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venerdì 30 ottobre 2009

HALLOWEEN: L'INVITO A UNA RINASCITA DELLA VITA


- di Saso Bellantone
Il 31 ottobre di ogni anno migliaia, se non milioni, di persone sono solite girovagare travestite da spiriti, streghe e morti per spaventare la gente prima o poi farla sorridere alle parole: "dolcetto o scherzetto?!". È la celebre festa di Halloween e delle zucche a forma di facce grottesche che, per via della diffusione dei mass-media, si considera una festività nativa negli Stati Uniti. Ma è proprio così? Qual è il senso di questa festività? Secondo la tradizione, la festa di Halloween ha origine nei paesi anglosassoni. Si pensa che la sera del 31 ottobre Saman, signore dei morti, evocasse schiere di spiriti maligni e i druidi accendevano nelle città grandi fuochi per respingerli (ancora oggi in Scozia e in Galles si suole accendere grandi fuochi). I celti, invece, consideravano Halloween l’ultimo giorno dell’anno e pensavano che quella notte era possibile conoscere il futuro perché gli spiriti dei defunti facevano visita alle loro case terrene. Dopo la conquista romana della Britannia, Halloween assunse le caratteristiche della festa del raccolto, celebrata il 1° novembre in onore di Pomòna, dea dei frutti degli alberi. Questa festività mantiene le proprie tracce negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove si è soliti fare dei giochi con la frutta o intagliare facce strane nelle zucche e accendervi dentro delle candele. Con l’avvento del cristianesimo, la festa del raccolto è sostituita con quella di Ognissanti, però sembra mantenersi il rinvio all’antica festa del raccolto. Ad esempio, il 1° novembre, nella nostra Bagnara c’è la tradizione del “ninareju o ninareu”, ossia l’usanza di offrire agli anziani frutta o dolci di pasta di mandorle a forma di frutto. Durante le migrazioni nelle Americhe, gli europei importarono nel nuovo mondo le proprie culture ricche di riti, tradizioni e costumi, naturalmente, compresa la festività di Halloween. Tuttavia, alcune ricerche antropologiche hanno evidenziato che presso i nativi del continente americano esistono dei riti molto simili alla festa di Halloween. Gli indiani “pueblos”, per fare un esempio, credono nell’esistenza dei “Katchina”, gli spiriti degli antenati. Sul finire dell’anno, gli indiani sono soliti indossare delle maschere raffiguranti gli spiriti degli antenati che tornano sulla terra, danzano e portano regali ai bambini. Ma i bambini non sanno che quegli spiriti, in realtà, sono i propri genitori. Questo rito ricorda il mito di fondazione dei “pueblos”. Trasferendosi da una terra a un’altra, molti genitori annegarono in un fiume nel tentativo di salvare la vita ai propri figli. Giunti nella nuova terra, memori della tragedia del fiume, i sopravvissuti pensavano che alcuni spiriti venissero a prendere i loro figli per ucciderli, così proposero agli spiriti un accordo: gli adulti li avrebbero commemorati con il rito delle maschere dei Katchina. Perché i bambini non sanno che quegli spiriti, di fatto, sono i propri genitori mascherati? Perché capirebbero che gli spiriti degli antenati sono “loro stessi che rischiano di morire”. Gli adulti hanno creato questo rito per “mascherare la vicinanza dei bambini alla morte” e, in qualche modo, esorcizzarla. Il rito delle maschere dei Katchina ricorda, naturalmente, il famosissimo Babbo Natale. Questa figura, però, ha degli illustri precedenti: “il re dei saturnali” dell’antica Roma, festa delle larve celebrata dal 7 al 24 dicembre in onore di Saturno considerato divoratore di bambini; “Jule Boch” della Scandinavia, il dio del mondo sotterraneo che nel solstizio d’inverno, porta dei doni ai bambini; “San Nicola”, meglio conosciuto col nome di Santa Claus, celebrato il 6 dicembre, che compie cure miracolose e porta regali ai bambini. Le festività di Halloween e di Santa Claus sono strettamente legate. Nonostante le diversità etnico-culturali, questi riti sono praticati, in definitiva, per allontanare la morte dai bambini (e dagli anziani nel caso del “ninareju bagnarese”) e dalla natura. In breve, rappresentano dei riti riguardanti il ciclo dell’anno. Mentre col solstizio d’estate (24 giungo, festa di San Giovanni) si assiste all’accorciamento delle giornate e alla morte della natura, con il solstizio d’inverno (24 dicembre, natività del Sole, in seguito sostituita con la natività del Messia Gesù), invece, si partecipa a un allungamento delle giornate e al superamento della morte, vale a dire a un ritorno alla vita. In questo periodo dell’anno, il sole che dalla “porta dei padri” va verso sud, adesso comincia a dirigere nuovamente verso nord, attraversando la porta degli dèi. Halloween (così come il Natale) è, dunque, un rito relativo al ciclo dell’anno e, in generale, alla periodicità tra morte e vita. É il tentativo rituale di esorcizzare la morte e provocare una rinascita della vita. Come si diceva all’inizio, oggigiorno questa festività continua nella forma del “dolcetto o scherzetto”, ma da qualche anno va in voga la formula di rave-party o di balli in maschera nei quali sono premiati i migliori travestimenti. La festa di Halloween, che si svolge il 31 ottobre di ogni anno, mantiene il suo aspetto tradizionale ma, a un tempo, si sta trasformando. Infatti, se da un lato Halloween continua a essere una festa in cui ci si maschera “fisicamente” per incitare la rinascita della vita, dall’altro lato la moltiplicazione di questa festività per ogni “sabato sera” di cui si compone l’anno, trasforma Halloween in un afterhours o un rave-party dove, anziché invogliare la rinascita della vita, si provoca un eterno ritorno della morte. Ci si riferisce in questo caso alle tragiche stragi del sabato sera, nelle quali ormai migliaia e milioni di giovani si svestono degli abiti studenteschi e lavorativi per travestirsi “mentalmente” in forsennati desiderosi di sesso, droghe, alcolici e alta velocità per sfidare la morte. Il più delle volte, non sono i giovani a vincere questa sfida bensì la morte stessa. Negli ultimi anni, sono stati registrati migliaia di incidenti stradali mortali che, il giorno dopo, trasformano le feste di gioia e letizia dei pub e delle discoteche in funerali. Mi auguro che la festa di Halloween sia ripresa e ri-praticata così come l’abbiamo ereditata dalle nostre tradizioni. In poche parole, nel senso di un invito rivolto alla vita dall’intero genero umano, al fine di evitare i drammi del sabato sera e lo spreco di vita che avviene nelle strade di ogni paese e nazione del pianeta. Per fare questo, è necessario tornare a riflettere sul senso di questa festività sia nel campo dell’istruzione e della formazione sia in quello della politica e della fede. Auspicando serenità, pace e razionalità, auguro a tutti un buon Halloween.

