurati dei venti
non sanno più dove posarsi.

Nei mutili tormenti nelle grinze delle risate
non cerco più il mio simile
si è accasciata la vita sono sorde le mie immagini
tutte le ripulse del mondo hanno avuto la meglio
non si vanno più incontro s'ignorano
io sono solo sono solo tutto solo
non sono mai mutato.

A volte la realtà non piace. La società, la gente, gli accadimenti non piacciono. Sembra tutto assurdo, fuori di testa, incredibile. Ci si sente come dei pesci fuor d'acqua, mentre tutti gli altri nuotano indifferenti, affrontano le correnti con le storpie pinne che si ritrovano, saltano sulla schiuma dell'adesso e delle mode, riempiendosi le branchie dell'aria che corre, senza fare smorfia alcuna. Neanche innanzi ai predatori, alle tormente, ai cracken che divorano la loro esistenza in un solo istante, battono ciglio. Arrivismo, iperestetismo, delirio di onnipotenza e di onnisapienza muovono le correnti della storia e chiunque si lascia trasportare da esse senza ancora né timone, senz'anima né dignità, nel disperato bisogno di esserci, nelle modalità dell'avere e dell'apparire. Anche i pirati. Preferiscono tramutarsi in corsari e ammiragli, scegliendo la sicurezza all'instabilità, la schiavitù alla libertà, i dobloni ai tesori nascosti nelle profondità del mare dell'essere. Perdono il coraggio della curiositas e l'ardore della resistenza, della perseveranza, alzando la bandiera bianca e dipingendola con i colori del potente di turno, sia quest'ultimo un altro uomo, una comunità, un regno o un dato di fatto.
Niente speranza, niente sogni, niente voglia di riscatto. Non resta altro che la certezza del respiro e la monotonia dell'avere, della sopravvivenza sistemata.
Innanzi alla caduta di ogni albero maestro e all'evirazione di ogni nave della propria anima è la nausea. La perdizione. La follia. Ci si sente come un'isola sperduta nell'oceano del tempo. Come un'energia accerchiata da monadi. Come un osservatore circondato da attori, da maschere, da volti fotocopiati dal potere e dalla rassegnazione, dall'odio e dalla disperazione, dall'egoismo e dal vuoto tornaconto personale. Non c'è più niente da vedere. È buio. Tutto uguale. Ripetitivo. Identico. La luce è impotente e la notte senza fine. Come la tempesta, entro la quale noi, alcioni più giganteschi degli stessi venti che trasformano tutto, non troviamo più un porto sicuro né lo cerchiamo più, neanche nelle sofferenze mozzate o nelle arricciature di un sorriso. Ormai la vita stessa si è lasciata andare, non c'è visione alcuna capace di parlare alla nostra interiorità perché tutto il peggio del mondo ha vinto. Anche quello che è in noi. Non ci si incontra più, ci si ignora, e ci si sente dannatamente soli, perché a differenza di tutti quanti, non si è mai cambiati. Non un capello o uno strato di pelle ha perso la o identità.
Ne L'universo-solitudine, Paul Éluard racconta lo strazio silente di quel lottatore che ha estremamente presente la metamorfosi generale nella quale vive. Narra la tragica sensazione di isolamento provata da chi vede esattamente la realtà. Una dimensione senza speranza né via d'uscita alcuna, nella quale lo spirito libero non trova più un luogo nel quale ristorarsi. Una società nella quale tutti, nella scelta individuale di restare soli, sono uguali. Non si ha più il desiderio di incontrare altri o di fidarsi di altri. Neanche i dolori e le gioie sono motivo, ormai, della relazione con altri. Ognuno pensa per sé. La vita stessa ha perso la propria vitalità e niente lascia immaginare a qualcosa di diverso, a una novità capace di infrangere le muraglie umane che si muovono per le strade, senza incontrarsi mai, perché ormai ha vinto il peggio dell'essere umano. Il suo lato oscuro.
Ma in tutto questo, il lottatore è doppiamente dilaniato. Perché nel ravvisare l'uguale solitudine di tutti quanti, scorge anche la sua. Unica, solitaria, esclusiva perché non si è lasciato coinvolgere da quell'altra che infettato tutti. E questa solitudine squarcia ancor più della prima, perché restando un lottatore, uno spirito libero, un pirata, un gabbiano, è l'unico rimasto a combattere il peggio e l'oscurità, l'ultimo, anche per tutti gli altri, cercatore della luce splendente, della fine della notte, di eden in terra, che non è altro se non la relazione con l'altro. Un nuovo inizio.

