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lunedì 31 ottobre 2016

Al diavolo in padella


- di Saso Bellantone

«Sì pronto» rispose, sbadigliando e strofinandosi gli occhi.
«Allora, sei dei nostri oppure no? Ti ho inviato un whatsapp un'ora fa e non hai più risposto.»
«Dici?»
«Dico? Fabio vaffanculo! Non mi dire che stavi già dormendo?»
«Mirko t'incazzi se ti dico che ero nel meglio del sonno?»
«Se m'incazzo? E a me che me ne fotte? La vita è la tua. Ormai sei diventato vecchio. Nove di mattina, nove di sera. È questo il tuo tempo vitale. Poi sempre a dormire.»
«Non abbiamo più vent'anni. Abbiamo bisogno di dormire di più, il corpo lo richiede, così come richiede il tabacco, più tabacco.» disse Fabio, riaccendendo la sigaretta spenta sul posacenere.
«Veramente sarebbe il contrario, dovremmo dormire e fumare di meno. Sei sempre il solito sottosopra.»
«No, siete voi altri ad essere al contrario. Il mondo intero va al contrario.»
«Se se... finiamola con la filosofia e veniamo al dunque: ceni con noi in pizzeria per una rimpatriata o preferisci startene a letto coi tuoi fumetti?»
Fabio espirò il fumo e spense definitivamente la sigaretta, guardando l'orologio del pc appena riacceso, che segnava le 20:17.
«A che ora ci vediamo e dove?»
«Alle 21:00. Al diavolo in padella.»
Un brivido attraversò la schiena di Fabio.
«Ok ci sono. Il tempo di una doccia e arrivo.»
«Non ti ritardare al solito tuo! Chi tardi arriva male alloggia e, soprattutto, beve meno birra.»
«Sei tu il ritardatario e, soprattutto, il poppante.» Fabio sorrise, bevendo l'ultima goccia di Ceres che aveva di fianco al pc «Comincia a ordinare il primo giro.»
«Ah ah ah! Ora ti riconosco! Ok allora a dopo.»
«A dopo.»
Fabio richiuse il cellulare e, dirigendosi direttamente in bagno per fare la doccia, lo lasciò sulla scrivania, in mezzo alle cianfrusaglie di cui era sommersa. Accendini, filtri, cartine, tabacco, posacenere, muffin mangiati a metà, piatti sporchi, pezzi di pane, biscotti, tazzine, tovaglioli accartocciati, occhiali da sole, deodorante, gomme da masticare, chip, microchip, fili, saldatore, stagno, schede madri smontate, penne, pennarelli, fogli, libri, fumetti, fumetti e altri fumetti ancora. Horror, Splatter, Mostri, Satanic, Zagor e soprattutto Dylan Dog. Tanti Dylan Dog. Dall'Alba dei morti viventi a Il modulo A38 li aveva tutti, comprese le edizioni speciali, albi e almanacchi. Era talmente patito da aver aperto un blog sull'indagatore dell'incubo ed essere stato contattato dalla Sergio Bonelli per le recensioni ufficiali di ogni nuova uscita. Leggeva naturalmente di tutto, dai romanzi distopici alla poesia alle riviste specializzate di scienze e matematica, ma credeva che la letteratura horror avesse qualcosa in più. Considerava infatti la realtà troppo scientificamente provata, troppo scontata. La letteratura horror invece dava la possibilità di guardare il mondo da più di un'altra prospettiva e, in particolar modo, offriva l'occasione di osservarlo criticamente e da più vicino, pur essendo molto lontani da esso. Era questa la sua vita. Lavorava come riparatore in un negozio di computer di Sambiase, dal mattino alle 16:00, senza sosta, poi si dedicava interamente alla sua passione horror, tranne in alcuni casi in cui era costretto a portarsi il lavoro a casa. Il più delle volte, si addormentava sulla scrivania dove, tavolo da lavoro a parte, passava la maggior tempo a leggere e a recensire o a guardare qualche film o serie televisiva sempre di stampo horror. Una vita monotona, insomma, semplice ma per lui soddisfacente. L'unico contatto che aveva con il mondo esterno erano i social e alcune app con i quali si teneva in contatto con i vecchi amici. Li vedeva raramente, nelle ferie natalizie, pasquali o estive, a seconda dei casi, o come questa volta, per il ponte di Ognissanti. Lavoravano tutti fuori, chi al Nord chi all'estero, e un'occasione per incontrarsi e stare un po' assieme non se la sarebbe fatta sfuggire. Certo, se Mirko non l'avesse chiamato, a quest'ora starebbe ancora dormendo faccia alla scrivania.