mercoledì 28 ottobre 2009

SHOAH: IL RIDICOLO NEGAZIONISMO


- di Saso Bellantone
Il 22 ottobre 2009, il sindaco Gianni Alemanno sollecita Luigi Frati, rettore dell’Università la Sapienza di Roma, per sospendere il professor Antonio Caracciolo, il quale dichiara che la Shoah è una leggenda. Il professor Caracciolo, ricercatore di Filosofia del diritto della Facoltà di Scienze Politiche, si difende invocando il diritto alla ricerca e scambiando quest’ultimo con il potere di parlare per opera dello Spirito Santo. Quando scoppia il putiferio, il professor Caracciolo, come si dice in questi casi “con la coda di paglia”, continua a difendersi affermando che nel programma previsto per l’A.A. 2009/2010 è previsto lo studio della storia a cavallo delle due guerre, mediante l’analisi di un testo di Carl Schmitt, sostenitore del regime nazista, da lui tradotto. Leggendo quello che gli conviene, il professor Caracciolo non si è mai accorto che il filosofo-politico in questione, Carl Schmitt, non era un sostenitore del regime nazista ma uno dei più spietati critici, da un punto di vista giudirico, del cosiddetto “stato d’eccezione” che negli anni del regime nazista si era realizzato. Basti leggere alcune pagine del celebre “Il nomos della terra” – che Cacciari ha definito “uno dei 3 libri che meritano di essere traghettati nel terzo millennio”, assieme a La stella delle redenzione di Rosenzweig e al Nietzsche di Heidegger – per rendersi conto della dura polemica ad opera di Schmitt nei confronti del regime nazista. Al di là della cattiva preparazione del professor Caracciolo riguardo a Carl Schmitt – giurista chiamato alla creazione della Costituzione dello Stato d’Israele (pensate voi quant’era nazista) – la sua negazione dell’olocausto, avvenuto negli anni della Seconda Guerra Mondiale, dimostra che: o il professore in esame è in malafede per questioni di natura politica; o che non è capace di vedere al di là del proprio naso, nemmeno quando si trova davanti ai documenti storici (Diario di Anne Frank, Se questo è un uomo di Primo Levi per dirne qualcuno) o ai sopravvissuti alla Shoah. Questa miopia o testardaggine del professore, naturalmente, è la stessa che caratterizza tutti coloro che ancora oggi hanno il coraggio di negare uno dei più spietati crimini contro il genere umano, la cosiddetta “Soluzione Finale”. Il rifiuto della Shoah ci mette di fronte al grave problema di cui spesso si discute nelle aule universitarie e nei convegni di studio: la tensione degli uomini a manipolare la storia dell’umanità per il potere. È il celebre problema della “Storia dei vincitori e storia dei vinti”, vale a dire del prospettivismo storico-etnologico, secondo il quale oggi molti studiosi e ricercatori svolgono una revisione della storia delle civiltà umane per meglio comprenderla nei suoi momenti salienti. Tuttavia, come accade per il professor Caracciolo, alterare la storia dell’umanità per mera brama di potere personale o per provocare sommovimenti politico-culturali, utili per affermare il potere di una corrente rispetto a un’altra, dimostra che tutti quanti perdiamo sempre più il buon senso e la nostra identità. La storia è quel terreno carico d’informazioni e d’esperienza al quale è possibile rivolgersi per evitare di compiere gli errori passati e per rendersi conto che ogni civiltà (presente e passata) fa parte di un comune destino. In questo senso, le più gravi sciagure compiute nel passato sono quei mattoni che servono per costruire solidamente il nostro domani. Cancellare o dimenticare questi disastri, come nel caso della Shoah, significa annientare a priori il futuro di un’unica comunità: ossia, dell’umanità. Per questa ragione, l’atteggiamento di chi ha la stessa posizione del professore Caracciolo, non può che essere che disapprovato.

giovedì 22 ottobre 2009

FINE O REVISIONE DELL'ORA DI RELIGIONE?


