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giovedì 31 dicembre 2009

BUON 2010

- di Saso Bellantone
Quel che ci sta attorno, cosmo o uni(pluri)verso, c'è indipendentemente da noi. Quando però lo trasliamo nel regno del linguaggio e dei sensi, spesso lo storpiamo, la nascondiamo, lo alteriamo. Viviamo, noi terrestri, in un mondo di convenzioni, nel quale molto spesso perdiamo noi stessi e il mondo non-convenzionale. Tra queste convenzioni, vi è anche quella del ciclo dell'anno, della fine e dell'inizio di esso. Non sappiamo se la vita del cosmo proceda davvero in modo ciclico o in modo uni(pluri)direzionale. Per saperlo una volte per tutte, dovremmo essere al di fuori del mondo, come dice Wittgenstein; ma questo non è possibile. Di fronte a questa domanda irrisolta, preferiamo concepire tutto secondo il criterio della ciclità e della ricorrenza. Se adottassimo il criterio dell'unidirezionalità, il passato sarebbe un fardello troppo pesante per noi: non potremmo liberarcene mai. Interpretando ogni cosa tramite il criterio della ciclità, noi c'illudiamo di ripercorrere il passato, per affrontarlo e per liberarcene. Per riuscire nel nostro intento, l'importante non è soltanto credere di poterlo di fare, bensì cominciare a tirar fuori tutta la volontà necessaria per farlo. Quando c'è di mezzo la volontà - e un pizzico di fortuna (altra menzogna) che non guasta mai - anche quel che denominiamo "convenzione" o "illusione" diviene realtà. Ma non c'è volontà senza passato e senza quest'ultimo non può esserci nessun futuro. La liberazione dal passato è transustanziare tutto ciò che lo struttura in qualcos'altro: nel futuro. Si tratta di trasformare la vita e le esperienze passate in altra via e altre esperienze, diverse dalle precedenti, nuove. Nonostane anche tutto ciò è una convenzione, spero che l'inizio del 2010 sia per tutti i lettori l'inaugurazione di un lungo di cammino di trasformazione, dove il passato diviene futuro, il vecchio diviene nuovo, la convenzione tocca e si fonde con la realtà.

sabato 26 dicembre 2009

QUALE DONO, OGGI, E' VERAMENTE POSSIBILE?

- di Saso Bellantone
La crisi del dono e della pratica del donare evidenziano la mancanza di significato nella quale aleggiamo. Se procedere in questo modo verso il futuro è, come direbbe Walter Benjamin, la catastrofe, volgere lo sguardo indietro, invece, è la salvezza. In questa prospettiva, riscoprire il senso che altre civiltà hanno attribuito (o attribuiscono) al dono e alla pratica del donare – come ad esempio si è fatto negli articoli precedenti – vuol dire generare un contro-movimento alla secolarizzazione e alla crisi dei fondamenti, ma anche alla tipologia di vita fredda, accelerata, abitudinaria e calcolante che (s)qualifica il nostro presente. In altre parole, significa osservare se stessi, gli altri e la società nella quale viviamo da un altro punto di vista, capace di offrire i mezzi per combattere la catastrofe e puntare alla salvezza. Grandi studiosi come Jacques Godbout o Alain Caillé hanno sottolineato che tra i tanti aspetti che accomunano le antiche civiltà con quelle attuali vi è anche la pratica del donare. Il tempo, le epoche, le civiltà stesse passano e si trasformano, ma la pratica del dono sembra resistere. Si pensi al Natale, alle varie cerimonie religiose e cultuale, ai battesimi, cresime, matrimoni, funerali, compleanni, sagre, feste in generale; ma anche agli alcolisti anonimi, al dono del sangue e di organi, ai servizi, al volontariato, alle opere d’arte ecc. Tuttavia, usando i principali tratti che caratterizzano il dono – ossia la gratuità, l’obbligazione, l’utilità per la vita, la capacità di fare comunità – come lenti d’ingrandimento utili per esaminare la nostra attuale pratica del dono e attitudine al donare, ci si rende conto che nulla, di fatto, corrisponde a ciò che denominiamo con la parola “dono”. In altri termini, il dono così come lo pratichiamo e concepiamo non è gratuito, non è un’obbligazione, non è utile per la vita, non fa comunità. Così come lo pratichiamo e immaginiamo oggi, il dono non è gratuito ma interessato: si tratta di fare bella figura, di acquisire fama e prestigio, di ricevere in cambio favori di vario genere, considerazione, rispetto, altri doni in cambio. Il dono non è obbligante ma un consuetudinario dovere da ricambiare, ossia una vuota e metodica abitudine da attuare, per garantirsi tutto quello poco prima elencato. Non è qualcosa di utile per la vita ma il più delle volte è qualcosa di inutile, un gingillo da esporre in casa, in ufficio, in macchina o nella propria persona per acquisire e mantenere ciò che è elencato sopra. Non fa comunità piuttosto la distrugge, è la scossa tellurica che separa gli amici, i parenti, gli amanti, i cittadini, i terrestri, perché quel che vi è in ballo è tutto quello (e altro ancora) che è sopra riportato. In alcuni casi, il dono si mostra come ciò che uccide fisicamente – si pensi al dono di alcolici, stupefacenti, scooter, automobili iper-veloci e così via – o uccide mentalmente – qualsiasi dono che, staccato da un preciso contesto sano, genuino, ben pensante e, in taluni casi, di fortuna, diviene una gabbia dalla quale non si è capaci più di uscire. Se a tutto questo si aggiunge il fatto che la pratica del dono alimenta di nuova linfa vitale il sistema economico che, negli ultimi mesi, tanto ci fa dannare, allora si capisce che nella nostra società è veramente difficile riconoscere un dono e una pratica del donare i cui talenti siano la gratuità, l’obbligazione, l’utilità per la vita e il fare comunità. In questo scenario, ha ragione il filosofo Jacques Derrida per il quale “il dono è l’impossibile”. In breve, se il dono è qualcosa che non ha quei talenti ma è sempre interessato ed è il motore dell’economia allora affinché ci sia “veramente” dono non deve esserci chi dona né il dono stesso né chi riceve. in poche parole, non deve accadere nemmeno la pratica del donare. Ogni qualvolta appare l’intenzione di donare, il dono cade nella logica dell’interesse e dell’economia. Per questa ragione, non dovrebbe esistere neanche la parola “dono” perché pensandola così come siamo abituati a concepirla, attiviamo già la logica dell’interesse e dell’economia. È questa logica, infatti, che si cela dietro la secolarizzazione e la crisi di fondamenti che ci conducono alla catastrofe. Se non è possibile tornare indietro e ri-cominciare a intendere il dono come ciò che è gratuito, obbligante, utile per la vita e capace di fare comunità, allora l’unica salvezza consiste nella dimenticanza della parola “dono”, della sua pratica (ormai abituale) e, in questa modo, della logica dell’interesse e dell’economia che si cela in esso. Se tutto quel che si può donare, alla fine, appartiene a questa logica, allora è necessario iniziare a “dare” quel che non si può: in altre parole, se tutto ciò che è oggettivabile rientra in quella logica e conduce alla catastrofe (personale e totale), allora il contro-movimento ha origina in tutto ciò che oggettivabile non è. E che cosa più del tempo non può essere oggettivato? Non s’intende il tempo che misuriamo con gli orologi ma quello che si nasconde tra un movimento e l’altro delle lancette degli orologi stessi. In questo tempo “nascosto”, che non misura la quantità ma la qualità, si nasconde la parte più inquietante (e forse più vera) di ognuno di noi. Concludo questa serie di pensieri sul dono, lasciandovi alcune domande: che cosa avviene quando – davanti all’albero di natale, al presepe, in casa o per le strade, al mare o in montagna, in ospedale o nei cimiteri, insomma in qualsiasi luogo – “passiamo il tempo” con le persone che amiamo, coi genitori, i nonni, i parenti, gli amici, i conoscenti, i bisognosi, gli ammalati, i reietti, gli animali, i paesaggi, con la memoria dei defunti, di vecchi ricordi ecc.? Che accade – in noi, attorno a noi e negli latri – quando “passiamo il tempo” in uno di questi modi? Chi scopriamo? Il mondo? La vita? Noi stessi? dio? O tutti insieme? Ciascuno risponda a modo proprio…