Uscì dal bagno rapidamente e con la stessa rapidità prese i primi abiti che aveva sottomano, li indossò, raccolse i suoi inseparabili cimeli all'interno della borsa a tracolla verde militare – accendino, filtri, cartine, tabacco, auricolari, cellulare, moleskine e portafogli – e si fiondò fuori dalla porta ma non diede il tempo a quest'ultima di chiudersi che tornò indietro sui suoi passi, prese le chiavi di casa e uscì nuovamente ma tornò ancora una volta indietro per prendere gli occhiali da sole e, stavolta, uscì definitivamente. Malgrado l'ora fosse tarda, amava uscire con i Ray Ban rosa anche di notte. Aveva un rapporto morboso con essi: li considerava come un filo invisibile che lo teneva collegato al mondo dell'horror cui tanto era legato.
Arrivò al Diavolo in padella in ritardo di soli 5 minuti, come l'amico Mirko aveva previsto, sotto i raggi di una luna piena ora coperta ora no da una nuvola senza pioggia, che rendeva quella notte di Halloween davvero magica. Proprio come nei fumetti che amava tanto. L'ingresso del ristorante-pizzeria era al quanto scenico per quella sera: oltre la celebre insegna che recitava il nome del locale, alla sinistra della porta c'era un uomo travestito da diavolo con corna forcone e tutto il resto, dietro un barbecue completamente infuocato sulla cui griglia vi era un padellone fumante, che lanciava maledizioni e imprecazioni a chiunque entrasse.
«Stanotte avrò la tua anima!» gli disse l'uomo-diavolo, ridendo maleficamente.
«Vedremo chi l'avrà vinta.» rispose Fabio, contento della trovata.
Oltrepassata la soglia, una donna-diavolessa molto sexy, aveva un bichini nero attillato, le corna nere alla testa e le zanne da vampiro, gli disse: «Dimmi qual è il tuo tavolo o ti porterò via l'anima!»
«Puoi portarmela via, tesoro, non so qual è.» rispose Fabio, fissando, diciamo così, la parte migliore di lei.
«Ehi Fabio siamo qui! Lascia stare la diavolessa!» uno degli amici, Enzo, gli fece segno di raggiungerlo, ridendo e facendo ridere non solo gli altri amici che erano già seduti al tavolo e stavano aspettando lui, ma anche gli altri clienti seduti agli altri tavoli.
Fabio si sentì in imbarazzo e mandò a quel paese gli amici, dicendo alla diavolessa: «Sarà per un'altra volta, tesoro. A quanto pare, quello è il mio tavolo.»
«Ti accompagno io.» la diavolessa, avendo capito la situazione, lo prese sottobraccio e, una volta raggiunto il tavolo degli amici, gli diede un lungo bacio sulla bocca, destando l'invidia e la rabbia degli altri.
«Ci vediamo dopo, tesoro» disse infine a Fabio, facendogli l'occhiolino e andandosene, con una camminata pari alla sua bellezza e alla sua sensualità.
«Allora brutti stronzi, ne avete abbastanza o devo anche stendervi?!» Fabio prese in giro gli amici «Dov'è la nostra birra?»
Non fece in tempo a finire la frase, che subito un'altra diavolessa portò uno spillo di quattro litri di birra rossa, al puro malto, mentre un'altra portò i boccali. Le due lasciarono il tutto sul tavolo e prima di andarsene, mentre gli amici urlavano festosi per l'arrivo della birra, le diavolesse si avvicinarono a Fabio, lo baciarono entrambe sulla bocca e se ne andarono, dicendo anche loro: «A dopo tesoro».
Fabio guardò gli amici con un silenzio maggiore rispetto a quello che era appena sceso sul tavolo: «Ragazzi, evidentemente il mondo si sta mettendo sulla piega giusta.»
«Ma vaffanculo!» Saro, che stava già versando il liquido nei boccali, gli lanciò addosso la birra ridendo per la disperazione e provocando i commenti a raffica degli amici.
«Che vita eccezionale!»
«E sì sì!»
«Dio dà il pane a chi non ha i denti!»
«Bell'amico!»
La risata fu generale, specie per i ceffoni che le ragazze davano ai rispettivi fidanzati, con il beneplacito di Fabio naturalmente, convinto che quella sera fosse davvero speciale per lui, proprio come l'indagatore dell'incubo.