- di Saso Bellantone
Di fronte alla crescita degli immigrati nel nostro paese, il viceministro allo Sviluppo Economico, il finiano Adolfo Urso, propone, per le scuole pubbliche e private italiane, l’insegnamento di un’ora di religione islamica alternativa a quella cattolica…e scoppia il putiferio. Fini e D’Alema approvano la proposta; Calderoli, Cota e Maroni la bocciano; la Chiesa, ovviamente, si schiera a favore del cardinale Bagnasco il quale, appellandosi al Concordato, definisce l’insegnamento della religione cattolica “parte integrante della nostra storia e della nostra cultura”.
È importante tenere a mente che siamo ormai nel nuovo millennio e che stiamo scrivendo le pagine di una nuova epoca dell’umanità, al grido della “diplomazia, dialogo, globalizzazione, diritti, pace”. In questo scenario, da un lato, la chiusura di buona parte della politica italiana nei confronti della proposta-Urso evidenzia quanto siamo bigotti e barbagianni. Dall’altro, il fondamentalismo cattolico che si ispira al cardinale Bagnasco, dimostra che siamo ancora troppo radicati nel passato e che affrontiamo l’avvenire in modo conservativo piuttosto che progressista.
Tutto questo fa rilucere, al di là delle apparenze e del falso profetismo propagandistico, la strettezza culturale che caratterizza la nostra politica; l’ignoranza e la mansuetudine delle masse che vanno dietro agli ecclesiastici; il paradossale atteggiamento dei ministri di dio nei confronti dell’unico comandamento cui da millenni si ispirano, introdotto dal Messia Gesù, celebrato dagli evangelisti e dallo stesso Paolo di Tarso: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Personalmente, credo che nella nuova era sia assurdo continuare a porsi il problema dell’ora di religione nelle scuole, sia cattolica, islamica, ebraica, buddista, taoista, are krishna, indiana o di qualsiasi altro tipo. L’educazione e la formazione scolastica dei giovani è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la fede. Viceversa, la convinzione religiosa, nonché la sua pratica e il suo studio, è una scelta che ognuno compie individualmente e razionalmente, a meno che non la si erediti dai propri genitori.
L’intromissione dell’elemento religioso nelle scuole, come dimostra la storia, non è altro che un escamotage utile ad opera dei gestori delle religioni per fare proseliti e assicurarsi non solo la sussistenza, ma anche autorità, rispetto, considerazione negli affari politici e diplomatici dei paesi che abitano questo pianeta. Per questa ragione, le scuole dovrebbero essere prive di qualsiasi ora di religione e di qualsiasi segno d’appartenenza cultuale, sia il crocifisso, il burka, la mezza luna, la stella di david, il kippà, i dipinti indiani, i piccoli buddha ecc.
Il credo di una persona, in particolar modo di un giovane, è qualcosa che si decide nel proprio intimo o, al massimo, all’interno dei propri nuclei familiari. Anche le strade, le piazze, insomma qualsiasi spazio sociale dev’essere inteso come un luogo dove vigono le regole e gli ordinamenti giuridici che ogni singolo Stato si dà per il quieto vivere. Lo spazio della fede resta soltanto la propria intimità e i luoghi adibiti per svolgere i culti: chiese, monasteri, moschee, pagode, templi e così via.
In questo senso, una delle ragioni del calo dei cosiddetti “praticanti”, ossia i fedeli e i giovani, cattolici in particolare, che vanno a messa, è proprio il fatto che la religione cattolica è svolta nelle scuole e considerata una disciplina pari alle altre. Se lo studio di questa fede si svolgesse direttamente nelle chiese, negli oratori ecc. e non a scuola, forse assisteremmo a una crescita di praticanti.
I genitori dovrebbero essere i primi a sostenere e a realizzare l’idea di una scuola “religiosamente neutrale”, vale a dire di uno spazio, indipendente dalla fede, nel quale ciò che và coltivato, difeso e studiato è la storia e l’evoluzione dei popoli e di tutte le rispettive produzioni artistiche, letterarie, scientifiche e chi più ne ha più ne metta. Al limite, se proprio non si può fare a meno di considerare la religione una disciplina scolastica, sarebbe opportuno, dal momento che le religioni sono produzioni dello spirito umano, considerare l’ora di religione come uno spazio d’informazione, comprensione e dialogo. Questo significa che gli studenti italiani dovrebbero “studiare” davvero le religioni dei compagni provenienti da altre nazioni e, viceversa, quest’ultimi dovrebbero studiare la religione cattolica.
La fine dell’ora di religione esclusivamente cattolica o la sua reinterpretazione come momento di confronto tra popoli che, coi propri giovani, mirano alla costruzione di una grande società multiculturale e multietcnica, è una delle sfide decisive che caratterizzano il nostro tempo. Si tratta di educare i giovani, e con questi gli adulti, a considerare lo spazio pubblico un luogo nel quale si vive secondo le regole di ogni Stato (liberal-democratiche possibilmente); le scuole e le università una zona neutrale nella quale si coltiva il passato dell’umanità e si perfezionano i saperi, le scienze, le arti e le tecniche; la vita e la pace fra i popoli strettamente dipendenti dal rispetto di ogni singola persona, a prescindere dal credo che pratica.

venerdì 16 ottobre 2009

PONTE SULLO STRETTO: L'ULTIMA COSA CHE OCCORE AL SUD


- di Saso Bellantone
Quando si è duri d’orecchio, c’è poco da dire o da fare. Da anni il mito del ponte sullo stretto, il Titano che collegherà l’isola al continente spalancando le proprie braccia, ci perseguita come la morte. Così come quest’ultima prima o poi arriva, allo stesso modo l’ora in cui il mito diviene realtà sembra avvicinarsi.