sabato 3 ottobre 2015

giovedì 1 ottobre 2015

Versieri: CAMMINI SUI MIEI SOGNI di William Butler Yeats


- di Saso Bellantone*

Se avessi il drappo ricamato del cielo,
Intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,
I drappi dai colori chiari e scuri del giorno e della notte
Dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,
Stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:
Invece, essendo povero, ho soltanto sogni;
E i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
Cammina leggera, perché cammini sui miei sogni.

I sogni sono le orme non ancora tracciate sul sentiero della vita. Sono invisibili, perché non sono ancora, e immediatamente inutili, perché appunto non sono adesso. Eppure, sono, già, ed è possibile vederli a occhi aperti qui e ora anche se la loro consistenza è immateriale, perché li si considera massimamente utili nonostante la loro inutilizzabilità.
I sogni sono, tutto, per chi il tutto appunto non ce l'ha.
Chi ha, infatti, è privo di sogni perché vede il mondo così com'è e non come potrebbe essere. Scorge l'utile ovunque e in chiunque, perdendosi ogni particolare. È solo, cieco, morto, si muove per inerzia. Chi ha è sempre in apnea, mai pervaso dal senso del bello. È spensierato, impassibile, avvilito; è chiuso, orgoglioso, assetato di odio. È un monologo, nel proprio monolite. È senza tempo, può soltanto calcolare.
Chi non ha, invece, è fatto di sogni. È, i sogni che egli stesso possiede o da cui è posseduto e strutturato. La sua sostanza è di sogni, così come la sua identità o la sua intera vita. Chi non ha considera i sogni degli inseparabili compagni, nell'insicuro viaggio dell'esistenza; dei fari, nelle cupe onde dell'essere. Il sangue, che scorre nelle vene; l'energia, che zampilla dalla carne. L'aria che respira, il profumo di un fiore non ancora sbocciato; i pensieri che angosciano come demoni, le emozioni ancora da provare. Chi non ha considera i sogni dei sorrisi non ancora espressi, delle carezze da cui non è stato ancora sfiorato, delle mani non ancora strette, degli abbracci da cui non è stato ancora attorniato. Le parole non ancora dette, gli incontri non ancora avvenuti, il tempo dentro il tempo, il possibile nell'impossibile, come l'amore.
Ama davvero chi non ha nulla fuorché i sogni che ha e che è. E all'amata, come scrive William Butler Yeats nella poesia Cammini sui miei sogni, può dare soltanto i suoi sogni, cioè se stesso, perché non possiede nient'altro da poter dare a lei se non l'amore.
Chi ha, avendo tutto quanto, darebbe alla propria amata soltanto tutto quello che possiede ma non le darebbe ciò che è più importante nell'amore, e cioè l'amore stesso, che è un sogno ed è costituito di tutto quello che non si ha già.
Non ci sono parole più belle per esprimere all'amata il proprio amore. “Avendo il tessuto di cui è costituito il cielo, ricamato d'oro, d'argento e di luce, o i tessuti dei colori chiari e scuri del giorno e della notte o quelli dai mezzi colori dell'alba e del tramonto, li distenderei sotto ai tuoi piedi perché la tua purezza è tale che, per evitare che si contamini con altro, smettendo così di essere pura, meriti di camminare su di essi. Ma essendo povero, potendo soltanto sognare di fare quanto detto prima, è questo che stendo sotto ai tuoi piedi, ciò che farei se avessi il potere di farlo e invece posso soltanto sognarlo. Cammina delicatamente sulla mia vita, perché è questa che ho steso al di sotto dei tuoi piedi”.
L'amore, anche se è invisibile e inutile, c'è soltanto per chi sogna a occhi aperti, soltanto per chi sa sognare perché non sa, né ha, nient'altro che i sogni che è.

