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mercoledì 30 giugno 2010

SAN PIETRO Vs SAN PAOLO: LO SCONTRO TRA LE COLONNE DELLA CRISTIANITA'

- di Saso Bellantone
La tradizione iconoclastica è solita rappresentare assieme due figure della cristianità che, di fatto, nella vita insieme non furono quasi mai: Pietro e Paolo. Chi erano?
Originario forse di Betsaida, in Galilea, Pietro, inizialmente Simone, era un ignorante e faceva il pescatore a Cafarnao. Non era fortunato come pescatore. Infatti, gettava la rete sempre nello stesso punto del lago e la tirava fuori sempre vuota. Aveva moglie e figli e in questo modo non poteva proprio campare. Un giorno mentre pescava assieme al fratello Andrea, incontrò Gesù e questi gli cambiò la vita. Notando che Simone gettava la rete sempre nel medesimo luogo, Gesù gli disse “Prendi il largo e calate le reti per la pesca” (Lc 5,4) ma Simone era testardo e ci volle un bel po’ per convincerlo. D’altronde, qualcuno provi oggi a insegnare a un pescatore come deve pescare! Se gli va bene, scappa a gambe levate con qualche livido! Evitati i tafferugli, Simone fece come Gesù gli diceva e tirò fuori le reti piene di pesci. La tradizione ricorda questo avvenimento nel senso di una “pesca miracolosa”: il miracolo, se davvero avvenne, fu da un lato che i due non litigarono; dall’altro lato, che finalmente Simone poté sfamare la sua famiglia. Dopo quell’evento, Gesù disse a Simone e al fratello Andrea di seguirlo, in quanto li avrebbe trasformati in pescatori di uomini. I due, forse, fraintesero il termine “uomini” con “abili, pesci, grandi” o qualche altra tipologia di pesce del luogo, insomma nomi che in ebraico o aramaico forse si somigliano, e lo seguirono. Da allora, Simone divenne Cefa “Pietro”, chiave di volta della Chiesa (in ebraico “assemblea”) di Gesù e possessore delle chiavi del Paradiso. Pietro fu uno dei principali seguaci di Gesù: visse e viaggiò assieme a lui; assistette ai suoi miracoli, alla sua passione, morte e resurrezione; partecipò alla Pentecoste; lo rinnegò tre volte per paura di fare la stessa fine e, salvatosi, divenne un pilastro della nuova setta ebraica – fino al 365 d.C. la religione cristiana non esiste – assieme a Giacomo, fratello di Gesù, e Giovanni il più giovane degli apostoli. Visse a Gerusalemme, fece alcuni viaggi evangelici a Corinto, in Asia Minore e a Roma, dove svergognò Simone Mago – un tizio che si diceva figlio di Dio e capace di compiere prodigi – e dove morì poco dopo, al tempo di Nerone, crocifisso a testa in giù perché si reputava indegno di morire come al maestro Gesù. Di Pietro, il Nuovo Testamento riconosce una Prima e una Seconda Lettera ma sono pervenute altre fonti “apocrife”, cioè non-riconosciute, quali Il vangelo di Pietro, gli Atti, la Lettera a Filippo, la Lettera a Giacomo il Minore, l’Apocalisse di Pietro. I suoi resti sono conservati sotto la Basilica di San Pietro in Vaticano a Roma.