A dicembre/gennaio – dice il presidente del Consiglio – partiranno i lavori per la costruzione dell’opera faraonica che rilancerà l’economia e il turismo italiano nel mondo. Ma l’Italia, e in particolare in Sud, ha davvero bisogno del ponte?
Da tempo i figli di questa terra ricca di storia, cultura, risorse e volontà, ma priva di infrastrutture, fabbriche, aziende e lavoro, alzano in coro la voce nella speranza di essere ascoltati, ma i monologhi di chi abita la suite dello Stato italiano ridondano imponenti, sovrastando, paradossalmente, quell’insieme di voci che, di contro, appaiono come un bisbiglio.
Perché il ponte? Chi lo vuole? Qual è la sua utilità? Quale è il senso di questa fatica dell’uomo, paragonabile a quella del semidio Eracle, quando la legge del pianeta dimostra che nulla di quanto l’uomo costruisce è eterno.
Le testimonianze di questa regola, scritta nelle intramontabili pagine della nostra memoria con inchiostro rosso-sangue, sono tutte quelle catastrofi – escluso le tragedie provocate dall’uomo, come le guerre e le armi di distruzioni di massa – che stravolgono il volto urbano delle nostre città, provocando centinaia o migliaia di morti: alluvioni, terremoti, tzunami, glaciazioni, eruzioni vulcaniche, cicloni ecc.
Di fronte a questa fatalità cui tutto ciò che fiorisce sulla superficie terrestre è soggetto, sembra assurdo captare quei monologhi che risuonano il comando “Sia il ponte sullo stretto!”, quasi simile agli imperativi divini presenti nel Genesi biblico. Che può farsene di un’opera transitoria come il ponte una terra carica di ferite come il Sud e bisognosa di un altro genere di rimedi? Realizzare il ponte sullo stretto per rilanciare il Meridione e l’Italia intera è lo stesso che prescrivere un’ingessatura immediata del piede per chi, invece, ha anche un’emorragia interna. Bisogna prima curare l’emorragia e poi ingessare. Stesso dicasi per la Calabria e la Sicilia. Ma qual è la fuoriuscita di sangue di queste regioni? Di cosa hanno realmente bisogno?
In breve: di lavoro. In questo senso, il ponte sullo stretto non rappresenterebbe un’occasione utile per creare migliaia di posti di lavoro? Certamente, ma spesso la disperazione che aleggia nelle nostre terre rende ciechi ed egoisti riguardo all’utilità lavorativa del ponte. L’edificazione del Titano è un’occupazione temporanea che richiede sì centinaia o migliaia di operai ma soltanto per un numero preciso di anni, trascorsi i quali, vale a dire ultimati i lavori, si torna punto e a capo. In altri termini, la maggior parte degli impiegati si ritroverà di nuovo a spasso.
“Ma almeno li si è tolti dalla strada e dal malaffare, consentendogli l’opportunità di crearsi una famiglia e un futuro?” – obietteranno molti. Senza dubbio. Ma a costoro gli si chiede: e poi? Li pensioniamo? Li mandiamo a casa? E come si sfameranno? Che dire, invece, di tutti gli altri che non avranno l’opportunità di far parte della squadra chiamata a realizzare il ponte? Li lasciamo a zonzo, come facile preda della malavita? “Gli altri si arrangiano: quando poi i lavori saranno completati, beh, chi lo dice che ancora sarò vivo. Fatti loro!” – rispondono tanti. Questo è puro egoismo, non è lo spirito col quale si prende parte al bene comune. A costoro gli si domanda: siete sicuri che andrete proprio voi a lavorare al ponte? E se non fosse così?
Bisogna trovare la forza per vincere lo smarrimento e l’amor proprio e affrontare la questione del “lavoro” al ponte con estrema lucidità. Se il lavoro è la nostra chiave di lettura relativa alla costruzione del ponte, allora il lavoro sia la chiave di violino per armonizzare i nostri propositi e la nostra volontà con l’effettivo fabbisogno della Calabria e della Sicilia, dei nostri giovani e del nostro avvenire. Chi comanda la messa in opera del ponte, dovrebbe bloccare un attimo i propri imponenti soliloqui, almeno per ascoltare il sussurro che la gente del Sud, insieme, gli propone, al fine di rilanciare l’economia e il turismo nazionali. Di che cosa ha bisogno il Mezzogiorno?
Il Meridione ha bisogno di un potenziamento e perfezionamento delle strade, delle ferrovie, dei porti, degli aeroporti, degli acquedotti, delle dighe, delle centrali elettriche, dei depuratori idrici, delle terre agricole e degli allevamenti, delle aziende e delle imprese, della sicurezza e nettezza urbana e extraurbana, delle risorse turistiche, dei trasporti, dei musei, delle gallerie d’arte, dei cinema, delle scuole e delle università, delle istituzioni. Urge della creazione di nuove industrie agricole, alimentari, siderurgiche, chimiche, tessili e della moda, farmaceutiche e sanitarie, meccaniche, energetiche, edili, telematiche, tecnologiche, artistiche, turistiche. Necessita di nuovi centri commerciali, della produzione, promozione ed esportazione dei prodotti tipici, di nuovi centri di studio e di ricerca, nuovi ospedali, case di cura, centri sportivi e di benessere, piscine, alberghi, hotel, biblioteche, teatri, parchi acquatici, ludici o zoologici. Ha bisogno di maggiori finanziamenti e investimenti, di sicurezza nelle case, nelle strade, nelle scuole e negli ospedali, di una nuova grande rete di servizi, primo fra tutti quello dell’igiene e della sanità cittadina, di tante altre cose e interventi che vengono in mente a tutti coloro che leggono queste righe. In una parola, il Sud ha bisogno di speranza.
La pianificazione e la concretizzazione di tutto questo, rappresenterebbe il giusto intervento sul diroccato presente che abbiamo innanzi agli occhi e la saggia preparazione del futuro di queste terre e dei suoi giovani, perché produrrebbe tanto di quel lavoro da consentire alla maggior parte dei disoccupati e dei disperati di lavorare, di edificare da sé il proprio destino, quello della comunità italiana e dei propri figli. In poche parole, si darebbe a tutti l’opportunità di rendersi utili per il rilancio economico, sociale, culturale, turistico, industriale e chi più ne ha più ne metta, non solo del Meridione, ma dell’intero Paese.
Di fronte al triste scenario che vediamo ogni giorno, che c’induce a diventare egoisti e parassiti e a pensare che niente cambierà mai, la costruzione del ponte è l’ultimo problema. Se s’intervenisse là dove occorre, allora la realizzazione del ponte rappresenterebbe la ciliegina sulla torta della rinascita del Meridione e dell’Italia nel mondo.
Per questa ragione, è necessario riflettere sul serio sulla questione, evitando mode culturali e schieramenti politici. Per cambiare il nostro Sud bisogna prima abbandonare le proprie avare ambizioni, la chiusura in se stessi e l’ignoranza e cominciare a sentirsi parte dello stesso Sud che si vuole rilanciare. Solo in questo modo possiamo trasformare il nostro sussurro in un ruggito carico di forza, coraggio e speranza per le generazioni a venire. Solo così possiamo attirare l’attenzione del Premier, ma bisogna farlo subito.

