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giovedì 7 aprile 2011

L'ARTE PERIFERICA: intervista a Giuseppe Bagnato

- di Saso Bellantone
Scrittore e poeta, Giuseppe Bagnato (Varapodio 1971) pubblica nel 2004 il romanzo Caino, Lucifero e il piccolo fioraio (Pellegrini), ricevendo la targa Navi e Naviganti partecipando al “Premio Anoia Salvatore Gemelli” come miglior scrittore emergente (2005). Nel 2008 pubblica il romanzo Fiore avvelenato (Il Filo). Attualmente vive e lavora a Varapodio.

Come ti sei avvicinato alla scrittura?
Non mi sono avvicinato io, è accaduto il contrario. Nel senso che è qualcosa che nasce da dentro. L'arte è una cosa che hai dentro, che viene a galla sulla base di quel che ti accade. È un bisogno di esprimere qualcosa che non riesci a contenere, quasi una forma di ribellione. Alcune volte non sai neanche da dove parte questa ribellione ma la senti, senti qualcosa che ti parla, che ti vuole dire qualcos'altro. E la devi tirare fuori, per forza, perché se la tieni dentro ti uccide. Ho iniziato a scrivere da piccolo, per caso. Quando passi in un posto o ti capita un libro tra le mani, c'è una frase che ti colpisce, quasi come fosse dentro di te, e che ti tocca. Questo avviene fin dall'infanzia, da quando cioè cominci a vedere la vita, i colori, qualsiasi cosa ti da un'emozione. In quel periodo cominci a sentire qualcosa dentro di te: non sei pienamente consapevole di che cosa si tratti ma senti quella presenza, quella voce. Come una sorta di tumulto dentro lo stomaco. Il mio rapporto con la scrittura parte da questo: da qualcosa cioè che ti stringe e ti parla. Da lì è iniziato tutto. Le prime volte che qualche frase o parola o tramonto o scenario mi colpiva, io mi ci agganciavo e da lì trovavo l'ispirazione, la voglia di scrivere anche una parola o una frase. Col passare degli anni diventavo sempre più consapevole che era qualcosa che mi faceva bene, perché mi consentiva di esprimere e di tirare fuori quello che provavo. Sentivo l'esigenza di comunicare, di comunicarmi. Il mio rapporto con la scrittura è stato alternato, nel senso che quando sentivo l'esigenza di scrivere, la mettevo su carta. Crescendo mi sono reso conto che avevo il bisogno di esprimermi, quasi come di respirare. Ci sono stati momenti bui e momenti più felici che mi hanno spinto a scrivere. È stata un'evoluzione che andava di pari passo alla mia crescita. Se penso al primo libro o a quando ho cominciato a scrivere i miei pensieri più forti e concreti, mi capita – questo lo dico serenamente, non vorrei essere frainteso o essere scambiato per un matto – come se mi sdoppiassi, come se ci fosse un'altra persona dentro di me, qualcuno che scrive al mio posto. Mi capita di scrivere un concetto in maniera spontanea, istintiva e poi lo rileggo e mi sembra che non sono stato io a scriverlo. Sembra una sorta di trance, in cui mi allontano dalla concezione naturale di vita ed entro in una fase in cui non esiste niente per me: ci sono solo io e quest'altra persona, questo alter ego che prende il sopravvento e scrive in modo incontrollato. Non ho orari né schemi. L'ispirazione giunge all'improvviso.