* Fotografia di Linda Fassari

mercoledì 16 settembre 2015

giovedì 30 luglio 2015

Metafisiche soste


- di Saso Bellantone
"Mi sono seduto sul tempo e lo spazio si è infranto".

mercoledì 24 giugno 2015

DISsud: le foto 38


- di Saso Bellantone
"Veduta, Chiostro di San Francesco D'Assisi, Gerace (SUD)".

giovedì 11 giugno 2015

DISsud: le foto 37


- di Saso Bellantone
"Castello di Montalbano Elicona" (SUD).

martedì 9 giugno 2015

(il) Tutto respira


- di Saso Bellantone
"Si vive in cerca di qualunque cosa per potersi dissetare ma a volte basta soltanto il suo respiro".

lunedì 18 maggio 2015

LA vita luminosa del sé


- di Saso Bellantone
"Vita non è soltanto l'oscurità del tunnel contingente che si percorre quotidianamente, vita è anche il bagliore trascendente al di fuori di esso, che si manifesta dirigendo i propri passi verso se stessi".

mercoledì 8 aprile 2015

Bello è ciò che è semplice


- di Saso Bellantone
"Non avrai altra bellezza all'infuori della semplicità".

sabato 7 marzo 2015

Replay cosmico


- di Saso Bellantone
L'essere umano cammina sui propri passi come correttore sulle parole sbagliate; ma arrivato al punto di partenza si accorge che, forse, Qualcun Altro ha sbagliato a tracciare il sentiero.

venerdì 6 febbraio 2015

DISsonoria: OCCHIU NON VIDI dei Mattanza


- di Saso Bellantone

Oggi è luni dumani marti
la me' sorti 'i ddà si parti
e si parti 'i longa via
veni sorti parra cu mia
veni prestu non tardari
dimmi comu haju a campari.

Vitti 'na vota 'na musca vulari
'ncoju purtava tricentu bariji
vitti nu ciuncu di mani e di pedi
supr'a n' tignusu tirava capiji
occhju non vidi e cori non doli
'mbidia cu l'occhji orba è 'a furtuna
cuntra 'a furtuna non vali 'u sapiri
culu nci voli u sapiri non giuva.