giovedì 15 ottobre 2009

TRACHINIE di SOFOCLE

- di Saso Bellantone
Protagonista di Trachinie non è il forte Eracle – che non appare mai direttamente sulla scena fuorché sul finale – bensì Deianira, il figlio Illo, i messaggeri, i servitori, le schiave, tutti coloro che sono deboli, oppressi, impotenti dinnanzi alla forza di Eracle. Assumendo il punto di vista di quest’ultimi, Sofocle mostra che vuol dire vivere all’ombra di grandi eroi-padri come Eracle, metà uomo/metà dio, a sua volta impotente riguardo all’oscuro vaticinio che lo segue inesorabilmente ovunque, segnandone il destino.
La scena si apre a Trachis, in Tessaglia, davanti alla casa di Ceice che ospita Eracle e la moglie Deianira. L’incipit è un detto antico pronunciato da Denianira, che mette in risalto l’argomento della tragedia: «di nessuno tra i mortali potrai conoscere / se sia vissuto nella felicità o nella sciagura / prima della sua morte» (p. 137).
Sofocle affronta la questione felicità/infelicità rapportandola al binomio vita/morte. In altre parole, si pone il problema della qualità della vita, affermando che il criterio per valutarla è la “fine della vita” stessa. Non è possibile sapere se un mortale è vissuto felicemente o infelicemente, prima che la sua vita è giunta al termine. Per quale ragione? A causa della vita stessa. Nella propria essenza, la vita non è fissa, stabile, immobile; finché resta tale, la vita non si ferma, non si blocca, non conosce battuta d’arresto. É movimento, mutamento, trasformazione continua. L’unico avvenimento che può arginare, trattenere, contenere la sua metamorfosi assidua è la morte.
La morte infatti sigilla, chiude, pone termine alla vita, cioè dà un’immediata scadenza al suo movimento, dà un limite alla sua ininterrotta trasformazione, la obbliga a divenire diversa da sé, ad alterarsi entro un confine preciso; la morte le impone qui e ora la sospensione di ogni cambiamento, la costringe all’immobilità, alla fissità, alla staticità. Quando avviene, la morte finisce la vita, la interrompe, la blocca, taglia tutti i legami e i nessi che consentono alla vita di cambiarsi costantemente. Non le concede il tempo di decidere quale ultima trasformazione effettuare. La morte decide per la vita, la afferra in un istante, alla sprovvista, la serra saldamente senza concederle alcuna via di fuga. Infatti, quando c’è la morte, la vita è finita, ha dei limiti precisi, dei margini che la vita non può più valicare perché non può muoversi più. Solo nella morte, la vita acquisisce un volto, dei lineamenti precisi e, attraverso di essi, un senso.
Ecco perché Sofocle pensa che è la morte a stabilire la qualità della vita, vale a dire il suo senso. Solo dopo che l’uomo non vive più è possibile precisare come egli sia vissuto. Solo quando il mortale è divenuto ciò per cui è nato – un morto appunto – e ha realizzato il tratto distintivo del proprio essere – la morte – è possibile sapere se la sua è stata una vita felice o meno.
Qual è il mondo nel quale Sofocle afferma che la morte è il metro della qualità della vita? Quello greco, retto dagli dèi olimpici, dei quali gli umani sono figli, creature. Un universo dai colori cupi nel quale la vita degli uomini è in balia di oracoli e dèi, e quella delle donne, dei figli, degli schiavi, dei servitori tutti dipende dalle scelte e dalle azioni degli eroi-padri. Tutti, però, sono prigionieri nella stessa rete di un’esistenza infima, infelice, priva di libertà. Trachinie è la tragedia dove tutte le visioni, le interpretazioni, le concezioni possibili intorno all’esistenza umana vengono ridotte al livello più semplice, sintetizzabili nella domanda: la vita è dominata dalla felicità o dall’infelicità? Solo la morte concede ai vivi di rispondere sui morti. Ma per chi sopravvive è un amaro compito stabilire come sono vissuti i defunti, così come arduo è vivere nel ricordo di coloro la cui vita hanno giudicato.
Nonostante l’antico detto appena pronunciato, Deianira, avvolta dal tempo dell’attesa, guarda alla propria vita e fluttua tra i ricordi di disperazione, tristezza e angoscia che finora l’hanno caratterizzata. Non ha mai potuto decidere da sé la propria vita. Il padre la promise prima al fiume Acheloo e lei aveva desiderato la morte piuttosto che giacere con una divinità metamorfica; poi, liberata da Eracle, fu data in sposa a questi. Fu un colpo di fulmine. All’inizio, Deianira temette di non essere abbastanza bella per il semidio; in seguito, comprese che nemmeno allora aveva imboccato la strada per la felicità, perché Eracle – eternamente impegnato ad affrontare le proprie fatiche – è sempre lontano da casa, dai figli, ma soprattutto da lei.
A questa vita di travaglio, di preoccupazione, dominata dal tempo dell’attesa e della speranza nel ritorno incolume del proprio sposo; a questa vita di prigionia all’interno delle mura di una casa vuota, schiava dei propri doveri di madre, ma privata dell’amore del proprio sposo che non c’è mai, se non per fecondarla e ripartire subito alla volta di un’altra fatica, si aggiunge per Deianira il tormento del presente scaturito da un gesto mai compiuto prima dal marito. Prima di partire per l’ennesima fatica, «come chi fosse già morto» (ibid.), Eracle le lascia una tavoletta indicante la quota di spartizione delle terre tra lei e i figli, da eseguire se non fosse tornato a casa entro quindici mesi. Perché stavolta Eracle le consegna la tavoletta? La nutrice consiglia Denianira di mandare il figlio Illo in cerca del padre, il quale la informa che si trova in Eubea per combattere contro la città di Eurito. La madre, però, insiste che il figlio avda alla ricerca di Eracle: perché? Cosa spaventa a tal punto Deianira?