Che cos'è la scrittura?
La scrittura mi ha salvato la vita. Dunque credo sia salvezza. Ma è salvezza quando ti abbandoni a essa e tiri fuori quello che dentro non riesci più a contenere, che non riesci a esprimere in altri modi. Questa eruzione può avvenire con rabbia, istintività o con pacatezza. Ma in qualunque modo rendi manifesto ciò che provi, quel che conta è tirarlo fuori perché a lungo andare può diventare troppo grande per contenerlo e, quindi, può riversarsi contro e schiacciarti. L'essenza della scrittura è ispirazione ma anche un'eruzione vulcanica che ti salva.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della scrittura, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporanea?
La scrittura vive secondo diverse prospettive. Possiamo leggere mille pagine, togliere lo sguardo dal libro e restare uguali. Nello stesso tempo possiamo leggere dieci righe, distogliervi lo sguardo e vedere una luce, un cambiamento, qualcosa che scuote dentro. Anche la lettura, come la scrittura, è salvezza. È qualcosa che mi ha illuminato, mi ha ispirato, mi ha aperto la mente sull'esistenza come essere umano. E lo fa ancora. La scrittura, al pari della lettura, ti pone di fronte alla domanda: “Chi sono io?”. La risposta che dai non riguarda come ti chiami, dove sei nato o vissuto, dove lavori, ma riguarda la tua esistenza in senso pieno. In questo scenario ti chiedi e rispondi a te stesso “Chi sei? Cosa ci fai? Qual è il tuo ruolo? Il tuo scopo? Qual è il senso della tua venuta in questa esistenza?”. C'è un senso, una connessione in tutto quello che accade. Possiamo vivere ottant'anni senza aver fatto nulla, così come basta un attimo per rendersi conto del ruolo che si ha in questa vita. È un discorso che possiamo ampliare in grandi linee. La scrittura è prendere coscienza di sé ma non è per tutti uguale. Io posso leggere un libro e trarne pochissimo, un altro invece può comprendere il suo scopo dallo stesso libro. La scrittura è soggettiva: dipende anche dalla lettura, dal ramo di cui ci si occupa, da ciò che si scrive e da chi lo scrive. Io posso essere predisposto a scrivere in quella disciplina o di quel genere, mentre un'altra persona ne preferisce degli altri che gli danno di più. Leggere o scrivere è soggettivo. Io scrivo per ispirazione o per istinto: passo sei mesi senza scrivere una parola e poi in sei giorni scrivo duecento pagine. La scrittura è anche gli incontri fortuiti che si hanno nella vita.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire le tue storie “poesie”, opere d'arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Non sono io a decidere. C'è qualcosa che è oltre me, che si insinua in me e mi detta quello che c'è dentro di me. Lo tira fuori, lo esprime. All'inizio provavo timore perché non riuscivo a inquadrare lucidamente che cosa mi stava accadendo, cos'era questa parte di me che voleva uscire fuori prepotentemente. Poi incominciavo quasi a cercare un contatto, un rapporto di fiducia amichevole. Oggi non la vedo più con timore, come una cosa che può farmi sbandare, portandomi in ambiti diversi. È qualcosa con cui riesco a comunicare, questa parte di me che prima non conoscevo né volevo conoscere. Era la paura che mi faceva tener a freno questo lato di me. Nel momento in cui diventi più cosciente e crei un contatto quasi amichevole, ci parli con questa tua parte, allora si diventa molto più spontanei, più liberi nell'esprimersi. Diventa un gioco armonico, da cui ha origine ogni creazione.

Perché scrivi? Perché senti l'esigenza di comunicare mediante l'arte della scrittura?
Uno dei miei primi pensieri, o poesie, recita “non c'è un perché”. Secondo me, vale per molte cose. Non c'è un perché a tutto. Non si può cercare con insistenza e caparbietà il perché: è dispersivo, ti allontana dalla verità. Non c'è un perché che determini il mio scrivere. C'è. Tutto poi prende forma dalle immagini, dai pensieri che hai. È una cosa che è tua. Ce l'hai: come un dono che non sai di avere. È come chi prende un pennello e dipinge d'istinto. Non è per forza studiare tutte le tecniche o chissachè per fare un dipinto. Chi ha il dono prende in mano un pennello, una penna, uno scalpello e crea, forma, si lascia andare. Nella scrittura è lo stesso.