C'erano tutti. Mirko, detto “Il professore”, poiché sfoggiava saggezza su qualsiasi argomento si parlasse. Enzo, detto “Paul Newman”, per via del suo fascino col quale faceva crollare ai suoi piedi tutte le donne. Saro, detto “Il messicano”, data la sua sputata somiglianza con Benicio del Toro, e Ilaria, la fidanzata gelosa, detta “Adesso ti picchio io”, e si capisce perché. Alfonso, detto “Fonso”, semplicemente diminuitivo del nome, assieme ad Erica, la fidanzata permissiva, o meglio “per missiva”, in quanto ti mandava email, messaggi e whatsapp minatori, nel caso in cui si portava fuori a cena Fonso senza di lei. C'era Davide, detto “Golia”, per via delle sue dimensioni e perché mangiava sempre omonime caramelle a menta. Ignazio, detto “Vessicchio”, per via della sua fantastica somiglianza con l'omonimo maestro compositore. Sebastiano, detto “Sto arrivando”, data la sua spregiudicata rapidità intuitiva, e Penelope, la fidanzata, detta “Ferrari”, in quanto capace di rispondere prima ancora di formulare la domanda. Antonio, detto “Fringula”, per la sua nota somiglianza con uno strumento da pesca a mano. Infine c'erano Peppe, detto “Nek”, e si capisce perché, Giulio, detto “Omar” o meglio “O' mar”, in quanto è sempre al mare. E Franco detto “Franky” o anche “Banzai” e in alcuni casi “Arakiri” o “Il suicida” perché si getta a capofitto in qualsiasi questione e discussione, anche di estranei, prendendole di brutto.
Fu una serata divertente, passata in braccio ai ricordi e alle immancabili battute su ognuno, alternate da diversi boccali di birra, accompagnati da pizza di ogni tipo. Ogni volta che portavano un nuovo spillo o altre teglie e pietanze, le cameriere-diavolesse continuavano il loro rito, avvicinandosi a Fabio e baciandolo, il quale ormai ci aveva preso gusto, sia a baci sia all'immancabile “A dopo, tesoro”, mentre gli amici, rassegnati, si accontentavano di baciare soltanto la rossa alla spina. Quando ormai erano tutti sbronzi e si fece l'ora di andare, gli amici incaricarono Fabio di chiedere il giro di amari e il conto, data la sua confidenza con le diavolesse.
«Signorina... ehm, volevo dire, diavolessa!» Fabio chiamò la cameriera più vicina, la quale accorse subito al suo tavolo «Amaro per tutti e il conto per favore!» aggiunse, sporgendo le labbra nella sua direzione, in attesa che lo baciasse.
«Certo tesoro.» la cameriera lo baciò di nuovo, stavolta col coro da stadio degli amici, ormai abituati al suo trattamento privilegiato, che gridarono “Olè” assieme a tutti gli altri clienti, ormai parte di quella tavolata tra amici anche se erano seduti altrove.
La cameriera andò alla cassa e tornò assieme alle altre diavolesse, che portarono in ordine: un altro spillo di birra, una bottiglia di amaro, tanti boccali e bicchierini, specificando che quelli li offriva la casa, e il conto, fermandosi tutte rigorosamente da Fabio, per pagare, se così si può dire, la solita tassa.
Fabio si sentiva in paradiso, sia per l'alcool sia per il clima festoso che c'era in quel locale assieme agli amici sia per i continui baci che riceveva da una serata intera, quando, sporgendosi nuovamente in direzione delle cameriere, sbiancò improvvisamente.
Il volto delle diavolesse si era improvvisamente trasformato in quello rugoso di diavoli veri e propri, con i canini macchiati di sangue, gli artigli alle mani e la coda biforcuta. Fabio guardò lo spillo, la bottiglia e i calici e si accorse che erano pieni di una sostanza rossa troppo densa per essere birra. Era sangue, che gli amici tracannavano assetati come indemoniati, trasformandosi anche loro sotto ai suoi occhi in scheletri, zombie e mostri di ogni tipo.
Fabio si sentì come paralizzato. Si guardò intorno, in cerca di un punto di riferimento che gli assicurasse che stesse soltanto sognando ma fu peggio. Anche gli altri tavoli erano pieni di creature mostruose. Vampiri, uomini lupo, uomini pesce, spettri, streghe, uomini senza testa, senza un arto o con la gola tagliata, Freddy Krueger, Jason, Jack lo Squartatore, Mr Hyde, Frankenstein, c'erano tutti. Tutti i personaggi della letteratura horror che tanto amava erano in quel locale e stranamente interessati a lui. Persino la Signora Nera con la falce che, assieme all'uomo-diavolo che aveva visto all'ingresso del locale, si dirigeva nella sua direzione.
Le diavolesse lo bloccarono sulla sedia e spiaccicarono la sua faccia sul tavolo, mentre la Morte alzava la sua falce pronta per colpire.
«Te l'avevo detto che avrei avuto la tua anima» disse l'uomo-diavolo, con una macabra risata che coinvolse tutti i raccapriccianti spettatori.
«Lasciatemi! Lasciatemi andare!» urlò il ragazzo, agitandosi e tentando di liberarsi, mentre la risata cresceva a dismisura in boato assordante.
«Sei mio!»
«Noooo!!!»