sabato 19 dicembre 2009

Auschwitz: rubare la memoria è un crimine contro il genere umano

- di Saso Bellantone
La notizia del furto della scritta in ferro posta all’ingresso dell’ex campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau (Polonia) ha fatto il giro del mondo. La polizia apre un’inchiesta e offre un premio di 5000 zloty (1250 euro) per chi ritroverà la scritta. Tralasciando gli ulteriori particolari relativi alla vicenda – rintracciabili nelle testate giornalistiche, nei quotidiani e nei siti internet di tutto il mondo – sembra il caso di soffermarsi a riflettere e porsi alcune domande: con tutte le gioiellerie, le banche, gli uffici postali, i palazzi e le ville lussuose appartenenti a capitalisti stra-milionari ecc. nonché con tutte le rare e, per questo, costose opere d’arte presenti nei musei di tutto il mondo, perché rubare il cartello contenente la scritta Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi)? Che genere di valore economico è possibile dare a questa testimonianza dello scempio svolto dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale? Quale ricchezza è possibile trarne? E poi, chi oserebbe acquistare un simile oggetto, il cui valore umano s’inscrive nella storia e nella memoria non solo del popolo ebraico – vittima delle empietà contro il genere umano compiute dai nazisti – ma di tutte le civiltà terrestri, coinvolte e non in quegli anni di guerra, di assurdità e di estrema miseria della ragione? Se è da stupidi pensare di poter trarre qualche profitto da un cartello simile, è rabbioso immaginare che c’è qualcuno pronto a pagare un’immensa somma per possederlo. Eppure, sicuramente c’è qualcuno pronto a questo. Perché? Lo scopo non è di collocare questo cartello in mezzo ad altre rarità dell’arte, dell’ingegno, della storia umani presenti nella propria collezione. Piuttosto, si tratta di privare l’umanità di una delle testimonianze che, come dice la stessa parola, provano con certezza che la Shoah è avvenuta, che il regime nazista ne è stato l’artefice, che il popolo ebraico ne è stato il martire. Da anni, infatti, circolano delle correnti – cui fanno parte filosofi, scienziati e studiosi di ogni disciplina nonché uomini comuni – le quali, non si riesce a capirne il motivo, negano l’esistenza dei campi di sterminio, la Shoah e quasi si battono per santificare tutti gli appartenenti al nazismo. È chiaro che il furto del cartello “Il lavoro rende liberi” rientra nel progetto, ad opera di sconosciuti, di rimuovere la memoria storica non solo dalle persone ma anche dai luoghi nei quali viviamo che, come nel presente caso, “ricordano” la tragedia della Shoah. Se questa è la verità, allora a noi non spetta altro che batterci in senso opposto: ricordare quello che è accaduto, le milioni di vittime, la follia nella quale troppo facilmente possiamo cadere quando, nel delirio della nostra pesante e nera quotidianità, incontriamo un’idea, come quella di razza superiore. La condanna di questo furto non può essere che ovvia; la vergogna e la rabbia altrettanto scontati; la speranza, nel dolore del passato, di non incorrere mai più in una scelleratezza del genere è invece la sfida cui questo furto ci chiama nuovamente.