Un oracolo svolto dalle sacerdotesse di Dodona, nell’Epiro, aveva rivelato che in quella terra avrebbe trovato la morte oppure la liberazione da tutte le proprie fatiche. In questo modo compare uno dei elementi che più caratterizzano e determinano il mondo eroico greco: l’oracolo, il vaticinio, la previsione degli eventi futuri. Assieme al detto antico con cui si apre l’opera, l’oracolo è l’altro fattore essenziale attorno al quale si svolgono i fili della tragedia.
In passato, Eracle era riuscito a tornare vittorioso da ogni battaglia, ma stavolta incombe su di lui un oscuro presagio, una profezia che lo segue inevitabilmente e che nell’animo di Deianira, paradossalmente, pesa più dell’infelicità del proprio passato. Deianira sa infatti che agli oracoli nessuno può sfuggire: l’oracolo aveva predetto la morte o la liberazione dell’eroe dalle fatiche; poiché i quindici mesi d’attesa per la spartizione degli averi, come recita la tavoletta, sono quasi scaduti ed Eracle non ha ancora fatto ritorno presso casa, Deianira teme che il marito abbia incontrato la propria fine nella sua ultima impresa, come aveva predetto l’oracolo. Per questa ragione manda il figlio Illo alla ricerca del padre.
Il coro, provato dal dolore della donna, cerca d’infonderle speranza, affermando ambiguamente che «il re figlio di Crono / che governa ogni cosa / non assegnò nulla ai mortali / che non recasse dolore. / Ruotano, intorno a tutti, pena e felicità, / come i tragitti circolari dell’Orsa» (pp. 140-141). Contro la vaporosità delle parole del coro, vi è la pesantezza della tavoletta che Deianira ha nelle mani, segno ammonitore dell’antico vaticinio, presente e assente nel contempo e tuttavia incalzante.
Quando l’ombra sembra ormai dimorare nell’animo della donna, ecco giungere un messaggero: questi informa Deianira che Eracle è di ritorno ma tarda perché nel preparare le offerte votive a Zeus sulle coste dell’Eubea, gli abitanti di Trachis lo tempestano di domande. Tutto sembrava perduto ma all’improvviso si riaccende la speranza: nell’altra faccia della profezia, la speranza è la liberazione di Eracle dalle proprie fatiche. Per Deianira questo significa vivere finalmente in pace col proprio marito e sposo, ossia vivere felice.
Mentre esclamazioni di gioia riempiono la casa e la speranza della felicità sembra realizzarsi, ecco giungere il segno vero e proprio del ritorno del marito: Lica, messaggero di Eracle, si avvicina assieme a un corteo di donne e spiega a Deianira i motivi del ritardo del suo signore. Il marito, per volere di Zeus, era stato venduto come schiavo a Onfale, regina barbara, perché aveva ucciso Ifito, figlio di Eurito, per vendicarsi degli insulti del padre; dopo un anno al servizio di Onfale, Eracle era riuscito a liberarsi e aveva raso al suolo la città di Ecalia, dalla quale provengono le donne al seguito di Lica.
Pensando forse al proprio travagliato passato, privo della libertà di scelta, Denianira prega Zeus che una sorte come quella delle schiave mandatele in dono da Eracle non affligga i suoi figli. Ma a un tratto, la sua attenzione è attratta da una donna che sembra di stirpe nobile e allora chiede a Lica di svelargli l’identità di quella. Il messaggero, però, finge di non sapere chi sia e la donna lascia che tutti entrino in casa. Subito, un altro messaggero interviene, comunicandole che Lica l’ha imbrogliata: quella donna dalle sembianze nobili, le rivela, è Iole, il vero motivo per cui Eracle ha ucciso Eurito ed ha rasato al suolo la città di Ecalia. Eracle l’aveva chiesta al padre come concubina ma, poiché gliela negò, invaghito da Afrodite, l’aveva presa con la forza.
È un momento decisivo: proprio ora che Deianira comincia a immaginare la fine dei propri tormenti e ad assaporare un po’ di felicità, ecco che le rivelazioni del messaggero gettano la donna nello sconforto di una tremenda verità: il marito ama un’altra donna. È come se il mondo crollasse addosso a Deianira: tutto sembra finito, svuotato di ogni senso. Che senso ha la sua vita priva della libertà di scelta, costretta alla schiavitù e all’oppressione? Che senso hanno tutti i suoi sacrifici, la sua prigionia in una casa quasi sempre vuota, i suoi doveri di madre, ora che il suo uomo non l’ama più?
Chiede a Lica il motivo delle sue menzogne e il messaggero le risponde che non gliel’ha ordinato Eracle, ma l’ha fatto spontaneamente per evitare di affliggerle il cuore. Lica la scongiura di trattarla con gentilezza perché «colui che ha sempre trionfato con la forza delle sue braccia / è stato sconfitto dalla passione per costei, completamente» (p. 151). Per evitare di attirarsi qualche sciagura degli dèi, Denianira lo rassicura che farà come lui dice e lo invita a entrare in casa per consegnargli i doni da inviare a suo marito. Disperata, Deianira decide di giocare l’ultima carta disponibile per garantirsi l’amore di Eracle: decide di usare il dono che il centauro Nesso le aveva fatto prima di morire a causa della freccia avvelenata scagliata da Eracle, che aveva intinto nel sangue dell’Idra di Lerna. Il centauro le aveva detto di raccogliere il suo sangue dal punto della ferita inferta dalla freccia, in modo da ottenerne un filtro capace di fare innamorare Eracle di lei più di ogni altra donna.
Preparato il filtro d’amore, Deianira consegna a Lica la tunica imbevuta del sangue del centauro, spiegandogli che questo era il voto che aveva fatto agli dèi se avesse visto tornare a casa il marito sano e salvo; in più, lo avverte affinché nessuno la indossi prima di Eracle, né che alcun raggio di sole, recinto sacro o fuoco la veda prima che lui l’abbia vestita.