Fabio si svegliò di soprassalto e sentì il cellulare che squillava.
«Sì pronto» rispose, sbadigliando e strofinandosi gli occhi.
«Allora, sei dei nostri oppure no? Ti ho inviato un whatsapp un'ora fa e non hai più risposto.»
«Dici?»
«Dico? Fabio vaffanculo! Non mi dire che stavi già dormendo?»
«Mirko t'incazzi se ti dico che ero nel meglio del sonno?»
«Se m'incazzo? E a me che me ne fotte? La vita è la tua. Ormai sei diventato vecchio. Nove di mattina, nove di sera. È questo il tuo tempo vitale. Poi sempre a dormire.»
«Non abbiamo più vent'anni. Abbiamo bisogno di dormire di più, il corpo lo richiede, così come richiede il tabacco, più tabacco.» disse Fabio, riaccendendo la sigaretta spenta sul posacenere.
«Veramente sarebbe il contrario, dovremmo dormire e fumare di meno. Sei sempre il solito sottosopra.»
«No, siete voi altri ad essere al contrario. Il mondo intero va al contrario.»
«Se se... finiamola con la filosofia e veniamo al dunque: ceni con noi in pizzeria per una rimpatriata o preferisci startene a letto coi tuoi fumetti?»
Fabio espirò il fumo e spense definitivamente la sigaretta, guardando l'orologio del pc appena riacceso, che segnava le 20:17.
«A che ora ci vediamo e dove?»
«Alle 21:00. Al diavolo in padella.»
Un brivido attraversò la schiena di Fabio.
Ricordò tutto. Le diavolesse, il sangue, la trasformazione degli amici, i mostri, il diavolo, la falce. Sogno premonitore o meno, si sentì terrorizzato a tal punto che per alcuni istanti gli mancò la parola.
«Non ci sono. Decisamente no.»