venerdì 18 dicembre 2009

ANCORA SUL DONO: EMILE BENVENISTE E MARCEL MAUSS

- di Saso Bellantone
Di fronte allo scadere della ritualità del dono in una pratica abitudinaria e vuota di significato, evidenziata nell’articolo “Il Natale: riflessioni ironiche sulla ritualità del dono”, nell’articolo successivo – dal titolo “Alla riscoperta del dono: il mito di Prometeo e la natività cristiana” – si è intrapreso un percorso utile per riscoprire quali sono quei tratti principali che arricchiscono di senso la pratica del dono: la gratuità, l’utilità per la vita, la capacità di fare comunità. L’idea della gratuità del dono si mantiene nella nostra tradizione, per fare un esempio, mediante la parabola del buon samaritano (Lc 10, 29-37): diversamente dal sacerdote e dal levita, il samaritano vede l’uomo spogliato, percosso e lasciato mezzo morto dai briganti, si avvicina a lui, gli fascia le ferite, lo porta a una locanda, si prende cura di lui, paga di tasca propria l’albergatore e gli dice: «Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno» (Lc 10, 35). Compie tutto questo senza alcun interesse, in modo assolutamente gratuito. Se da un lato questa parabola testimonia la permanenza nella nostra tradizione dell’idea della gratuità del dono, dall’altro lato bisogna chiedersi: perché quando si riceve un dono, ci si sente obbligati a ricambiare? Da dove nasce la sensazione di dovere in qualche modo contraccambiare il dono ricevuto? Ma allora, in questa prospettiva, il dono sarebbe un’obbligazione? Che ne è della gratuità del dono se lo si ritiene un dovere, un debito, un impegno? Ritenerlo tale, non significa, forse, considerare il dono qualcosa che non è gratuito? Nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee (1969), svolgendo un’indagine linguistica, Emile Benveniste scopre che, nonostante la radice della parola dono nella nostra cultura è “do” e significa “dare”, esiste un’altra radice parallela alla prima, di provenienza hittita, che suona “dà” e che significa “prendere”, non dare. Benveniste sostiene che la radice “dà” non vuol dire né dare né prendere bensì “afferrare”. Interpretandola in questo modo, la radice hittita evidenzia che, nell’atto di donare qualcosa a qualcun altro (dunque nel dare ad altri) questi “prende”, “afferra” qualcosa dal primo. Che cos’è questo qualcosa che si “prende”, si “afferra”? Semplicemente il dono che è dato dall’offerente? Oppure un dovere, un debito, un impegno, un’obbligazione a contraccambiare? Proseguendo la propria indagine, Benveniste si accorge che, nel tempo, la parola “dono” ha subito un declino. Mentre in greco ci sono ben cinque parole per dire questo termine, in latino ve ne sono due e in italiano soltanto una. • Greco: dos, dono in generale; dosis, l’atto del donare; dorea, l’insieme dei doni; doron, il dono gratuito; dotine, il dono obbligato. • Latino: donom, il dono gratuito; munus, il dono obbligato. • Italiano: dono, il dono gratuito e il dono obbligato. Che cos’è questo “dono obbligato”? Com’è possibile che esistano due tipologie di dono? Benveniste trae spunto per le proprie ricerche dal Saggio sul dono (1925) di Marcel Mauss. In quest’opera, utilizzando le ricerche etnografiche condotte da Franz Boas e Bronislaw Malinowski presso le popolazioni della Melanesia e della Polinesia, in particolare del rituale del potlach e del Kula ring, l’antropologo francese tenta di risalire all’origine dell’economico. Mentre la tradizione considera il baratto la più antica forma di scambio, Mauss si accorge che le civiltà analizzate svolgono degli scambi somiglianti di più alla pratica del “dono”. Queste popolazioni vivono secondo una precisa modalità, che Mauss denomina“sistema delle prestazioni totali”, nella quale lo scambio di doni ha un ruolo decisivo. Se di prim’acchito questi scambi sembrano avvenire liberamente, Mauss scopre che a ben vedere accadono secondo un’invisibile costrizione cui tutti sono soggetti (o cui si liberamente assoggettano). Questa comune e immateriale obbligazione a scambiare (donare) beni con altri, secondo Mauss, si snoda attraverso tre momenti fondamentali: tutti sono obbligati a dare; ricevere; ricambiare. In questo modo, si crea un’infinita catena di circolazione dei beni, la quale non fa altro che rafforzare il legame sociale. In questo senso, chi non dona o si rifiuta di ricevere un dono o non contraccambia, mette in pericolo il proprio legame con chi ha donato qualcosa a lui e, in questo modo, con l’intera comunità cui appartiene. Dalla solidarietà si passa all’ostilità. Lo scambio di doni, praticato nelle forme del potlach o del Kula ring, non avviene sempre ma in alcuni momenti principali della vita di queste popolazioni: nascita, maturità, nozze, funerali ecc. In queste occasioni, i capi tribù indossano le maschere degli antenati e si scambiano di tutto. Il contraccambio non può avvenire immediatamente, bensì nel tempo e con l’obbligo di restituire “un di più” rispetto al dono ricevuto dall’altro, perché ne va della faccia, cioè dell’autorità e del prestigio sociale. Per questa ragione, gli scambi divengono delle guerre simboliche e spesso si giunge all’estremo e paradossale gesto di dono, vale a dire alla distruzione di tutti i beni, per dimostrare che la propria forza e potenza è tale da permettere anche un gesto simile. Queste pratiche sottolineano che lo scopo di un bene qualsiasi non è di essere capitalizzato, accumulato o economizzato bensì di circolare, di muoversi all’infinito di persona in persona, al fine di “fare comunità”. A prova di ciò, questi popoli producono degli oggetti di forma circolare (che oggi diremmo di bigiotteria) quali bracciali di conchiglia e collane di madreperla, il cui scopo, appunto, è di “muoversi in circolo” gli uni in senso orario, gli altri in senso antiorario. Se il mito di Prometeo e la natività cristiana, come abbiamo visto nel precedente articolo, mettono in risalto che il dono è sempre “gratuito”, le indagini di Mauss presso le popolazioni della Melanesia e della Polinesia ricalcano, invece, che il dono è sempre “obbligato” perché in esso ne va, oltre che della propria faccia, della comunità. La parola latina munus usata per dire il dono obbligato – il cui corrispettivo greco è dotine – è a fondamento della parola comunità: communitas. Munus, proveniente dalla radice indoeuropea mei che significa “dare il cambio”, indica una carica pubblica, una funzione di prestigio, un obbligo attribuito a una persona all’interno di una specifica comunità. Chi riceve il munus è obbligato a restituire alla comunità che lo ha rivestito di questa carica: doni, privilegi, cariche minori, spettacoli ecc. In questo senso, la parola communitas non significa “un insieme di beni” bensì “un insieme di soggetti legati da un sistema di obblighi”. Immunis – termine opposto a communis – è quel soggetto che non si riconosce obbligato, un dis-obbligato, il cui senso è simile a ingratus. Il munus, dunque, è un Giano bifronte perché da un lato indica la capacità di assumere un obbligo, dall’altro il dovere di adempierlo. La duplicità di senso che caratterizza il munus ci conduce a un’altra parola presente nella nostra tradizione per indicare il dono obbligato (o reciproco): daps (banchetto religioso, festa sacra), il cui corrispettivo greco è dapane (spesa). Dalla parola daps proviene damnum (danno). Un’altra parola presente nella nostra tradizione è gift, che in inglese significa “dono” ma in tedesco e in olandese può significare anche “veleno”. Nelle popolazioni anglo-sassoni, infatti, il dono per eccellenza è “il dono da bevanda” che, nel caso di eccesso, può provocare danni, avvelenare. In questa prospettiva, il dono sembra avvicinarsi alla parola greca pharmakon, descritta da Platone nel duplice significato di “rimedio e veleno”. Come risolvere allora la questione del dono? È soltanto gratuito o soltanto obbligato? Il declino della parola dono dal greco e latino all’italiano, mette in evidenza due dati relativi all’attualità: da un lato, ci si dimentica del carattere gratuito del dono; dall’altro, si sostituisce l’elemento obbligante del dono, cioè utile per rinsaldare il legame comunitario o sociale, con il “dovere del dono” per motivi esclusivamente di apparenza, moda e abitudine. In questo modo, si trascura l’idea che il dono è allo stesso tempo gratuito e obbligato. Ci si scorda che bisogna donare gratuitamente e che farlo in questo modo significa segnalare all’altro di voler stringere o rafforzare un legame, al di là di ogni interesse materiale, sociale ed economico; che il dono è sempre (o dovrebbe essere) qualcosa che è utile per la vita dell’altro; che chi riceve il dono deve contraccambiare soltanto se brama allo stesso modo del donante di unire o consolidare un legame; che in questo modo si costruisce insieme una vera comunità di amanti, amici, parenti, cittadini dello Stato e poi del pianeta. Invece, si preferisce egoisticamente capitalizzare una serie di cianfrusaglie e ricchezze per sentirsi migliori di altri soltanto perché se ne possiede di più; o contraccambiare ai doni degli altri per fare “bella faccia”; o regalare agli altri – a Natale, nei compleanni, matrimoni, battesimi, feste varie, lutti (per chi ancora lo fa) – soltanto perché “si usa così”. In questa prospettiva, non ci si rende conto che il dono è sempre un bene e un male a un tempo: dipende dal modo in cui lo si intende e dal carico sentimentale (passione) col quale si è spinti a donare. Ecco perché alla gratuità del dono si sostituisce l’interesse personale; all’utilità per la vita l’inutilità; al talento di fare comunità la disgregazione sociale. E quando si giunge a questo, si comincia a capire una delle ragioni della solitudine nella quale ognuno di noi oggi si trova, senza vie d’uscita, come un deserto senza fresche oasi o come un mare aperto senza terre e approdi sicuri. Sembra assurdo, o ridicolo se si vuole, tuttavia anche dal modo in cui si concepisce il dono e la pratica del donare dipende il nostro futuro, individuale e comune. Riscoprire il dono nella sua duplicità, gratuito e obbligante, vuol dire ri-comprendere il senso della vita e dello stare assieme agli altri. Ma noi, piuttosto che rimediare alla vita degli altri, e in questo modo alla nostra, preferiamo avvelenare gli altri e, tramite loro, noi stessi.