Appena Lica si avvia, Deianira è scossa da un brivido per ciò che ha visto: il fiocco di lana con cui ha intinto la tunica per il marito – gettato in terra alla luce del sole – si è corroso e di esso è rimasto solo un mucchio di cenere schiumante. Tremenda è la luce della verità: il centauro Nesso l’ha raggirata. Non era un filtro d’amore ma un veleno col quale ha avvelenato colui che ha sempre amato e atteso.
Deianira riprende a straziarsi, ormai persa nel labirinto in cui la ragione diviene follia. Ritorna il figlio Illo che l’accusa del misfatto e le narra la sofferenza e la follia di Eracle, provocati dal veleno. Le parole del figlio frantumano ulteriormente lo spirito della donna in preda al dolore, cancellando ogni minima traccia d’identità, ogni ricordo, ogni altra persona, ogni pensiero fuorché uno: la morte. Ritiratasi nelle stanze della casa, in uno stato di completa assenza, piange, abbraccia l’altare, tocca gli oggetti familiari; poi, totalmente in delirio, si reca nella stanza di Eracle, si denuda, si sdraia sul letto nuziale e si toglie la vita con un colpo di pugnale nel fianco.
Forse vittima della disperazione per il mancato amore del marito – ma sicuramente marionetta innocente nelle mani del centauro Nesso che si è assicurato la vendetta con l’inganno – Deianira vive l’attimo più atroce della propria infelice esistenza: con l’unica scelta che ha preso in tutto la sua vita, si scopre a un tempo artefice della morte dell’amato e della propria sventurata fine. Perciò Sofocle afferma: «folle chi fa conto su due o più giorni: / non esiste domani, prima che sia finito bene il giorno d’oggi» (p. 164).
Addolorato dalle atroci sventure accadute a Eracle e Deianira, il coro descrive l’arrivo di Illo presso il padre, per comunicargli la morte della madre e la verità dei fatti. Un vecchio lo scongiura di non svegliarlo per non sentire di nuovo i suoi lamenti provocati dal veleno che lo sta uccidendo, ma Eracle si sveglia e riprende a delirare, a urlare, a chiedere l’aiuto degli dèi prima e ad offenderli con bestemmie dopo. Non sopporta di morire così, non per colpo di spada ma per via di una donna, e chiede al figlio che lo uccida, lo prega di consegnargli Deianira per ucciderla, inconsapevole ch’ella è già dipartita.
Illo allora gli svela la verità ed Eracle comprende che è veramente giunta la propria fine: Zeus infatti aveva predetto che nessun mortale avrebbe potuto ucciderlo fuorché qualcuno che dimori già nell’oltretomba. Eracle dunque si ritrova legato a una profezia antecedente quella di Dodona, che però compie quest’ultima: in questo giorno sarebbe stato liberato dalle proprie fatiche – come voleva l’oracolo di Dodona – perché sarebbe morto a causa di un mortale che dimora già nell’oltretomba, ovvero il centauro Nesso – come voleva l’oracolo dei Selli.
Eracle fa giurare al figlio due promesse davanti agli dèi: di portarlo nella vetta più alta dell’Eta e di bruciarlo su di una pira, senza versare alcuna lacrima; di sposare Iole. Per far felice il padre e mostrarsi devoto e rispettoso nei suoi riguardi, Illo giura di adempiere alle proprie promesse e anche lui, come la madre, si ritrova condannato a un’esistenza priva di scelta, oppresso dal volere del forte Eracle, schiavo del proprio sangue.
La tragedia si conclude svelando l’antico detto iniziale. Non c’è felicità per coloro che abitano il mondo greco – o forse l’universo in generale – ritrovandosi schiavi di oracoli, dèi e del sangue degli eroi-padri. Ma nelle parole di Illo si scorge soprattutto il profondo rammarico dell’uomo nei confronti degli dèi, artefici di tutto ciò, creatori degli uomini e indifferenti alle loro sofferenze, di cui invece gli dèi stessi dovrebbero vergognarsi: «nessuno vede il domani; ma l’adesso / per noi è strazio, per loro vergogna. / Ed è pena ancora più atroce / per chi, tra tutti gli umani, subisce questa cieca rovina» (pp. 173-174).
Queste parole, così antiche eppur così attuali, sottolineano l’assenza di speranza nell’uomo in un cambiamento, la sua vanità. Condannato a un’esistenza retta dal tempo del dolore impenetrabile e ingiustificabile, l’uomo di oggi, con le parole di Sofocle, considera il tempo cronologico come un ‘tempo della vergogna e della colpa degli déi’, creatori di un mondo colmo solo di avvenimenti atroci: «nulla, in tutto questo, che non sia Zeus» (ibid.). Per quanto la speranza sia l’ultimo di tutti i mali, l’uomo però non può farne a meno. La questione è decidere su che cosa sperare, quando non si può farlo verso un “chi”.
La devozione di Illo nei confronti di Eracle rappresenta simbolicamente la venerazione delle vecchie generazioni ad opera delle nuove, dei padri ad opera dei figli, delle tradizioni ad opera dei giovani. Dal momento che il mondo è dolore e che gli usi, i costumi, le tradizioni, le leggi passate causano maggiore sofferenza, i giovani decidono di smettere di adorarle, rispettarle, riverirle. È il momento di crearne delle nuove capaci di rendere la vita di ognuno felice. Questo è il compito delle fresche generazioni. Tuttavia, chiusi i rapporti con il passato, restano intrappolati in un limbo, frutto della barbarie dell’informazione e del falso sapere.
Per edificare un nuovo domani, è necessario l’impossibile. Ma questo è tale finché nessuno tenta di renderlo il suo contrario. Possibile, infatti, è una parola che ha a che fare con la speranza. La formazione delle nuove leve del domani deve vertere su questo. Tradotto in termini profani, la parola speranza mira alla felicità. Se vivremo con questo ideale, ossia la costruzione di un mondo più felice, un giorno coloro che ci giudicheranno, quando noi saremo morti, diranno: “Hanno vissuto infelici, ma erano felici nel farlo”.