Nato a Tarso, in Cilicia, Paolo, all’inizio Saulo, era figlio di un mercante di tessuti, discendente della tribù di Beniamino, ed era un dotto conoscitore della lingua e della cultura greca, che aveva anche la cittadinanza romana. A Tarso iniziò la sua formazione farisaica, che portò a compimento a Gerusalemme, presso il noto maestro Gamaliele. Divenuto un fariseo (in ebraico “separato”), Saulo divenne un duro persecutore dei seguaci di Gesù di Nazareth: partecipò ad esempio all’arresto e all’uccisione di Stefano, primo martire della cristianità. Un giorno Saulo chiese al sommo sacerdote di potersi recare a Damasco per arrestare i seguaci di Gesù. Sulla via di Damasco, secondo la tradizione, Saulo fu accecato da una luce dal cielo e cadde da cavallo ma di fatto non si sa se batté la testa o ebbe una crisi epilettica. Fatto sta che udì una voce che diceva “Saulo Saulo perché mi perseguiti?” (Atti 9,4) e da allora continuò a sentire voci per tutta la vita. Si ritirò per tre anni in Arabia e quando tornò, cambiato il nome da Saulo in “Paolo”, cominciò ad annunciare l’evangelo di Dio, in qualità di apostolo. Paolo non conobbe mai personalmente Gesù, dunque non poté assistere ai suoi miracoli, alla passione morte e resurrezione; non partecipò alla Pentecoste. Viaggiò in lungo e in largo per annunciare l’evangelo e anziché rifiutare quel che diceva preferiva fuggire aiutato dai fedeli. Fu un instancabile predicatore e si spinse fino in Asia Minore, Siria, Cilicia, Galazia, Misia, Tracia, Samotracia, Tessalonica, Corinto, Atene, Efeso, Macedonia, Acaia, Filippi, Rodi, Licia, Fenicia, Tolemaide e, passando per Reggio, persino a Roma, per incontrare l’imperatore, appellato per via del proprio arresto, in qualità di cittadino romano. Giunto a Roma, Paolo vi trascorse due anni dove, secondo la tradizione, morì decapitato durante la persecuzione di Nerone, ad Aquae Salviae, nel 67 d.C. Di Paolo, il Nuovo Testamento riporta 14 Lettere ma ne riconosce 13, esclusa quella agli Ebrei. Tra gli apocrifi vanno ricordati gli Atti di Paolo e Tecla, la Lettera agli Alessandrini, la Lettera ai Laodicesi, la Lettera dei Corinti a Paolo, l’Apocalisse di Paolo copta, l’Apocalisse di Paolo greca, le Lettere di Paolo e Seneca, gli Atti di Pietro e Paolo, la Legenda Aurea, il Capitolo 29 degli Atti degli Apostoli. I resti si trovano sotto la Chiesa di San Paolo a Roma ma questo è da dimostrare.

Gli apostoli Pietro e Paolo non vissero quasi mai assieme. Dopo la morte e resurrezione di Gesù, Pietro si stabilì a Gerusalemme, dove visse in segreto capeggiando la comunità di fedeli assieme a Giacomo e Giovanni; Paolo era un persecutore che si convertì qualche anno dopo sulla via di Damasco. Che cosa accadde tra i due, quando Paolo tornò dall’Arabia? Basta leggere la Lettera ai Galati.