mercoledì 16 dicembre 2009

ALLA RISCOPERTA DEL DONO: IL MITO DI PROMETEO E LA NATIVITA' CRISTIANA

- di Saso Bellantone
Nel precedente articolo intitolato “Il Natale: riflessioni ironiche sulla ritualità del dono” si è messo in evidenza, con tono burlesco ma non per questo sciocco, che la pratica del dono, con tutti i suoi retroscena, è scaduta in una vuota abitudine. Le cause di questa ‘secolarizzazione della ritualità del dono’ sono: il dominio di uno standard di vita basato sul consumismo, sull’apparenza, sulla logica del vincente, sull’accelerazione del tempo lavorativo e ludico; la disinformazione, l’esagerata cura del corpo, dei beni, dei figli, la fossilizzazione mentale – dovuta alla povertà e alla fame post-guerra, alla paura, alle malattie, agli svariati traumi della storia personale di ognuno e della storia generale del nostro paese e del pianeta; il lusso, lo spreco, i vizi, in breve la cosiddetta ‘bella vita’; la trasformazione tecnologica, informatica, mediatica, urbanistica, insomma il cambiamento onnilaterale che ha pervaso la nostra società dagli anni ’80 in poi. Se da un lato il senso di questo mutamento totale della società è di migliorare continuamente la qualità della vita dei cittadini, dall’altro ne provoca il decadimento psichico, culturale, morale e ideale. Pur essendo in compagnia degli altri, a lavoro, in casa, a scuola o nel tempo libero, si è soli con se stessi. Ci si trova in balia della solitudine, dell’insicurezza, della paura, della rabbia, dei ‘perché?’ e si finisce per assumere un ideale di vita attivo, freddo e calcolante che violenta dalle fondamenta tutti i valori nei quali si è sempre creduto: la libertà, la giustizia, l’amore, l’amicizia, il rispetto, la legalità, la famiglia, la fede, la solidarietà, il buon senso. In poche parole, ci si trasforma in vuoti e omologati manichini, facilmente manipolabili, prevedibili e gestibili dalla culla alla bara, vaganti nei tristi e grigi teatrini delle nostre artificiali città senza sogni. La nostra gelida metamorfosi da esseri umani in automi fa piazza pulita dei vecchi valori e delle antiche ritualità, utili per rendere la vita comune più sensata, carica di significati e di speranze. Tra questi riti, anche quello del dono perde il proprio talento: ossia, quello di rendersi utile per la vita; ma anche quello di fare comunità sia in famiglia, sia nel parentato, nel vicinato o nella società tutta. Ma in che senso lo scopo del dono è la vita o fare comunità? Che cos’è il dono? Nell’antica Grecia si trova un esempio utile per cominciare una ricognizione specifica sul dono: il mito di Prometeo. Il titano ruba il fuoco agli dèi e lo dà gratuitamente agli uomini. Naturalmente, il mito non vuol dire che, per essere tale, il dono dev’essere qualcosa di rubato. Piuttosto, che è qualcosa di gratuito. Il dono, dunque, sarebbe soltanto l’azione stessa del donare gratuitamente? Oppure c’è dell’altro? Prometeo dona agli uomini il fuoco: dunque, il dono è la consegna gratuita della proprietà di un oggetto da qualcuno a qualcun altro? Il dono di Prometeo sarebbe allora soltanto il fuoco, dato agli uomini gratuitamente? E che cos’è il fuoco? Come diremmo oggi, soltanto un soprammobile? Un prodotto da collocare da qualche parte assieme ad altri, per bella vista? Il fuoco è quell’elemento utile per riscaldarsi, per cucinare, per tenere lontani gli animali feroci, per illuminare, per sciogliere le sostanze, per creare manufatti vari, per riunirsi assieme e svolgere una serie di pratiche comunitarie, per segnalare la propria presenza. In questo senso, quel che Prometeo dà agli uomini non è un mero oggetto per arredare la palude, il deserto, la caverna o la foresta che abitano, bensì un “mezzo” – come dice la stessa parola, un medium – utile per svariati scopi, vale a dire per tutto quello che è realizzabile soltanto mediante il fuoco stesso. Che cosa dà agli uomini, gratuitamente, il titano Prometeo? Non semplicemente il fuoco, ma tutto ciò che è possibile realizzare per mezzo del fuoco. Dal momento che mediante il fuoco gli uomini possono soddisfare un insieme di utilità, se prima ne erano privi, questo vuol dire che precedentemente gli uomini non erano in condizioni di appagare tutte le utilità attuabili mediante il fuoco perché, appunto, non avevano il fuoco. Ma che significa per gli uomini riscaldarsi, cucinare, tenere lontani gli animali feroci, illuminare, sciogliere le sostanze, creare manufatti vari, riunirsi assieme e svolgere una serie di pratiche comunitarie, segnalare la propria presenza, e tutto ciò mediante il fuoco? In breve, vuol dire vivere. Senza il fuoco, non potendo svolgere tutte queste utilità, gli uomini non erano in grado di vivere. Allora, quello che Prometeo dà gratuitamente agli uomini non è soltanto il fuoco bensì la capacità di vivere: la vita. Il mito di Prometeo mette in evidenza che il dono non è il gratuito passaggio di proprietà di un soprammobile da una persona a un’altra, ma è sempre un “donare la vita”, perché attraverso l’oggetto che si dà gratuitamente a qualcuno, si permette a questi di svolgere infinite utilità possibili soltanto mediante quell’oggetto stesso. Facendo un salto dall’antica Grecia alla tradizione cristiana, l’idea del dono come “dono di vita” è riscontrabile anche nella rappresentazione della natività del Messia Gesù che ogni anno componiamo nelle nostre case e luoghi pubblichi: il presepe. Che cosa raffigura e in questo modo rievoca il presepe? Si è soliti considerare il presepe soltanto da un punto di vista religioso, ossia come il momento nel quale il figlio di dio nasce nel mondo. In questa prospettiva, si tende a mettere in risalto il bambinello nella mangiatoia, la sacra famiglia col bue e l’asinello nella stalla, la cometa, gli angeli ecc. e, per questa ragione, oggi ci si limita spesso a riprodurre il momento religioso del presepe – la natività del Messia Gesù – e si esclude quello mondano. Basti pensare alle semplici sfere che poniamo nell’albero, contenenti la stalla, la sacra famiglia, il bue, l’asinello, la cometa e l’angelo; oppure alle suppellettili che rappresentano tutto questo in piccole e medie dimensioni; oppure ai presepi-viventi nei quali, per questioni di semplicità ed economia scenografica e di tempo, si riproduce sempre e soltanto la solita sintesi della natività. Naturalmente, secondo un punto di vista religioso, con questa ridottissima sintesi ci si concentra nell’avvenimento cardine del cattolicesimo: dio dona gratuitamente se stesso, facendosi uomo, per salvare il mondo e l’umanità dal peccato e dalla morte e promettere la vita eterna. Questo, per chi è credente, basta e avanza nella realizzazione del presepe. In un’altra prospettiva, sempre religiosa, la natività raffigura anche la donna Maria che dona la propria vita a dio, che s’incarna e viene al mondo come figlio di Maria; o anche simbolizza la fede di Giuseppe che crede in dio – e nel detto di Maria – e si fa servo di dio, divenendone il padre terreno. Ma che cosa raffigura l’elemento mondano del presepe? Chi sono i protagonisti? Che cosa fanno? L’elemento mondano del presepe, spesso tralasciato o rimosso, rappresenta la risposta degli uomini alla natività del Messia Gesù: l’offerta gratuita di doni. Oltre agli ignoti re magi, che portano oro incenso e mirra, molte persone comuni – detti generalmente ‘pastori’, ma di fatto rappresentano un misto delle genti del tempo – giungono da ogni dove e portano pane, pesci, acqua, vino, formaggio, prodotti della terra, pecore, tutti i prodotti relativi alla vita e alla professione consuetudinaria di ognuno. L’offerta di doni al Messia Gesù è simile al dono di Prometeo ma all’inverso: infatti, mentre il titano dà gratuitamente agli uomini un dono “divino”, gli uomini danno gratuitamente al Messia Gesù (dio) un dono “umano, terreno”. Non è questa la sede per stabilire se il presepe raffigura un fatto realmente accaduto oppure no – con ciò non si intende mettere in discussione la nascita del Messia, bensì l’avvenuta visitazione di tutta questa gente così com’è raffigurata nel presepe. Piuttosto, bisogna ricalcare il senso dell’offerta di doni al Messia. Pane, pesci, acqua, vino, formaggio, ortaggi ecc., ma anche l’oro donato da uno dei magi, sono quei prodotti senza i quali, nel mondo, non è possibile vivere, nemmeno per il Messia appena nato. In questo senso, donando gratuitamente a Gesù – o alla sua famiglia – tutti questi beni materiali senza i quali non è possibile vivere (o sopravvivere), gli uomini del presepe non fanno altro che donare gratuitamente la vita (o la speranza di vivere) al Messia. Non c’è ancora cristianesimo al momento della nascita del Messia Gesù; né alcun angelo gira di casa in casa per annunciare l’avvenuta nascita del figlio di dio. La tradizione afferma che i magi sono condotti alla stalla – o alla grotta – da una cometa: forse, anche gli altri uomini l’hanno seguita. Ma al di là delle effettive cause che spingono gli uomini fino alla stalla, quello che è rilevante sottolineare è che gratuitamente danno i loro doni e, “per mezzo di questi”, permettono al Messia e alla sua famiglia di vivere (o di sperare di vivere). Dunque, sia nell’antica Grecia sia nella tradizione cristiana è possibile rilevare una comune concezione del dono: quest’ultimo, non solo dev’essere gratuito ma, al di là del bene donato, è sempre un dono di vita (o per la vita, se si vuole). Il dono di vita, poi, è sempre un dono che fa comunità. Attraverso il dono di Prometeo gli uomini possono cominciare non solo a vivere ma a intendersi come una comunità: il destino di ciascuno è legato a quello di tutti gli altri e quello di tutta la comunità è legato al destino del dono di Prometeo, il fuoco. Se quest’ultimo svanisce, si perde, si spegne, è rubato, è tutta la comunità a pagarne le spese: tutta la comunità rischia di non sopravvivere e, in questo senso, corre il pericolo di perdersi essa stessa, di slegarsi, di svincolarsi dal comune destino ufficializzato dal fuoco. Allo stesso modo, attraverso il dono degli uomini fatto al Messia Gesù, da un lato quest’ultimo può iniziare a vivere o a sperare di vivere; dall’altro lato, gli uomini possono incominciare a immaginarsi ‘come in una nuova comunità’, vale a dire quella creata dal Messia Gesù con l’atto stesso della propria nascita. Il destino degli uomini, anche quello di Maria e Giuseppe, dipende adesso da quello del Messia Gesù: se questi piuttosto che iniziare a vivere, comincia a morire, ne va della comunità stessa appena sorta. Ecco il senso dell’offerta di doni al Messia, ecco il sorgere della comunità di coloro che diverranno i seguaci di Gesù Messia. Naturalmente, i piani di dio per il proprio figlio vanno al di là dell’uomo e del tempo: e giunto a 33 anni, il Messia Gesù comincia il proprio cammino per morire crocifisso e, risorgendo a nuova vita, condurre l’umanità intera alla vita eterna (ma questa è teologia). Di fronte a questo scenario, nel quale il dono si mostra come un qualcosa di gratuito e che và al di là dell’oggetto stesso in cui si concretizza, in quanto è un dono per la vita e per la comunità, la nostra attuale prassi del dono, nella sua abitudinaria, fredda e insignificante ripetizione che avviene nel grigio e spettrale teatro della nostra società, fa pensare. Oggi, il dono è ancora gratuito? Lo si intende come un dono per la vita e per la comunità? Cominciare a riscoprire queste qualità del dono, specialmente nel periodo natalizio che incalza, significherebbe iniziare a guardare a un nuovo sole dagli abissi della notte nichilista nei quali ci troviamo.

