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sabato 30 marzo 2024

PROPRIO COME NELLE STORIE


- di Saso Bellantone

Ormai è tutto abituale, monotono, insignificante. La Terra gira intorno al proprio asse e attorno al Sole, quest'ultimo sorge e tramonta ogni giorno, l'onda si riversa sulla battigia e defluisce. Sempre, di continuo, senza sosta. Tutto prosegue, nostro malgrado, muovendosi ciclicamente nelle medesime traiettorie, ancora ancora e poi ancora senza mai sbagliare il tiro, senza incertezze né ripensamenti. La strada è soltanto una, non importa se la si chiama “questa” o “quella”, è già segnata, chiara, trasparente. Non conosce punti di vista, gradazioni o sfumature. Procede sicura in avanti, verso il passo successivo, e ricomincia nuovamente là dove innumerevoli volte è già cominciata ed è già passata. La periodicità è uno dei tratti caratteristici della vita, una costante, un fato al quale neanche gli antichi dèi possono sfuggire. Figuriamoci gli esseri umani...

Si vive ogni giorno esattamente come quello prima e quello dopo. È tutto piatto, monocorde, monocolore. Si ripete qualunque pratica sempre nel medesimo modo: gesti, espressioni, intenzioni, parole, silenzi, percezioni, sensazioni, comportamenti, movimenti e stasi. Da un'alba all'altra e così via verso tutte le altre, si praticano incalcolabili azioni rituali che danno il ritmo, l'accento, la misura con la quale dare una logica al tutto, un senso, un significato ultimo alla vita in generale, alla propria e, dunque, a se stessi.

La ripetizione, tuttavia, svuota, espropria, spoglia di qualsiasi sapore, fragranza o chiave di violino si riesca a focalizzare nel giro precedente della ruota temporale che si ha disposizione. È una forza annichilente che cancella, rimuove, consuma senza lasciare traccia alcuna di quanto vi era prima. Proprio come fa il Nulla nel celebre film “La storia infinita”, tratto dal romanzo di Michael Ende (1979): conduce al niente, al punto zero, alla tabula rasa e lo fa di nuovo e poi ancora una volta e poi ancora ancora ancora...

È in questo modo che si diviene meccanici, automatici, involontari. Proprio come piccoli ingranaggi di un inestimabile orologio appeso a una parete che neanche esiste, del quale né uomini né dèi sanno leggere le lancette, ci si muove, uno scatto alla volta, convinti di non essere altro che quel “tic”, quel “tac” e quell'istante che intercorre tra di essi. Non si ha un volto né pensieri né emozioni. Ci si sente spersonalizzati, disumanizzati, eternamente stretti in uno stato di interdizione sprovvisto di vie d'uscita e porte d'emergenza. Proprio come nel trovarsi dentro una stanza senza porte né finestre, ci si chiede in quale modo ci si è finiti dentro, ci si domanda il perché e per quanto tempo ancora si è condannati a restare rinchiusi là dentro. Fino al momento in cui si viene privati anche dello stesso domandare ed il proprio segnale non è altro che piatto.

Ma proprio come nel film citato sopra e in tantissime altre belle storie, non è fatalmente così.

Ci sono incontri e accadimenti il cui fragore è come quello di un tuono in pieno giorno. Fanno un tale frastuono la cui energia finisce col penetrare dentro la carne e le ossa e oltre di esse e si stabilisce dentro, come seme dentro la terra. Quel granello germoglia pian piano, anche se non se ne è consapevoli. Cresce, cresce e diventa una pianta imponente, coi suoi colori, le sue foglie, i suoi fiori, i suoi frutti, i suoi rami, il suo tronco, le sue radici, le sue venature, l'insieme delle sue variegate forme, tutta la sua struttura. Un albero che dà naturalmente, in maniera incondizionata, involontaria, gratuita; che riempie tutto lo spazio che deve, nella terra e verso il cielo; che prende l'anidride carbonica che si espira, il veleno, e dona ossigeno.

Non ci si rende subito conto dell'azione risanatrice e ricostituente di esso. Lo si capisce quando i suoi frutti cadono dai rami e rotolano via alla ricerca casuale di altra terra, esattamente come quando dal ventre materno nasce un'altra vita. È la vita stessa che vuole vivere, che cerca altra vita e che, in tale ricerca, insegue se stessa. E quando lo si comprende, si è felici...

È proprio come nelle storie.

Quando si è felici, è, anche, il momento di dirsi addio.