sabato 29 ottobre 2016

Alterante scrittura alterata


- di Saso Bellantone
"La scrittura è come una figlia: la ami, la cresci e poi ti accorgi che non è più tua, che non sei neanche tu".

mercoledì 26 ottobre 2016

La virtù del poco


- di Saso Bellantone
"Non importa quante parole usi, ma come le usi".

sabato 22 ottobre 2016

Il posto proprio


- di Saso Bellantone

Non era quello il loro posto. Bagnandosi, le foglie secche potevano far ruzzolare qualcuno giù dalle scale e rovinare la festa. Rustici, aglio e olio, vino e sott'oli erano soltanto l'antipasto di una notte da passare in allegria tra amici. Una rimpatriata, per incontrarsi dopo tanto tempo, ricordare i bei momenti vissuti assieme e rinsaldare i legami per i giorni futuri.
Non era quello il suo posto. Voleva bene agli amici, sì, ma alle riunioni spensierate, al continuo vociare e alle chiacchierate illimitate sul più e sul meno, Lazzaro preferiva l'ardua e abbondante riflessione sull'esistente, nella sua misteriosa interconnessione con tutto, e il rapimento della musica naturale, del concerto che in quella di notte di campagna sperava suonasse per lui.
Amava la campagna, la terra, qualsiasi cosa avesse un richiamo con il mondo fatato che aveva dentro e aveva accettato l'invito anche per cogliere l'occasione di starsene qualche minuto per i fatti suoi a fantasticare in mezzo al profumo della terra, degli ulivi e degli aranci.
Quella sera, però, non riusciva a lasciarsi andare. Qualcosa lo tratteneva nel mondo illusorio dei vivi, impedendogli l'accesso nel mondo vero dei sogni e degli incantesimi. Qualcosa intralciava la sua congenita predisposizione al magico, bloccandolo sulla soglia, anzi, sulla scalinata di Crono, al di qua del regno di Kairos.
Era la prima volta che gli accadeva e si sentiva impreparato, spiazzato. Dopo tutta la fatica per essere là, quella sera, i cambi di turno a lavoro, l'urgenza di trovare un passaggio, poiché la vecchia Renault 5 lo aveva abbandonato nel mezzo della statale, adesso non riusciva a sognare.
Cercò di capire il perché, di trovare in lui la ragione di quello stallo, di visualizzare la staccionata che non riusciva a oltrepassare, ma fu vano. Così, si aiutò con un esercizio per amplificare la sua concentrazione.
Cominciò a spostare, dall'alto verso il basso, tutte le foglie che il vento aveva depositato sulla scalinata. Con un piede, le raccoglieva pazientemente in un angolo, le buttava sul ripiano successivo e ripeteva la sequenza, sperando che questo lo aiutasse a trovare la soluzione, almeno, entro il tempo degli scalini e delle foglie disponibili. D'altronde, non era quello il posto delle foglie e, tra l'altro, qualcuno poteva farsi male, specialmente i bambini.
Fu allora che il silenzio divenne un boato e tutto ebbe inizio.
Lazzaro alzò gli occhi e vide una bambina vestita di edera e foglie di melograno che si muoveva nella sua direzione. I suoi passi scalzi erano talmente soffici da non far alcun rumore, come se le nuvole camminassero su un sentiero di cotone e da quest'ultimo dentro di lui. I capelli dorati erano raccolti in una treccina avvolta attorno alla testa, incoronata da fiorellini di campo. Tra le mani, unite come per trattenere dell'acqua fresca, la bambina reggeva una strana fonte luminosa.
Quando giunse innanzi a lui, la ragazzina gli sorrise e gli porse la lucetta. Incantato e senza pensiero alcuno, Lazzaro calò lo sguardo sul piccolo bagliore e il silenzio lasciò il posto alla musica e alle visioni.
Il canto di grilli, cicale e zanzare cominciò a diffondersi leggero nella fresca notte al chiaro di luna come sinfonia di un'orchestra fatta da minuscoli esseri che spuntavano da tutte le parti, da funghi, cespugli e sul dorso di gufi. Alberi autunnali, come vecchi uomini ansiosi di raccontare le loro storie, sorvegliavano immobili e rugosi l'antico rudere, ospitando tra i loro rami il sonno degli scoiattoli e la veglia delle civette. Le foglie dondolavano lentamente, cantando in sottofondo il motivo del concerto della natura notturna. In braccio a morbidi soffi d'aria, come tavole da surf per gnomi, fate e altri abitanti della fantasia, alcune di esse si staccavano dalle robuste vene delle piante e danzavano eleganti come graziose fanciulle in una pista fatta di sogni, posandosi ovunque: sulle automobili arrugginite, dimenticate anche dalla dimenticanza; sulla cuccia dei cocker, appisolati ognuno tra le orecchie dell'altro; sull'instancabile terra intenta ad alimentare la vita; sulle scale della vecchia villa, colorandole di svariate tonalità di giallo rosso e marrone; sulla testa di Lazzaro, imbambolato innanzi a quella meraviglia.
La luce che teneva tra le mani cominciò a pulsare in maniera intermittente. Poi, come bolla di sapone luccicante, si alzò piano piano in aria e raggiunse altre lucine intermittenti.
Erano lucciole, ed era davvero pieno, come se le stelle del cielo fossero scese giù per farsi ammirare da vicino.
Tutto era bellissimo.
«Chi sei?» chiese Lazzaro alla fanciullina che lo osservava silente e pacata, con quei grandi occhi colore del mare tropicale ma lei, come per incanto, svanì lentamente alla sua vista, lasciandogli un ultimo sorriso.
Lazzaro restò a bocca aperta e si strofinò gli occhi. Mise meglio a fuoco ma la bambina non c'era più.
Alzò ancora una volta lo sguardo al cielo. Le lucciole avevano invaso completamente la notte di quell'angolo di mondo, il buio di quella vecchia villa di periferia. Alcune di esse si posarono sugli alberi, sui cespugli, sul tetto e sulle pareti del rudere, sui lampioni, ovunque.
«Mamma mamma!» una vocina proveniente dal casolare ruppe l'incantesimo «Guarda! Le lucciole!».
Lazzaro si voltò e vide Carla, la compagna di scuola, prendere in braccio Danae, sua figlia, che a sua volta teneva sul palmo di una mano una lucciola e rideva.
Carla le diede un bacio sulla guancia: «Visto quanto sono belle?! Non ne vedevo una da quando avevo la tua età.»
«Possiamo tenerla?»
«Tesoro, le lucciole sono fatte per portare la luce a tutti, nel mondo, specialmente ai bambini e alle persone più sfortunate. Lasciala volare via assieme alle altre».
Danae lasciò che la lucciola prendesse nuovamente il volo e fece un cenno di saluto con la mano.
«Ti stavo cercando.» la donna si rivolse a Lazzaro «Vieni. Stiamo mettendo a tavola le nacatole e gli altri dolci. Aspettiamo soltanto te».
«Un attimo solo, Carla... arrivo».
«Ok non tardare».
«Dammi un istante e sarò con voi».
“Dammi un istante” ripeté Lazzaro nella mente, voltandosi nuovamente in direzione del sentiero e della campagna circostante, cercando invano la strana bambina che aveva visto prima. Non vi era tuttavia nessuna traccia di lei. Così com'era apparsa improvvisamente, allo stesso modo era sparita.
Si chiese se avesse immaginato tutto o se avesse assistito veramente a quel miracolo della natura. Poi, gettando uno sguardo alle scale, si accorse che erano nuovamente ricoperte di foglie secche.
“Non è questo il loro posto.” pensò, rendendosi conto di aver faticato per nulla.
«Ma per stasera, forse, è proprio il loro».