lunedì 14 dicembre 2009

IL NATALE: RIFLESSIONI IRONICHE SULLA RITUALITA' DEL DONO

- di Saso Bellantone
Questo brano è il primo di un ciclo di pensieri utili per riflettere insieme sui temi natalizi, troppo dati per scontato. Quando arriva il mese di dicembre, un’aria di letizia, di stravaganza e di fittizia religiosità si diffonde in lungo e in largo a tal punto che nelle nostre tristi, calcolanti ed egoistiche menti da occidentali aleggia soltanto il pensiero del Natale. Ma è proprio il Natale che c’interessa? Oppure quel che c’importa sono le riunioni, le tavolate e i giochi di famiglia, le ferie, i botti di capodanno, i rave-party nelle discoteche per festeggiare l’anno nuovo, le sbornie tra amici, lo scambio di regali? Già…i regali. Neanche diamo il tempo all’ultimo mese dell’anno di presentarsi sui nostri calendari da muro o tecnologici, che subito siamo pervasi dal folle bisogno di tredicesime, aumenti di paghette e schedine multimilionarie per fare la bella figura con parenti, amici e sconosciuti, mediante quelle scatole variopinte, infiocchettate e così scoccianti da scartare quali sono i pacchi-regalo natalizi. In questa prospettiva, giunto il mese di dicembre, ecco che comincia il delirio. Come burattini pilotati dallo spirito del Natale, girovaghiamo per le strade delle nostre città e siamo magnetizzati da tutto quello che, dietro le luci sparse tra una pigna, un festone e un granello di neve artificiale, si trova esposto nelle vetrine abitate tutte quante dallo stesso uomo con la barba bianca e il pigiama rosso, il quale o è seduto sulla slitta o scala un caminetto o si getta da un balcone (forse per paura della gelosia dei mariti appena rientrato): Babbo Natale. Ma trovare il regalo giusto per Tizio anziché per Caio o Sempronio non è cosa facile. Così, mentre la disperazione e il timore di fare una figuraccia si fa largo in noi, ecco che, subitaneamente, lo spirito del Natale si fa nuovamente vivo con le sue folgorazioni brillanti per risolvere il dramma dei regali: “Andate a cercare altrove!” – comanda l’invisibile burattinaio signore del mese di dicembre. E allora, invasati dal comando quasi demoniaco di questo impercettibile marionettista, ecco che schiere di automobili, scooter, treni e traghetti (per non dire aerei e jet privati) partono e tornano, vanno e vengono caoticamente verso luoghi prima sconosciuti e impensati, colonizzati dalle stesse vetrine delle nostre città e abitate dallo stesso uomo barbuto con la calzamaglia rossa, che però adesso tiene in mano un cellulare, un lettore dvd, un robot da cucina oppure guida un’automobile nuova o fa una pausa sopra una lavatrice. Siamo nei centri commerciali! “Che meraviglia!” – esclama il più delle volte la nostra fidanzata, moglie o compagna – “È la fine!” – diciamo a noi stessi, mentre loro, facendo a gara con le altre, si lanciano all’arrembaggio per saccheggiare i negozi e far felici più se stesse che chi riceverà il regalo. Sembra l’inferno! La gara del regalo non avviene a colpo sicuro. Si tratta di guardare e riguardare e toccare e ritoccare e assaporare e odorare e chiedere infinite informazioni di ogni oggetto presente su ogni scaffale di ognuno dei negozi. La scelta è difficile, perché non è cosa da poco trovare il regalo giusto per Tizio anziché per Caio o Sempronio. Perciò, è necessario ripetere più volte il rito della scelta e della valutazione del prodotto, è necessario sapere tutto quello che c’è nel centro commerciale e decidere scrupolosamente tutti i regali che bisogna acquistare. Così, mentre la mattina diviene sera, spesso non si acquista nulla. E allora anche la sera diviene mattina e l’inferno ricomincia da capo. Quando finalmente le nostre donne tornano a noi con volto soddisfatto ma curiosamente senza buste, noi, ringraziando il cielo e il creatore, pensiamo “È fatta! Abbiamo finito!”. Loro, invece, ci comunicano fiere che hanno soltanto deciso cosa regaleranno e che, sicure di ritornare per acquistare in modo definitivo i vari regali, affermano con aria inquietante: “Hai visto quanti bei gadget per l’albero? E quanti pastorelli! Facciamo l’albero? E il presepe?!”. Comincia così una nuova gara per chi addobba meglio delle altre l’albero e per chi compone il più bel presepe di tutti. Palle, palline, stelle, coccarde, fasce, stelle filanti, neve artificiale, pastori, casette, muschio, fontane, luci, stelle cadenti e decorazioni varie sono gli oggetti della grande e silenziosa contesa natalizia che, mischiando il sacro e il profano, si svolge nelle case di ognuno per pochi giorni e poi vien abbandonata nell’oblio…fino al prossimo dicembre. Anche in questo caso non è facile addobbare l’albero o comporre il presepe. Allo stesso modo dei regali, sia l’albero che il presepe devono essere qualcosa di semplice ma allo stesso tempo di originale, raro e bello soprattutto! Così, mentre le tasche, le carte di credito e i conti bancari cominciano a svuotarsi, ecco che la nostra pazienza è messa a dura prova: “Voglio l’albero là, con questa inclinazione e altezza!...La stella là sopra, frontale ma un po’ all’indietro…Le coccarde a circolo sinusoidale, obliquo e alternato…le palle tutte di color blu, ma non blu blu, diciamo di color blu azzurro-celeste…L’illuminazione, và invece là dove non c’è nulla, ma si deve vedere e non vedere…la lasciamo accesa? Spenta? Spenta e accesa a un tempo? E la neve? E il presepe? Sopra o sotto l’albero? Il muschio bagnato, asciutto o tutt’e due? I re magi in fila indiana…anzi no, allineati…anzi mettili dietro i pastorelli…non vicino il panettiere, vicino al pecoraio…fai scorrere l’acqua di là…il fumo di qua così sembra che il bue e l’asinello respirano…e l’angioletto?...” – insomma, dopo ore e ore di ricomposizione e perfezionamento, alla fine tutto è pronto, le tasche vuote e…“Mancano solo i regali! Domani li andiamo a prendere?!”. Dopo aver un po’ giocato coi propri bambocci e fattosi due risate alla faccia nostra, il burattinaio del Natale ci grazia e conduce con esattezza le nostre donne nel luogo giusto per comperare il regalo specifico per ogni parente, amico e sconosciuto. Una volta tornati a casa, non è finita, perché solo allora (e siamo quasi arrivati al giorno 25) ci si ricorda che mancano le buste con gli auguri! Si esce di nuovo. Si cerca il bigliettino d’auguri adatto per ogni persona che riceverà il regalo e se va bene la sera bisogna scervellarsi per augurare “buon natale” a ognuno però con parole poetiche e insolite differenti per ciascuno. Giunta poi la sera di Natale, quando ormai tutto è compiuto e la pancia è piena, si stracciano i pacchi-regalo, ci si scambia gli auguri, ci si ringrazia l’un l’altro, ci si sorride, si mette il bambinello nel presepe e…senza pensare al vecchio Babbo Natale né di andare a messa, si torna alla vita di prima, gli uni estranei agli altri. Ormai né albero né presepe contano più. A volte, ci si dimentica pure della loro presenza, fuorché il giorno dopo la Befana…quando con far sospetto ci avviciniamo a loro per smantellarli e goderci di brutto! Per quest’anno il peggio è passato ma in quello che viene, noi faremo peggio di quanto hanno fatto le nostre donne l’anno prima… Questa ritualità che si ripete nel dicembre di ogni anno mette in evidenza non solo la perdita generale di significato del Natale, del capodanno, del presepe e dell’albero, ma l’idiozia che si nasconde dietro quello che denominiamo lo “spirito del Natale”. Siamo scaduti nell’abitudine, nella moda, nell’apparenza, siamo schiavi di una logica consumistica che in questo periodo produce un’impennata delle nostre spese e un aumento dei profitti di chi vende, ma amplifica anche la perdita dei valori e del buon senso. Ci si chiede: perché fare regali a Natale? Non si può fare un regalo anche in un altro momento? Quando lo si sente? Qual è il significato di questa pratica natalizia? Perché regalare a parenti, amici e conoscenti quando nel mondo molte persone non sanno che cos’è il Natale? Quanti muoiono di fame? Quanti, per via delle condizioni drammatiche nelle quali vivono, non sono capaci nemmeno di regalarsi un sorriso a vicenda? Tutto ciò deve farci pensare, specialmente in questo periodo nel quale, mascherandoci dietro un falso buonismo, continuiamo a essere sempre i soliti egoisti. Per cominciare a esserlo meno, bisogna iniziare a fare qualcosa per chi nel mondo, specialmente i bambini, non può festeggiare il Natale o perché non lo conosce o non può e basta. Quel che in tal sede si propone non è di interrompere la “ritualità del dono”, dunque di smettere di comprare i regali da scambiare con chi si vuole, per dare i propri denari a chi non ne ha. Sarebbe assurdo, oggi, immaginare un Natale senza regali. Piuttosto bisogna mantenere questa ritualità, introducendovi qualche elemento utile per i più bisognosi, nel mondo o nella stessa città. In poche parole, lo Stato dovrebbe varare una “legge natalizia” con la quale ci si obbliga, tutti nessuno escluso, a impiegare una percentuale del ricavato delle spese natalizie per chi ne ha bisogno. Per fare un esempio, se un oggetto costa 10 euro, soltanto per Natale, 1 euro và in beneficenza. Naturalmente, dal momento che non si ha fiducia nelle associazioni private, lo Stato dovrebbe creare un “organo statale”, sorvegliato dalla Guardia di Finanza, che si occupi della gestione dei denari ricavati mediante questa pratica e che garantisca, con la pubblicazione annuale di un estratto conto, l’effettivo utilizzo di questi denari per le famiglie più bisognose italiane e immigrate e per i bisognosi di altri paesi. In questo modo – o in un altro se qualcuno ha un’idea migliore – il Natale, e assieme la stessa ritualità del dono, comincerebbe ad acquisire più senso.