Il Destino ha origine nella quotidianità, nella vita. Eppure, paradossalmente, la sua strada parte da molto lontano.
Noi percorriamo già tale sentiero ma non sappiamo se il Destino ci segua, cammini assieme a noi o ci aspetti avanti a noi. Così, ci chiediamo dove Lui sia, ogni volta che vediamo, sentiamo, assistiamo o viviamo qualcosa di strano, di particolare, di irrazionale; quando sperimentiamo fenomeni apparentemente contro le leggi della natura, della societas o semplicemente del buon senso; quando sperimentiamo fatti al di là di ogni ragione.
Innanzi a quegli eventi, in altri termini, ci chiediamo quale sia il nostro Destino, quale sia la nostra posizione, che cosa occorra fare da parte nostra, perché non lo sappiamo proprio. Non riusciamo a capire quegli avvenimenti, a concepirli, a prendere coscienza del fatto che siano accadimenti reali, pur strofinandoci gli occhi più e più volte, pensando di stare sognando. Ma quei fatti sono là, innanzi a noi, veri, concreti, toccabili con mano, e fanno male. Davvero male.
Non è possibile vedere persone comuni, poveri e sfortunati, caricarsi di tutto il peso del mondo, con la speranza di andare avanti un solo giorno in più in questa dannata vita; non è nemmeno possibile notare persone sofferenti, castigate da Dio, dalla natura e dalla società, disabili nel corpo e nel pensiero, scontrarsi meticolosamente con altri ammalati, puniti e inabili esattamente come noi.
Ma la cosa che fa ancora più male, è che nessuno si accorge di loro, anzi, che tutti sanno, vedono tali disperati ma ognuno passa dritto, fa finta di non vederli, di essere cieco, pensando soltanto a se stesso.
Eppure, quando altri hanno raggiunto obiettivi importanti, quando hanno fatto qualcosa di buono della propria vita, quando hanno un ruolo che conta o anche semplicemente soltanto perché sorridono, perché sono felici, perché hanno persone attorno che li amano, perché svolgono il lavoro più umile del mondo o perché si accontentano di quel poco o niente che hanno, sia una vecchia giacca, una maglia tutta sgualcita, una baracca pronta a cadere o le pulci che gironzolano per tutto il loro corpo – ognuno vede nitidamente e non è più lo stesso. Si trasforma.
Si odia, si disprezza l'altro talmente tanto da rovinarsi la vita, da soffrire amaramente e quotidianamente nella speranza che oggi o domani possa verificarsi una concatenazione di eventi o semplicemente un fatto che consenta di distruggere la persona che detestiamo, che ci ha rovinato la vita, soltanto perché l'abbiamo reputata più fortunata di noi ma è, esattamente, sventurata come noi.
Siamo noi a vedere diversamente l'altro. Evidentemente perché non nutriamo sentimenti sinceri o perché siamo limitati dal nostro passato, dalla nostra storia, dalle persone che abbiamo incontrato, dalle esperienze che abbiamo vissuto, dalla musica che abbiamo ascoltato, dai libri che abbiamo letto, da i film che abbiamo visto, dalla casa e dalla strada nei quali siamo cresciuti e da tutto quello che ha intessuto la nostra formazione. Siamo invidiosi e, quindi, non siamo capaci di guardarci allo specchio e di giudicare prima noi stessi, perché sappiamo già di essere niente di niente, e questo ci strazia. Non ci permette di vivere.
È molto meglio demolire chiunque altro non sia noi: solo così, è possibile andare avanti.
Ma è anche vero che in alcuni casi la fortuna è cieca, premiando chi ha già tutto con altrettanto tutto. E allora ci si chiede che senso ha la vita e sopportare enormi sacrifici per vedere realizzato, un domani, un misero sogno, quando altri senza dedizione né sforzo alcuno, soltanto per puro caso, o Destino, compiono in un istante soltanto, quello per cui noi abbiamo lottato per tutto il tempo?
E questo, fa ancora più male di tutto il resto.
Ogni scienza e conoscenza è inutile se i giochi della vita sono così. Se occorre soltanto la fortuna, allora è insensato pensare, fare, vivere così com'è stato finora. È tutto sbagliato. Sottosopra. Fuori posto. Tranne una cosa, una domanda: il Destino, questa maledetta forza che regge la strada della vita, ci segue, cammina assieme a noi o è, ancora, avanti a noi, pronto a manifestarsi?
Questo interrogativo ci perseguita, permane insoluto innanzi al disordine, al soqquadro dell'esistenza e del mondo umano, e rade al suolo il nostro essere, più di qualsiasi altro evento, sentimento o pensiero.
Non è più far finta di non vedere le disgrazie che accadono agli altri né focalizzare chiaramente la fortuna altrui. Quello che non si vede in alcun modo, è la risposta a quel quesito che ci strazia. Non si comprende il Destino, proprio e altrui, e si rimane sospesi, interrotti, galleggianti tra contrasti eternamente privi di definizione, di colore, di chiave di violino che consenta di penetrarne i segreti e la verità.