Il labirinto della riflessione


- di Saso Bellantone
"Attraversato lo specchio, emerge che ve n'è un altro ancora e più di uno".

mercoledì 19 ottobre 2016

lunedì 17 ottobre 2016

Fiatare la scelta


- di José Saramago
"Decidere significa dire sì o no, tirare fuori il fiato, solo dopo vengono le difficoltà, all'atto pratico, come dice la grande esperienza del popolo, ottenuta col tempo e con la pazienza di sopportarlo, fra poche speranze e tanto meno mutamenti" (La zattera di pietra).

sabato 15 ottobre 2016

venerdì 14 ottobre 2016

Prospettive altre


- di L. F. Baum
«Se vuoi posso raccontartene anche sui lucci», disse il Grifone. «Lo sai perché si chiamano lucci?».
«Non ci ho mai pensato», rispose Alice. «Perché?».
«Perché fanno luccicare scarpe e stivali», rispose con grande solennità il Grifone.
Alice era assolutamente stupefatta. «Fanno luccicare scarpe e stivali?», ripeté con tono di meraviglia.
«Perché, cosa usi tu per far luccicare le tue scarpe?», domandò il Grifone. «Voglio dire, cos'è che le rende tanto “luccide”?».
Alice si guardò le scarpe, e rifletté un po' prima di rispondere. «Il lucido, credo».
«In fondo al mare, sono i lucci che luccidano scarpe e stivali», continuò il Grifone con voce profonda. «Ora lo sai».