Il viaggio è finito, la strada ha condotto alla sua meta, la battaglia si è conclusa e se ne è usciti, per fortuna, vincitori: non più arrugginiti ingranaggi senza volto né origine né destinazione ma pezzi unici con una inconfondibile aura appartenente ad un mondo invisibile, che vuole diffondersi, propagarsi, irradiarsi là dove non è ancora arrivata e vuole approdare; là dove c'è un ciclico buio che attende di essere rischiarato; là dove c'è altra terra che attende il seme.

Andate allora, cari amici, e siate il granello delle piante a cui siete destinati, proprio come quello che ci ha fatalmente accomunato. Lasciate che la vostra aura risplenda nei sentieri segreti del fato e, come ne “La storia infinita”, insegnate a chi vi tocca incontrare che non era Atreju a dover sconfiggere il Nulla ma era Bastian a dover decidere se credere, oppure no, nei sogni.

Addio...

venerdì 22 marzo 2024

IL LAMPO di Giovanni Pascoli



 - di Saso Bellantone

E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.

Il buio del pensiero è asfissiante, incalzante, improrogabile. Come ombra delle ombre segue ovunque. Non lascia scampo né riposo né solitudine alcuna. Come nemico immaginario, colpisce da qualunque direzione e in qualsiasi momento. Non c'è difesa né armatura né muraglia capace di fermare i suoi fendenti. Come nero manto di origine ignota, non c'è spazio che non sia avvolto, stretto, rinchiuso nella sua oscurità. Toglie il fiato, altera il ritmo cardiaco, modifica i sensi e la percezione delle cose. Incupisce, scurisce, occulta se stessi e le cose a tal punto da con-fondere vittima, labirinto e Minotauro, ritenendoli un tutt'uno. Ci si muove ciechi, dissennati, deliranti in cerca di quella fiamma, di quella luce, di quella stella che possa schiarire anche per un solo istante quello stato di anonimato, di incomprensione, di annebbiamento che avviluppa tutto e ci si ritrova nuovamente privi di vista, fuori di sé, senza ragione. Come Urobòro o un cane che si morde la coda, il buio del pensiero costringe senza sosta a fare i conti con esso. Obbliga a ottenebrarsi, a confondersi, ad annichilirsi. Vincola, ad occuparsi di esso. Non ci si può sottrarre, non gli si può sfuggire, non c'è redenzione. Si vive, così, alla ricerca, si procede a tentoni, tastando con mano le stesse tenebre nelle quali ci si muove, continuamente inconsapevoli se l'orientamento è quello giusto oppure è l'ennesimo errore. E poi, in un effimero istante, ecco la luce. Come in un battito di ciglia, si apre una prospettiva ampia e meravigliosa e si ritira repentinamente nel buio. Si vede tutto, nel silenzioso clamore di quell'apertura inattesa. La terra spossata, ammaccata e ancora viva; il cielo traboccante, fatale e deperito; una casa candida, incontaminata, innocente.

Nella poesia Il lampo di Giovanni Pascoli, è possibile riflettere sul nichilismo e su cosa vuol dire pensare a partire da esso, dentro di esso e nel tentativo di trovare una via d'uscita. Quest'ultima non è scontata e dipende dalla prontezza del soggetto che pensa di cogliere ciò che si apre in un'illuminazione improvvisa, paragonabile a un evento naturale, come per esempio un lampo che rischiara per un attimo la/nella notte buia.
Questo chiarore passeggero offre la chance di mettere a fuoco alcuni elementi-chiave che consentono di orientare il pensiero, prima che torni nuovamente l'oscurità del nichilismo, e di prendere una scelta:
- la terra, simbolo della storia, colma delle ferite provocate dalla fatica del lavoro e dagli eventi politici e sanguinosi che si sono susseguiti nella storia dell'umanità;
- il cielo, simbolo della metafisica, strapieno di interpretazioni portatrici di catastrofi al genere umano, ormai guasto, che ha esaurito la sua antica funzione;
- la casa, simbolo della mitezza, della semplicità, della genuinità, della trasparenza;
- l'occhio, simbolo del vedere, del pensiero;
- la notte nera, simbolo appunto de nichilismo.
È a partire da questi punti di riferimento che, in balia del nichilismo, è possibile pensare all'occasione di trovare una via d'uscita da esso. Forse Pascoli non la trova. Anzi, pare che ai suoi occhi il nichilismo sia un dato di fatto, una certezza che torna ad essere un punto di riferimento nel sottrarre qualsiasi stella polare con la quale orientare il proprio pensiero. Forse lascia al singolo individuo l'eventualità di operare una scelta a partire da quei concetti-chiave, dei quali definisce il senso e la funzione con pochi termini Forse indica nella casa la nuova stella polare con la quale indirizzare il pensiero, all'interno del vicolo cieco che è il/nel nichilismo. Forse...