Le parole e le note di Occhiu non vidi dei Mattanza, brano dell'album “Cu non ha non è”, vanno al di là del mero racconto popolare e della musica tradizionale. Parlano del nostro tempo, della nostra società e dell'esistenza tutta. Inquadrano i sentimenti e i comportamenti chiave, buoni o cattivi, che regolano la nostra vita, gli accadimenti base che si ripropongono senza sosta alcuna nella quotidianità, i pensieri e i drammi personali che il singolo individuo sperimenta nella propria carne, innanzi all'incomprensibilità dell'essere e dell'esistenza in generale. È un capolavoro artistico, il cui testo scava negli abissi di ognuno, rivelandone i contenuti nascosti, e la cui musica accompagna malinconicamente tale svelamento, quello cioè degli usi e delle abitudini, pratici e del pensiero, di ciascuno di noi.
Ma è anche, così piace vedere tale brano, uno dei testamenti del grande artista e autore, Mimmo Martino, recentemente e repentinamente scomparso, lasciato a parenti, amici, musicisti a ascoltatori. Occhiu non vidi fa pensare a come il cantore reggino ha condotto la sua vita, facendola combaciare con la sua musica e quella dei Mattanza. Una vita, e una musica, incentrata sulle grandi domande dell'esistenza, scaturenti dall'ermetismo di una società e di una quotidianità, nelle quali a mettersi in evidenza sono sempre i paradossi, e i drammi, che la gente sofferente, povera, disperata e disgraziata è costretta a vivere continuamente, generando in ognuno i sentimenti peggiori provati nei confronti di chi vive le medesime difficoltà; le assurdità e le tragedie che degenerano ogni essere umano, privandolo della capacità di critica, del buon senso, della coscienza e conducendolo a una visione della vita e degli altri storpiata, tetra, illusoria; i controsensi e le sciagure che fanno male e causano ulteriore dolore nei confronti dei propri simili.
Una volta messo a fuoco tale scempio e le balorde reazioni a catena che si sprigionano nell'animo umano, facendolo decadere, ognuno, e qui si nota il punto di vista di Mimmo Martino, dovrebbe arrestarsi un attimo e chiedersi qual è il proprio Destino: proseguire così come è stato finora e continuare a fare come tutti fanno, abbandonandosi alla degenerazione generale, oppure tentare di fare qualcosa di diverso, originare un contro-movimento capace, almeno, di mostrare a quante più persone possibili quanto si è miserabili? Quanta bestialità è insita nella nostra carne ed è pronta a scatenarsi non appena si perde il filo della ragione? Come vivere, avendo chiaro quel che accade tra la gente, e non sapendo cosa fare per contrastare tale incivilimento, barbarie, decadenza.
Mimmo Martino camminava già con il Destino al suo fianco. Sapeva già che cosa doveva fare. E lo faceva.
Raccontava. Cantava alla gente la miseria, umana, intellettuale e sociale, di cui ha riempito la propria quotidianità , nella speranza di vederla cambiare, rinascere, risorgere assieme alla sua amata terra, la Calabria. Narrava a tutti i propri mali e i propri grandi interrogativi, li rendeva coscienti delle psico-patologie che hanno infettato la società e, nel contempo, segretamente, diceva loro di essere il contrario, di voler bene, di amare l'altro, nella fortuna e nella sfortuna.
Non è l'avere a decretare l'essere. Ognuno è, già, indipendentemente da quello che ha (e che non ha), malgrado la società oggigiorno convinca del perfetto opposto.
Occorre essere, andare alla sostanza delle cose, ritrovare con la gente l'armonia e la simpatia perdute, ritrovare se stessi e fare luce agli altri per consentire loro di fare lo stesso, anche se tutto questo comporta notevoli, immensi, infiniti sacrifici.
Non c'è alternativa. Se non si cambia rotta, se non si cambia, è tutto finito, e invece oggi, proprio mentre ci lasciamo condizionare dalla società degenerata e ci abbandoniamo ai peggiori sentimenti che si possano provare verso l'altro, c'è ancora tutto. Non è finita. Siamo ancora in tempo per fare, ed essere, quindi, diversamente.
In Occhiu non vidi, così come in tutti gli altri brani che scritto, cantato e suonato, Mimmo Martino ci lascia in eredità qualcosa in più della sua musica, dei suoi testi, della sua voce. Ci dona il suo punto di vista, la sua prospettiva: la stessa che ha animato la sua vita e che ha comunicato agli altri con la sua musica, e che ora tocca a noi fare nostra.

sabato 24 gennaio 2015

Dalla fretta alla stasi


- di Saso Bellantone
"Nella società liquida, si va di fretta nella speranza di risparmiare del tempo e se ne resta sempre privi. Occorrerebbe, invece, a tal fine, sostare e prendersi tutto il tempo che non si ha. Allora si comprenderebbe che non è il tempo di cui si necessita ma soltanto dell'unicità del proprio essere".

lunedì 12 gennaio 2015

Il pensiero e la bellezza


- di Saso Bellantone
"Una farfalla e un fiore, il pensiero e la bellezza: il pensiero che, nel suo librarsi in volo, non riesce a posarsi sul bello non è tale, è soltanto calcolo".