(Alice nel paese delle meraviglie).

mercoledì 12 ottobre 2016

Unità di misura (im)perfetta


- di Saso Bellantone
"Un cielo senza nuvole è come un volto mai rigato dalle lacrime: è illusorio".

lunedì 10 ottobre 2016

Intuire un mondo libero

- di Saso Bellantone
"L'intuizione è ciò che rende ancora per poco, e pochi, liberi. Educare all'intuizione e non al freddo, vuoto e quantitativo sapere, è l'entusiasmo del mondo che viene".

giovedì 6 ottobre 2016

Pace remota, futuro prossimo


- di Saso Bellantone
"La pace non è un fatto sociale bensì naturale, cosmico. Il ritorno alle origini, la sintonia con l'esistente, la brezza dell'Essere sono, insieme, l'unico sentiero per disarmare i popoli, cancellare le guerre con l'altro e risolvere ogni lotta con se stessi. Occorre tornare indietro per proseguire. Continuando ad andare, si giunge soltanto al capolinea".

mercoledì 5 ottobre 2016

L'individuo diviso


- di Saso Bellantone
"Ti definiscono individuo in quanto sei ciò che non può essere diviso. Strano, perché al di là della siepe e di ogni recinto concreto o astratto in cui la società ti rinchiude, c'è il mondo, la natura, ci sei anche tu".

martedì 4 ottobre 2016

Versieri: ALLA SERA di Ugo Foscolo


- di Saso Bellantone
“Forse perché della fatal quïete
Tu sei l'imago a me sì cara vieni
O sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,
E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all'universo meni
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
Delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch'entro mi rugge”.

La sera è sempre toccante. Dà sempre da poetare e da pensare. Perché se la chiarezza del giorno rende ciechi, determinando tutto ciò che è nella sua apparenza, la penombra della sera, invece, mostra anche tutto quello che non è e non appare. Lascia vedere, persino dentro di noi e oltre l'orizzonte conosciuto.
Come un fiore sbucato dal mare o un demone appena uscito da un tempio, la sera viene inattesa e coglie sempre alla sprovvista. Ci trova sempre impreparati, vittime e carnefici a un tempo del mistero della vita in cui ci troviamo e delle errate decisioni e delle stagnanti incertezze che siamo.
Il suo arrivo è sempre ammaliatore. Come un miracolo per scienziati o un'equazione per sacerdoti, la sera attrae alla sua invisibile bellezza, rendendo una volta per tutte folli o savi.
Nel suo grembo si manifestano pensieri, emozioni e percezioni inaspettate, ricordi obliati e visioni inconcepibili, assurde intuizioni e molteplicità di prospettive prima ignorate e scartate inconsciamente perché ovvie e banali. Ma anche il bisogno di essere un tutt'uno con il proprio respiro e le proprie palpitazioni, di colmare il vuoto che dallo stomaco corrode la nostra coscienza, di conoscere su un piano universale e particolare come stanno le cose e qual è, davvero, la nostra identità e il nostro ruolo nell'esistenza; il nostro bisogno di ricominciare.
La sera parla un linguaggio svincolato da segni grafici e vocali. Guarda dentro di noi, come in una lastra priva di pellicola, e risponde semplicemente per quello che è e così com'è in quell'istante, donandoci esattamente quello che cerchiamo e cerchiamo da tempo. E noi, ci lasciamo accarezzare dai suoi consigli e travolgere dalle sue verità, trovando, finalmente, quell'ambiente, quello stato d'animo necessario per sopportare i tragici segreti di un cosmo, di una durata, di un incontro e scontro con l'alterità che spingono continuamente alla resa.
Così, grazie alla sera, proseguiamo il nostro viaggio nell'enigma che noi stessi siamo assieme a tutto il resto e a tutti gli altri, portando con noi quell'unica sensazione in cui sono racchiuse le parole della nostra fedele compagna.
Adesso, come scrive Foscolo nella poesia Alla sera, siamo legati alla sera, ci è cara. Forse perché è una metafora o un'anteprima di quella pace, di quel destino inesorabile cui tutto è soggetto, la morte definitiva, sia nel momento in cui cala nel mondo assieme alle nuvole estive e ai soffici venti di zefiro, sia quando proietta nell'universo le lunghe e agitate oscurità invernali, entrambe a loro volta allegoria dei nostri stati d'animo, della serenità e dell'agitazione che proviamo quotidianamente. Quando la chiamiamo, la sera scende, viene sempre a trovarci sostenendo con dolcezza i segreti sentieri smistati dentro di noi. Camminando con noi, ci fa seguire quelle orme che conducono al nulla eterno, all'inizio e alla fine di tutto, facendo svanire la caducità e i nostri tormenti. Avvolti nella sua pace, preludio di quella vera e definitiva, trova finalmente riposo e ristoro quel desiderio di conoscere che dentro di noi scalpita per tutta la vita, senza tregua.