Chiamato da Dio per annunziare il Suo evangelo, Paolo sente la necessità di vedersi riconoscere il proprio operato e la propria autorità dai fratelli di Gerusalemme – i capi della nuova setta che in seguito prenderà il nome di cristianesimo – testimoni della passione, della morte e della resurrezione di Gesù, mentre Paolo può giustificarsi esclusivamente con la chiamata di Damasco. Dopo 15 giorni di discussione, Pietro, Giacomo e Giovanni lo accettano.
Dopo 14 anni di viaggi e predicazioni, Paolo torna a Gerusalemme “per timore di correre o aver corso a vuoto” (Gal 2,2). Mentre Pietro e gli altri, infatti, si attengono alle pratiche ebraiche in materia di culto, Paolo è un rivoluzionario: in particolare, i primi praticano ancora la circoncisione e la considerano l’unico strumento di accesso alla fede in Gesù; Paolo, invece, pensa se ne possa fare a meno e predica di effettuare una “circoncisione del cuore”, vale a dire il battesimo con l’acqua, superiore alla circoncisione carnale perché quest’ultimo si svolge nello spirito. Trovato nuovamente un accordo – Pietro evangelizzerà gli ebrei (circoncisi), Paolo i gentili (non circoncisi) – ufficializzato da una stretta di mano, Paolo torna alla propria opera di predicazione, con la clausola che “dovevamo ricordarci dei poveri, e fui sollecitato a farlo” (Gal 2,10). In altre parole, i fratelli di Gerusalemme riconoscono l’operato di Paolo a patto che questi invii loro le collette raccolte durante l’evangelizzazione. “Ma quando Cefa venne ad Antiochia, lo contestai in faccia, poiché si era esposto a un’accusa” (Gal 2,11).
Successivamente al Concilio di Gerusalemme, il secondo, si svolge ad Antiochia un fatto importante. Paolo e Pietro mangiano nello stesso tavolo in presenza di non circoncisi – spezzano il pane e rendono grazie – ma quando arrivano alcuni inviati di Giacomo – il capo della nuova setta in quanto fratello di Gesù – Pietro si alza e cambia di posto, sedendo con i circoncisi, timoroso di essere visto a tavola con i non circoncisi. Di fronte a questo gesto, come si dice da queste parti, Paolo non vede più dagli occhi perché si rende conto che quel fatto rappresenta il non riconoscimento della sua autorità, del suo operato, del suo evangelo. Per questo motivo, “contesta in faccia” Pietro e, molto probabilmente, tra tavoli e sedie che volano all’aria, le due colonne della cristianità arrivano alle mani. Da allora, diversamente da quando si riporta negli Atti – una biografia romanzata di Pietro e Paolo, risalente al II sec. d.C., mentre le Lettere di Paolo sono state scritte tutte tra il 50 e il 60 d.C. – i due non si rivolsero più la parola né s’incontrarono più, fuorché idealmente nel martirio e nella morte. Malgrado ciò, la tradizione iconoclastica li raffigura sempre insieme e oggi si continua a festeggiarli assieme il 29 giugno di ogni anno.