lunedì 12 ottobre 2009

LAPIDI BIANCHE: LE VITTIME DELLA SOCIETà DI MASSA E DELLA MORALE IMMORALE

- di Saso Bellantone
BONO (Sassari, 1985): 15enne si suicida perché bocciato in terza media.
ROMA (1999): 16enne si uccide per aver preso “uno” in matematica.
LACCO AMENO (Ischia, 2007): 14enne si toglie la vita per via delle minacce e degli atti di bullismo subiti dai suoi stessi compagni.
AGRIGENTO (2007): minorenne si suicida perché è transessuale.
CARMELA (2008): 13 anni, si uccide dopo lo stupro subito da un branco di minorenni.
ABRAHAM (Florida, 2008): 19 anni, si toglie la vita con un cocktail tossico davanti a 1.500 persone collegate a un sito di condivisione video. Lui dice: “Ho deluso tutti e sento che non migliorerò mai. Amo una ragazza e so che non sono alla sua altezza”. Gli spettatori lo incoraggiano e solo dopo ore si accorgono che non respirava più.
ROMA (2008): minorenne registra un video-testamento nel quale afferma “La vita mi fa schifo” e si spara in bocca con la pistola del padre.
POTENZA (maggio 2009): minorenne si toglie la vita per amore.
TORRE DEL GRECO (Napoli, ottobre 2009): minorenne comunica nel proprio profilo di Facebook l’intenzione di uccidersi e s’impicca nella propria camera.
DUE MINORENNI, una Serba e un Rumeno, organizzano il proprio suicidio via web, ma la polizia assieme all’Interpol riesce a salvarli in tempo.
Questa è solo una breve lista di tutti quei minorenni che, a volte per motivi banali ai nostri occhi, altre volte per drammi esistenziali mai compresi, si sono tolti la vita. Non c’è dubbio che si tratti di bianche vittime di una società di massa, ormai priva di raziocinio, buon senso, giustizia, speranza, amore, comprensione, uguaglianza, dialogo, priva dei valori umani, fuorché di quelli economici, politici, sessuali e malavitosi.
Viviamo in un mondo dove quel che vale è aver successo, potere, ricchezza, amanti, in breve dove ha valore soltanto quello di stile di vita che molti amano definire “vincente”. Tutti puntiamo all’apice della piramide sociale, tutti vendiamo l’anima al primo diavolo che ci passa accanto (droghe, sesso, celebrità, politica, racket, truffe, giochi d’azzardo, violenza ecc.) e in questo modo, cedendo dinanzi al sogno di un’esistenza facile e sicura, contribuiamo a distruggere la vita non tanto del prossimo in genere, ma di coloro che sono più indifesi: gli adolescenti.
Ogni volta che un giovane si toglie la vita – e sottolineo un ragazzino di una/due decine d’anni – personalmente, mi sento sconfitto nel profondo del mio essere. È questo – mi chiedo – l’esito ultimo degli altissimi discorsi in cui ci dilettiamo in ogni campo? È questa la meta delle nostre leggi, codici etico-deontologici, mode, sport, media, scuole, arte, letteratura, discipline scientifiche, hobbies? È questo l’obiettivo che, ognuno di noi, vuole sortire nei più giovani con il proprio barbaro e triste esempio di vita sociale?
Non so quali parole possano essere trovate o cercate per commentare ciascuna di quelle disgrazie sopra elencate e non, a parte queste: sappiamo bene di chi è la colpa. Siamo noi, volenti o nolenti, i veri artefici di quelle sventure. Con l’ipocrisia, l’arroganza, l’avidità e la vigliaccheria che caratterizzano la nostra quotidianità, noi spingiamo le uniche risorse che possediamo per cambiare in meglio questo mondo, a sbattere le porte in faccia alla vita in un istante.
Mi auguro che tutti trovino il tempo – o il coraggio, dipende dalla prospettiva – per farsi un esame di coscienza e rendersi conto di quanto veramente costino le proprie scelte egoistiche, di quale caro prezzo abbiano effettivamente quei costumi e quelle idee, delle quali ci invasiamo ogni giorno, al fine di dimostrarci i migliori – o i più potenti, più ricchi, più famosi – della città, dello Stato, del pianeta.
Guardate bene dentro il vostro animo nero, quando vi ritroverete innanzi ai feretri e alle lapidi bianche che ammontano nei nostri cimiteri: guardandole, capirete che là è impressa la firma di ognuno di noi, nessuno escluso. Per questa ragione, è necessario farsi carico di un comune-obiettivo: prendere le giuste misure affinché nel tempo scemino sempre più le parole qui rivolte alle giovani vittime che noi stessi, con il nostro singolare contributo, abbiamo mandato all’altro mondo, migliorando e perfezionando questa barbara società da parassiti: “Buonanotte, bianche speranze del domani”.