sabato 12 dicembre 2009

LA FINE DELLA FILOSOFIA E' IL COMPITO DEL PENSIERO

- di Saso Bellantone
Sostituendo la “è” copula con la “e” congiunzione, il titolo evoca un saggio di Martin Heidegger, contenuto in Tempo e Essere (1962), che è importantissimo per la storia della filosofia occidentale. Naturalmente, questo saggio dev’essere inteso nel contesto bibliografico del filosofo tedesco. Heidegger pensa che con Nietzsche inizia a compiersi la fine della filosofia. Questo avvenimento accade nel modo di un tornare all’inizio, mediante una precisa posizione di fondo: quella secondo cui l’essere/valore è volontà di potenza. La filosofia di Nietzsche è un ribaltamento del platonismo. In questo senso, se per Platone l’essere/valore è un’entità assoluta, sovrastorica e indipendente dall’uomo, con il pensiero della volontà di potenza di Nietzsche diviene qualcosa di prospettico e di strettamente condizionato dall’uomo, nel corso della propria storia. In altri termini, l’essere/valore (e la verità) è una produzione “umana, troppo umana”. Questo rovesciamento del platonismo conduce alla scoperta del nichilismo: l’assenza di valori assoluti e di verità cosmologiche. L’essere è un’invenzione dell’uomo che ha soltanto validità antropologica: Dio è morto. Per queste ragioni, secondo Heidegger, comincia la fine della filosofia, che accade nel modo di un tornare al proprio inizio. Il pensiero della volontà di potenza mette in evidenza che l‘inizio della filosofia è infondato: il principio primo, l’arché, l’origine della filosofia non è trascendente, bensì immanente. La filosofia non è una creazione di dio, ma dell’uomo. L’essere/valore è una menzogna. La verità, stella fissa dell’inizio della filosofa, risulta priva di fondamento ultimo e sovrannaturale. Heidegger denomina la filosofia occidentale “metafisica”. Dal momento che risulta infondata, la metafisica coincide con il nichilismo: assenza di verità e valori assoluti. Nel linguaggio heideggeriano, abbandono dell’ente da parte dell’essere. Il pensiero della volontà di potenza mette in luce che la metafisica, cioè il nichilismo, è alla base della tecnica (immanenza assoluta). In questo panorama, il compito del pensiero è, secondo Heidegger, pensare un fondamento più originario della verità, che consenta di uscire da ogni metafisica della volontà di potenza e del valore, dunque dal nichilismo e dal dominio della tecnica. Interrogando questo abbandono dell’ente da parte dell’essere, Heidegger propone di pensare l’essere/valore (e la verità) “altrimenti”. In altre parole, se la metafisica ha pensato l’essere in relazione all’ente (essere dell’ente), è necessario pensare l’essere in quanto essere (essere in quanto tale). Per oltrepassare la metafisica – dunque il nichilismo – e smantellare il dominio della tecnica, l’interrogazione heideggeriana si comprime sulla relazione “essere e tempo”. Heidegger sostiene che i filosofi metafisici deducono l’idea di tempo a partire da una precisa concezione dell’essere, che ruota attorno al criterio della stabilità e della presenza. Per superare la metafisica, allora, ritiene sia necessario fare l’inverso: dedurre l’essere a partire da un diverso modello del tempo. In questa prospettiva, se la metafisica, pensando l’essere secondo il criterio della stabilità e della presenza, ottiene un tipo di tempo “cronologico”, allora è necessario partire da una tipologia di tempo non cronologica per ricavare una diversa interpretazione dell’essere che sfugge al criterio della stabilità e della presenza. Su questa linea, Heidegger parte dall’idea di tempo messianico – un tempo “cairologico”, dell’occasione, presente nella tradizione ebraico-cristiana, ma anche in quella filosofica – e ottiene una concezione dell’essere diversa da quella tradizionale: l’essere come Ereignis (accadimento, avvenimento). L’Ereignis non è l’essere dell’ente, ma l’essere in quanto tale. Con questa concezione dell’essere sullo sfondo, nel saggio La fine della filosofia e il compito del pensiero, Heidegger pensa la verità (aletheia) non più come adaequatio e omoiosis – che la connettono al criterio della stabilità e della presenza – bensì nel modo della Lichtung (radura) – collegandola al criterio dell’accadere. Che significa, però, pensare la verità come Lichtung? Heidegger è non solo uno dei principali esponenti della storia della filosofia del Novecento, ma di quella dell’Occidente. La sua fatica di uscire dalla metafisica della volontà di potenza e del valore, dunque dal nichilismo e dal dominio della tecnica, però, manca il bersaglio. Heidegger non si rende conto che continua a pensare il compito del pensiero in modo filosofico. Questo dipende dal fatto che nessuno esce immune da un duello. Pur vincendo, ci si porta addosso delle ferite che non guariranno mai del tutto. Queste ferite segnalano che solo una parte del combattimento è stata vinta, ma ne resta ancora un’altra da vincere. E cioè, quella con le stesse ferite che ci si porta addosso sino alla propria fine. In altri termini, pur cambiando il linguaggio e i criteri della metafisica al fine di oltrepassarla, Heidegger pensa da metafisico. Le ferite che non riesce a vincere sono le parole “essere, verità e simili”. In questo senso, la proposta per risolvere l’enigma della filosofia, contenuta nel saggio in esame, originerebbe una “rinascita della filosofia” sotto mentite spoglie, vale a dire secondo una conformazione e una logica alternative rispetto alla metafisica tradizionale. Ma torniamo alla domanda: che significa pensare la verità come Lichtung? La verità come Lichtung è caratterizzata da una doppia logica dell’accadere nella quale avviene, a un tempo, un presentarsi e un nascondersi che preservano la verità stessa dal suo scadere nella stabilità e nella presenza, dunque nel tempo cronologico dominato dal potere onnimanipolante della tecnica. In questa prospettiva, «la Lichtung» scrive Heidegger «non sarebbe solo Lichtung della presenza, l’Aperto dove essa si dispiega, ma Lichtung della presenza che si nasconde, Lichtung di un riparare che nascondendosi si preserva» (pag. 190). Interpretando la verità come Lichtung – e Heidegger ne è consapevole, infatti la citazione sopra riportata è preceduta dalle parole “se così fosse” – Heidegger continua a concepire la verità per immagini o rappresentazione. La Lichtung, infatti, è una metafora utile per rappresentare l’idea – o il concetto – della modalità attraverso la quale accade la verità, vale a dire come una radura, uno spiazzo aperto nel quale la verità si dà ritraendosi e, in questo modo, si preserva dalla tecnica, dalla soggettività, dalla stabilità e dalla presenza. È qualcosa che si dà sottraendosi. Una presenza nell’assenza (e/o viceversa). Per fare un esempio, la verità come Lichtung dice che la verità dell’accadere del mondo, si dà nel sottrarsi della possibilità stessa di afferrarla (e si preserva). Il mondo accade, c’è (o si dà), ma non è possibile cogliere la sua verità, perché questa si sottrae nel lasciare che il mondo accada. «Il tentativo di pensare l’essere senza l’essente» (pag. 104) conduce Heidegger alla rappresentazione dell’estremo opposto al tutto per significare l’essere come Ereignis, vale a dire ciò che tutto non è e che, nel sottrarsi al tutto, si dà: il niente. Risolvere la questione dell’essere in questo modo, significa restare ingabbiati nella più pericolosa empasse nella quale può sfociare la metafisica: la “teologia negativa”. Se la metafisica fino a Nietzsche (escluso) cela in sé il dogma dell’essere “che tutto è e tutto comprende” e, per questa ragione, si mostra come una “teologia positiva”, il tentativo heideggeriano di oltrepassarla calando in essa le nozioni di Ereignis (che niente è e niente comprende), di a-letheia, di Lichtung e simili conduce la metafisica a una rinascita, configurandola nel senso di una teologia negativa. In altre parole, la metafisica crede nell’esistenza dell’essere “che tutto è e che tutto comprende”, mai sperimentabile, garante e custode della verità, dei valori, del bello e simili; Heidegger crede nell’esistenza dell’Ereignis “che niente è e niente comprende” e che, però, in modo opposto all’essere della metafisica, svolge la stessa funzione di quello. Se il senso della filosofia (si chiami metafisica o in altro modo) è la fede, allora è preferibile denominarla una volta per tutte “teologia”. La metafora dell’Ereignis (e ciò riguarda anche gli altri concetti della metafisica che Heidegger reinterpreta a proprio piacimento), come già detto, è l’estrema rappresentazione in chiave negativa e opposta della metafora dell’essere. In questo modo, Heidegger resta ingabbiato all’interno della metafisica, perché continua a pensare per immagini, nella loro negazione assoluta, i concetti della filosofia. Così dalla riflessione heideggeriana scaturisce una “variante” della filosofia che ha diversi connotati da quella tradizionale, ma resta sempre “metafisica”. Per sfuggire alla metafisica non basta cambiarne i criteri e le regole o interpretare diversamente i suoi concetti, ottenendone una mutazione. Bisogna “finire la metafisica”, ossia lasciarla spirare l’ultimo fiato. Occorre abbandonare i concetti di essere, valore, verità una volta per tutte e non pensarli più né per metafore positive né negative. Tornando a Nietzsche, è necessario essere consapevoli che i concetti sono parole create dagli uomini e utili soltanto agli uomini per vivere, sopravvivere, sognare, discutere o giocare al potere, in qualsiasi forma sia possibile, e che non hanno alcuna validità cosmologica, ontologica e teologica in modo definitivo. Pensare il contrario, implica l’aiuto della fede e questa, come si sa, non dimostra nulla. È convinzione, non conoscenza. Se dio esiste – questo è l’esito ultimo nell’interpretare l’essere, heideggerianamente, come Ereignis, ossia concepirlo come il dio del popolo ebraico – la conoscenza può essere soltanto rivelazione miracolosa. Ma se così fosse, se la conoscenza fosse soltanto un fatto della fede, della rivelazione divina e sovrannaturale e non una fatto della scienza e dell’esperimento, allora, come Heidegger stesso dice: «Solo un dio ci può salvare». Pensando la verità come Lichtung, Heidegger resta “sulla linea” della metafisica. In questo modo, non scopre (o coglie) neutralmente la verità, ma la reinterpreta, la riformula, la re-inventa. Il gesto di Heidegger, dunque, è ancora soggettivismo, pensare per immagini, metafisica nelle vesti di una teologia negativa assoluta. Con le nozioni di Ereignis, Lichtung, a-letheia e simili, così come con la riformulazione di tutti i concetti della metafisica, Heidegger dimostra nuovamente che all’origine della filosofia c’è l’azione dell’uomo: invenzione, creazione, immaginazione. Tutto il saggio di Heidegger può essere riassunto nella seguente domanda: “è possibile che la verità si dia nel modo della Lichtung?”. Heidegger sa che non è una certezza ma solo una possibilità pensata, immaginata, inventata e scrive: «Se così fosse, allora solamente, con queste domande, saremmo giunti su un cammino che porti, alla fine della filosofia, al compito del pensiero» (pag. 190). Ma la verità non si dà nel modo della Lichtung né in quello della metafisica tradizionale. In breve: la verità non c’è, non è e non si dà. È un termine inventato dall’uomo, che ha significato soltanto per l’uomo e non per il cosmo. Premesso questo, si giunge allo stesso modo su di un cammino che “deve” portare sia alla fine della filosofia – nel senso della sua chiusura, cessazione, morte – sia al compito del pensiero. Il detto di Nietzsche “Dio è morto” significa che, assieme alla nozione di essere, verità e simili, è morta anche la filosofia. Perché farla risorgere dalle proprie ceneri con diversi abiti? Per fare quello che si è fatto finora? E che si è fatto finora con la filosofia? Si è utilizzato il sapere (sovrannaturale e fantasioso) per creare religioni (evidenti e non) e ottenere potere, fama, autorità nel mondo. Ma dalla filosofia, fortunatamente, è nata anche la scienza dell’esperimento: questa è la nuova via che ci conduce completamente al di fuori del cadavere della filosofia in una nuova vita. La filosofia è morta: viva adesso la scienza. Qual è, secondo Heidegger, il compito del pensiero? «Il compito del pensiero sarebbe allora l’abbandono del pensiero che si è avuto fino ad ora a favore della determinazione della cosa del pensiero» (pag. 191). Come determinare la cosa del pensiero? Qual è la cosa propria del pensiero? Rispondere che la cosa propria del pensiero è la verità – sia essa nel modo dell’adaequatio, dell’omoiosis o della Lichtung – è restare all’interno della metafisica. Chiedersi qual è la cosa propria del pensiero implica il domandarsi: “a che pro il pensiero? Qual è il suo scopo? Perché il pensiero? Che cosa significa pensare?” ecc. A queste domande non si può rispondere nel modo della contemplazione, in questa forma o in un’altra, dunque nel modo dell’a priori. Bensì, soltanto a posteriori. La risposta è qualcosa di temporaneo che serve per la successiva conferma o smentita. Ma la risposta dev’essere al servizio della vita. E la vita non è soltanto “vita filosofica o scientifica o artistica o sportiva e così via”. La vita è tale per ogni essere umano, qualsiasi professione pratichi, in qualsiasi modo viva. I termini “perché?”, “scopo”, “significato” e simili, rinviano alla vita effettiva, quella praticata in ogni attimo dagli uomini in comunità e in società. È soltanto in questo spazio – o in quello interiore e personale di ognuno – che è possibile rispondere alla domanda intorno alla cosa propria del pensiero, al suo scopo, significato e simili. Ma pensare che quei termini conducano a una conoscenza ultima e definitiva del cosmo, in qualsiasi forma e interpretazione li si consideri, pensare questo significa restare all’interno della metafisica, cioè della teologia. Il compito del pensiero, dunque, non è pensare il mistero dell’accadere della verità come Lichtung, né in nessun altro modo perché così si pensa da metafisici in forma nuova o modificata. Il compito del pensiero è pensare, ma il pensare non riguarda soltanto la metafisica e non avviene soltanto nei termini della metafisica (antica e nuova). Quest’ultima, non è un dio che dev’essere servito ma soltanto uno strumento nelle mani dell’uomo attraverso il quale tentare di dare un senso alle proprie domande e alla propria vita, e mediante il quale ripercorrere le tappe della storia dell’umanità e del pensiero stesso, al servizio del presente e del