giovedì 24 giugno 2010

IL PROBLEMA DI ALADINO di Ernst Jünger







- di Saso Bellantone
Quando si scopre di aver contratto una malattia e si riesce a definirne la causa, tutto acquista un senso e ci si fa una ragione di essa, anche del dolore e della sofferenza provati: «ma è proprio quando sotto non c’è niente che il problema diventa più inquietante» (p. 10). Ne Il problema di Aladino Jünger impiega la figura di Aladino come una metafora per definire il problema dei problemi dell’uomo contemporaneo: il potere.
La questione del potere è strettamente legata a quella del nichilismo. Ponendosi il problema del nichilismo si affronta a un tempo il problema del potere. L’uno richiama l’altro e viceversa. Il nichilismo stabilisce in modo definitivo l’assenza di valori, di verità, di scopi nell’esistenza. In una parola, di Dio. Quando si assume questa prospettiva d’interpretazione dell’ente in generale, quel che resta è il potere. Se Dio è morto, come spiegare il potere? Qual è la sua origine? Qual è il suo scopo? Perché l’uomo è affetto da questa malattia e non riesce a liberarsene?
Jünger non indaga questo dilemma con la gabbia concettuale della filosofia bensì con le creatrici e sconfinate lande della letteratura. Questo enigma, secondo Jünger, non è un’illusione dei filosofi ma una realtà che coinvolge l’uomo concreto, una patologia che condanna l’uomo a vivere un’esistenza spettrale, nella quale in ogni attimo desidera ottenere maggiore potere dell’attimo precedente. Nel tempo della morte di Dio, l’uomo è affetto da questa malattia: sfrutta ogni occasione, anche quelle apparentemente nefaste, per soddisfare il proprio bisogno di potere. Questa necessità non conosce confini né meta ultima e trasforma l’esistenza umana in un eterno ritorno dell’uguale, in un meccanismo di accumulazione continua di un di più di vita, utile per ottenere maggiore potere, che procede in modo automatico e illimitato.
All’ombra del nichilismo, pur ottenendo e desiderando maggiore potere, ci si ritrova paradossalmente sempre più vuoti, mancanti di qualcosa, insoddisfatti, disperati, soli, insensati. C’è infatti un’altra malattia di cui l’uomo è affetto, antica quanto quella del potere: la malattia della verità. L’uomo ha bisogno di risposte, di certezze, di scopi, di valori e di verità universali. Nel tempo della morte di Dio, però, l’uomo non può più soddisfare questo bisogno, così come faceva un tempo: il nichilismo sbarra la strada a ogni risposta. In questo modo, la stessa vita diviene problematica, diventa una tortura terrificante nella quale la ragione rasenta la follia. Da un lato, si è corrotti dalla malattia del potere, nella quale ci si sente continuamente in crisi d’astinenza; dall’altro lato, ci si sente avvolti nel nulla e si finisce per dubitare dell’esistenza in generale. L’uomo non può vivere in questo modo, deve decidere il da farsi «ma non dev’essere alla maniera di Aladino […]. In gioco è la scelta tra potere interiore e esteriore, spirituale e reale, in una parola: la salvezza» (pp. 116-117).
Friedrich Baroh, il protagonista de Il problema di Aladino, tenta di risolvere questo problema mediante un’indagine retrospettiva della propria vita. Analizza se stesso, la propria storia, quella della propria famiglia, della società cui appartiene, del mondo. Non tralascia niente: descrive a se stesso le proprie caratteristiche fisiche, estetiche, religiose, sociali, etiche, razionali, oniriche, consuetudinarie, emozionali, accademiche e via dicendo; si racconta la propria carriera militare, gli incontri, l’amore con Bertha, gli studi, la carriera lavorativa nell’agenzia di pompe funebri Pietas, che poi diventa la grande società Terrestra.
Friedrich riesce a definire la propria patologia – il potere – ma a causa del nichilismo che domina il cosmo non è in grado di guarire, di curarsi da solo. Il potere è lo stesso problema di Aladino: mentre questi lo usa per vivere una vita felice, l’uomo contemporaneo non è capace di imitare Aladino. È schiavo del potere, lo utilizza per ottenere altro potere e così procede all’infinito, fino alla propria rovina. E qui entra in scena il mistico senza sacro, una dimensione dello spirito, priva di Dio.
All’apice del turbamento fisico e mentale, provocato dalla malattia del potere, Friedrich trova sulla propria scrivania una lettera illogicamente indirizzata alla sua persona. È di Phares, uno sconosciuto che risiede all’Albergo dell’Aquila, vicino alla grande necropoli della Terra, in Anatolia, capace di contenere i morti di tutte le popolazioni terrestri, di proprietà di Friedrich. Come entrato in un’altra dimensione, in un mondo parallelo dove né il potere né il nichilismo costituiscono un problema, Friedrich lascia in sospeso il lavoro e si reca all’indirizzo del mittente: «era un mattino di primavera, e senza motivo ero lieto – placato» (p. 126).