futuro. “Uno” strumento significa che non è l’unico, ma “uno tra molti”. Ogni strumento è capace a modo proprio di fornire una o più risposte alle domande degli uomini: anche se la “la scienza non pensa”, quando uno scienziato risponde alle domande sul senso, sul valore – e simili – della vita, risponde sì da metafisico, ma offre la propria voce per far parlare la scienza che, da sola, non può farlo. “Che cosa significa pensare?” non lo stabilisce soltanto la metafisica ma, nel proprio piccolo, ogni essere umano durante la propria vita e mediante le proprie esperienze. Da soli, si è liberi di stabilire qualsiasi senso si vuole della vita (e della verità, se ce n’è una). Ma quando si ragiona nell’ottica di una comunità, società o villaggio globale è là che diviene difficile stabilire il senso della vita e delle domande degli uomini (così come della verità). Il termine “senso” (e verità), infatti, chiama sempre in causa l’essere umano. Che “senso” sarebbe se, scomparsa l’umanità, continuasse a esistere soltanto per il cosmo, l’universo o il pluriverso? Se si è soliti usare il termine “verità” per definire i principi primi, le cause prime e le dimensioni spazio-temporali dell’uni(pluri)verso – questo fanno i primi filosofi – oggi è preferibile adottare i termini “struttura, sistema, complesso ordinato, ammasso caotico e simili”. Se invece si connette il termine “verità” con il termine “senso o valore” – in modo conscio o inconscio – bisogna evitare di ritenere che quel termine abbia significato o validità anche per il cosmo. Quello che c’interessa o che ci è utile, è tracciare un’immagine, seppur passeggera e continuamente cangiante, del luogo che abitiamo. Quest’ultimo non è soltanto la Terra, ma il cosmo intero (anche se siamo confinati in uno dei suoi pianeti e delle sue galassie). Il compito del pensiero è abbandonare la metafisica in tutte le sue forme, dunque allontanarsi dalla filosofia (cioè dalla teologia), lasciarla finire, lasciarle esalare l’ultimo respiro. La fine della filosofia, nella prospettiva nietzscheana, è la scoperta che la filosofia stessa – e la sua verità – è una menzogna “umana, troppo umana”, contraria alla vita, al suo istinto incondizionato ad ampliarsi, agli uomini nella loro diversità, molteplicità e unicità-singolare. È uno strumento utile per affermare il potere di pochi su tutti gli altri o per contrastare il potere vigente al fine di sostituirsi ad esso. Se questa è la filosofia, allora è barbarie del soggettivismo. Se si resta all’interno della metafisica, il compito del pensiero è stabilire una nuova menzogna favorevole alla vita, al suo impulso ad accrescersi illimitatamente, agli uomini tutti, nessuno escluso. Se invece si vuole oltrepassare la metafisica, allora ci si deve affidare alle scienze e tracciare, volta per volta, la struttura dell’uni(pluri)verso e il nostro posto in esso. Si tratta di abbandonare la metafisica a favore di una “meta-Geo-fisica”. Quest’ultima, però, già esiste ed è l’astrofisica. Quando i filosofi dell’inizio alzavano gli occhi al cielo, si chiedevano: “che cosa c’è oltre di esso? Le stelle? Altri pianeti? Dio? Un altro mondo oltre quello conosciuto?”. Il problema è che l’unico mondo conosciuto dai filosofi era quello sensibile, vale a dire quello percepito per mezzo dei propri sensi. Dunque, la sola terra, assieme al sole e qualche altra stella o pianeta. Non potendo “vedere” più in là, hanno iniziato a teorizzare l’esistenza di cose “invisibili” ai propri occhi e poi, non si sa come, hanno perso la mano e hanno ritenuto più esistente un altro mondo (quello frutto della loro fantasia) anziché quello che era loro visibile. Oggi, gli strumenti tecnologici ci consentono di valicare i limiti che avevano i filosofi dell’inizio e di “vedere” cosa c’è oltre la terra: l’uni(pluri)verso. La scienza che si occupa dello studio dell’uni(pluri)verso, dei suoi principi, della sua struttura e così via è l’astrofisica – l’astronomia si cura di certificare l’esistenza di pianeti, stelle e simili, assegnando loro un nome. Nell’astrofisica, le nozioni filosofiche di essere, valore, verità ecc. non hanno significato: soltanto l’esperimento, la concretezza, la misurazione, la definizione spazio-temporale e così via hanno importanza. Il suo compito è di tracciare “temporaneamente” la struttura dell’uni(pluri)verso e di tentare di capire, con metodo sperimentale, il suo funzionamento. Ovviamente, non tutto quel che gli astrofisici affermano e teorizzano è sperimentabile. Ma queste lacune sono l’eredità degli studiosi che verranno dopo di loro. Alla luce delle nuove scoperte e acquisizioni dell’astrofisica, i filosofi tendono a spolverare le proprie nozioni e le proprie domande, al fine di costruire teorie che, metafisicamente, spieghino il tutto. Questo atteggiamento dei filosofi non è scoprire bensì immaginare, inventare, creare e, molto più spesso di quelle degli astrofisici, le teorie dei filosofi sono difficilmente dimostrabili. Le parole della filosofia hanno significato soltanto nell’intimo di ogni individuo. Non sono necessarie nemmeno alla comunità alla quale bastano soltanto le leggi, le scienze, la storia. Naturalmente, con le parole della filosofia gli uomini tentano di capire “chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? E perché?”, ma in questo modo spesso dimenticano di vivere. Se l’unica certezza che abbiamo è di esserci, di esistere, allora è preferibile “sospendere” le domande della filosofia, irrisolvibili, a favore di altre domande, quali “come siamo? Dove siamo? Per quanto tempo siamo? Siamo soli nell’uni(pluri)verso? ecc.”. Morta la filosofia, le scienze e la storia hanno il compito di rispondere, di volta in volta, a domande più concrete relative agli uomini, alla Terra, al cosmo, alla loro storia comune. Tutto il resto, è politica, arte, fede, ossia argomenti relativi e prospettici, utili, ora l’uno ora l’altro, per il potere. Mentre la filosofia muore e si decompone, i filosofi devono trasformarsi in scienziati e storici. L’unico ricordo della filosofia che bisogna portare con sé e che con tanto sudore si è guadagnato, è l’atteggiamento critico verso tutto l’esistente, verso tutte le produzioni umane, verso tutti. Lo scopo della critica non è mettere i bastoni tra le ruote a tutti per puro godimento, ma da un lato, contribuire a rispondere alle domande della scienza e della storia il più imparzialmente e razionalmente possibile; dall’altro, impedire che pochi uomini dominino su tutti gli altri e garantire a tutti pari diritti e dignità d’esistenza, non perché lo impone un dio, ma perché abitiamo tutti lo stesso pianeta, lo stesso cosmo. Se la filosofia tradizionale, covando dentro sé il germe della teologia, ha reso la terra un inferno, allora il pensiero deve rendere il cosmo un paradiso terrestre. Questo, nell’era della tecnica, è il compito più grande, a meno che non si scopra l’esistenza nel cosmo di altre forme di vita non-umane. Se ciò accadesse, allora ci sarebbe un nuovo compito del pensiero: pensare un modo per vivere pacificamente assieme ai non-umani. E se questi pensassero diversamente da noi? Se volessero sterminarci? Allora, capiremmo nuovamente che ciò che ci qualifica maggiormente non è la volontà di vita, ma la volontà di potenza.