sabato 19 giugno 2010

ANESTESIA TOTALE INCURABILE


- di Saso Bellantone
"Esistono molti modi per anestetizzare l'uomo: uno di questi è il sapere manualistico. Chi si reputa sapiente in questo senso, merita l'ergastolo".

domenica 6 giugno 2010

IL LUPO DELLA STEPPA di Herman Hesse

- di Saso Bellantone
Soltanto i pazzi sono capaci di penetrare ne Il lupo della steppa di Herman Hesse. Soltanto la pazzia è in grado di percorrere, senza sprofondarvi, le lande dell’esistenza che si allargano inesorabilmente ed esclusivamente nella dimensione del paradosso, senza stelle fisse. La storia dell’intellettuale Harry Haller è un viaggio nel pensiero che si snoda attraverso varie dicotomie – ad esempio vita/morte, verità/illusione, sapere/piacere, mondo/aldilà – le quali si riassumono in un’unica domanda: in che modo è preferibile vivere? Da uomo o da lupo? L’uomo è l’essere della complessità, della ragione, della vita contemplativa, della paura, della temporalità, dell’impotenza, della negazione della vita; il lupo è l’essere della semplicità, degli istinti, della vita attiva, del coraggio, dell’immediatezza, della potenza, dell’affermazione della vita. L’incapacità di rispondere a questo interrogativo spinge Harry al suicidio ma tre avvenimenti assurdi, legati l’uno all’altro, ne sospendono la messa in opera: la locandina dell’ingresso di un teatro con su scritto “Teatro magico. Ingresso libero non per tutti. Soltanto per pazzi”; l’incontro di uno sconosciuto che gli dà un libricino dal titolo “Il lupo della steppa”; l’incontro di Erminia. Questi tre avvenimenti segnano le tappe essenziali del processo di liberazione di Harry da se stesso e dalle proprie domande intorno alla tipologia di vita da assumere per sopravvivere all’insensatezza dell’essere – uomo o lupo. Il teatro magico è la metafora dell’esistenza: il mondo – e l’inspiegabile che lo caratterizza (la magia) – trova giustificazione soltanto nell’ “essere-in-scena”, nel suo puro accadere e manifestarsi in modo apparentemente privo di senso. Innanzi a questa fredda irrazionalità del mondo, a questa mancanza assoluta di senso, l’unico gesto razionale e ragionevole che l’uomo può compiere è quello di sospendere le domande, la logica e la ragione tradizionali: in breve, è divenire folle allo stesso modo del mondo. In questa prospettiva, non serve a nulla chiedersi, come fa Harry, se è meglio vivere come un uomo (civilmente) o come un lupo (naturalmente). Bisogna vivere così come accade. L’incontro fortuito della locandina del teatro, il disorientamento che ne provoca la lettura e l’incapacità di Harry di entrare nel teatro, rappresentano le reazioni di chi è abituato a interpretare il mondo secondo la logica e le categorie tradizionali, quali senso, scopo, verità, giustizia, bene, valore e via dicendo. Non ci si può avvicinare alla prospettiva dell’irrazionalità del mondo ragionando tradizionalmente, bisogna cambiare modo di pensare e diventare altro da sé. In questo senso, l’incontro casuale dello sconosciuto che lascia a Harry il libricino “Il lupo della steppa”, rappresenta la necessità di focalizzare la propria identità passata prima di poter assumerne una nuova. Ma affinché avvenga la metamorfosi, è necessario anche sperimentare ciò che è sconosciuto. Che cosa è sconosciuto all’uomo votato abitudinariamente al sapere, alla logica e alla categorie tradizionali? Qualcosa che, col passare degli anni, finisce con l’essere misconosciuto, dimenticato: la fanciullezza. L’infanzia è quella fase della vita nella quale si è innocenti, si vive nel piacere dei sensi e nell’amore, desiderosi di scoprire e di sperimentare la vita in tutte le sue sfaccettature. L’incontro di Erminia è appunto quel lato di sé che l’Harry intellettuale aveva dimenticato e che adesso appare come qualcosa di nuovo: il fanciullo, l’innocenza e il piacere della vita. Riscoprendo questo modo di stare al mondo, Harry è ancora troppo legato al proprio lato intellettuale e non riesce a capire che proprio il fanciullo è l’alternativa alle tipologie di vita dell’uomo e del lupo, un modo di vivere capace di garantirgli la sopravvivenza in un’esistenza dominata dall’irrazionalità. Convincendosi che il fanciullo è per un cinquantenne soltanto un modo per ricordare il passato, Harry decide di liberarsene e di tornare all’intellettuale: solo in questo momento riesce a entrare nel teatro magico. Focalizzata la propria identità passata e la nuova – di fatto, quella fanciullesca – Harry compie nel teatro magico una serie di sogni lucidi coi quali esperisce l’insensatezza dell’esistenza. Ancorandosi però alle proprie convinzioni – difficilmente l’intellettuale opera una metamorfosi del pensiero – Harry non capisce che l’unico modo per affrontare l’illogicità dell’esistenza non è la serietà dell’uomo moderno bensì il riso e il piacere del fanciullo. Ridere in faccia a ogni domanda e gettarsi nel flusso della vita, che scorre inesorabilmente, gustandone tutti i piaceri, è la sospensione di ogni interrogativo, è la vita che si manifesta non più illogica bensì nella propria innocenza. Estranei alla struttura delle cose, il riso e il piacere sono un’avaria dell’esistenza, due elementi irrazionali nell’irrazionalità stessa della vita, dell’essere. Innanzi al nichilismo e alla tecnicizzazione del reale che caratterizzano la modernità e che fanno infettare l’uomo della malattia della volontà, il rifiuto della vita, Hesse pensa che il riso e il piacere sono gli unici mezzi per corrispondere all’innocenza dell’essere e per innamorarsi nuovamente della vita. Se si diviene consapevoli che il cosmo è privo di logica, valori, verità, allora a che serve il sapere? Perché dargli tutta questa importanza? D’altronde, il riso abbonda nella bocca degli stolti.