Che cosa racconti nei tuoi scritti?
Cerco di raccontare globalmente il tutto, come il niente. Il bianco e il nero, il cielo e la terra, la gioia e la sofferenza. Quando scrivo, dal mio di dentro viene fuori molta sofferenza, inquietudine o turbamenti che ho vissuto e vivo in questa vita. Ma questa sofferenza è spontanea. Non c'è una sofferenza o una gioia programmata: non programmo di stare male o di essere felice. È qualcosa che provi in base al tuo vissuto, alle tue esperienze, al luogo in cui vivi o alle immagini che la tua mente vede o percepisce. È tutto quasi un susseguirsi di emozioni che ti portano a dare forma, a esprimere quello che dentro di te si crea. Personalmente, credo di raccontare quello che altri, prima di non aver il coraggio di raccontare, non hanno il coraggio di guardare. Un artista, o un pittore o uno scrittore, non sempre ha bisogno del paesaggio per dipingere. Può anche dipingere un paesaggio che non esiste, che è nella sua immaginazione. Anche quella è la grandezza. È semplice fare un ritratto di una modella, di un paesaggio o di una natura morta, così come è semplice leggere qualcosa, trovare l'ispirazione o no. Nel mio caso, la scrittura è, alcune volte, non avere niente di reale, di concreto a livello visivo, ma è qualcosa che si ha dentro, da chissà quanto tempo, da quanti anni. Può essere una gioia o una sofferenza vissute nell'infanzia, vissute in un momento in cui erano troppo forti da riuscire a percepirle e ad accettarle. Quindi le si respinge. Nel corso della vita, divenendo sempre più consapevoli, queste possono emergere di nuovo. Ma quando ciò avviene, quel che emerge non è reale, è dentro di te e lo rendi di nuovo visibile: metti nero su bianco. Non sempre l'essere umano ha la capacità di accettare determinate emozioni, negative o positive. Ciò avviene perchè non c'è una sofferenza o una gioia maggiore o minore. La sofferenza è sofferenza e la gioia è gioia. A volte si dice “Caspita quanto sta soffrendo!”, sta soffrendo di più o di meno? Non è così. Quando soffri, soffri. Non c'è un'altra persona che soffre più di te. Se in quel momento tu stai soffrendo, la tua sofferenza è la sofferenza più grande di questo mondo, anche se è una sofferenza minima. Ma è la tua sofferenza. In quel momento sei tu a stare male e per te non c'è un'altra persona che sta più male. Non puoi pensare “Quello ha una tragedia più grande della mia”. La sofferenza è tua. Sono emozioni che ritornano, provenienti da un altro tempo: finché non le guardi in faccia, vivono con te, malgrado non siano più concrete. Ti toccano per un attimo e fuggono via nuovamente, per poi tornare di nuovo, all'improvviso. Tante cose le vivi periodicamente, quasi come se ritornassero i fantasmi, perché, per via della fragilità, dell'età, dell'infanzia, non eri pronto per percepirle e visualizzarle. Man mano che cresci ritornano e quindi arrivi al punto di dire “Ok fermiamoci un attimo”. Ti guardi a uno specchio o ti rifletti nell'acqua e dici “Aspetta, fermiamoci tutti”. È un discorso che fai con te stesso, con tutte quelle voci, quelle sensazioni ed emozioni che tu vivi dentro. Dici loro “No, aspetta, guardiamoci in faccia. Chi sei? Cosa vuoi da me?”. Si presentano una alla volta, si lasciano osservare, studiare, cominci ad avere un dialogo con loro e, dunque, anche con te stesso. E avendo un dialogo con te stesso, cominci a vedere realmente chi sei, non chi vuoi essere.

Un artista può sentirsi tale senza i pubblici?
Personalmente, non scrivo principalmente per i lettori. Scrivo per me stesso. È un bisogno che ho dentro, ho bisogno di esprimermi. Non scrivo perché penso che gli altri debbano leggere i miei libri. Pensare invece che gli altri decidano spontaneamente di leggere quello che scrivo, mi fa riflettere. Mi può anche aiutare, nel momento in cui riesco ad avere un confronto. Se qualcuno legge quello che scrivo, mi da la possibilità di confrontarmi. Di avere un dialogo. È lì può diventare come uno specchio: di vedere me attraverso l'altra persona, o viceversa. Quindi ci può essere un confronto aperto su questo, ed è bello, perché credo che questo può portare a una maggiore crescita, a una maggiore consapevolezza di se stessi. Invece, per quanto riguarda i lettori con cui non puoi avere un dialogo diretto, immediato, credo che anche questo sia positivo, così come è stato per me leggere altri scritti. Non incontrerò mai tanti autori che non ci sono più e che mi hanno dato tanto, che mi hanno aiutato a capire meglio e a vedere la vita o l'esistenza in sé in maniera più lucida. Come accendere una luce in una stanza e dire: “Ecco, c'è questa parete rossa, gialla e verde”. In questo senso credo che sia bello che qualcuno faccia lo stesso con quello che anch'io racconto ed esprimo.

Che cosa significa oggi vivere come un artista e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Se dovessi vivere solo di scrittura, sarei peggio di un barbone. Non mi ha mai dato e non mi dà da vivere, nel senso economico o materiale. Questo avviene perché oggi il mondo è troppo veloce. Qualsiasi cosa si fa, se non si ha un profitto, non ha valore e nessuno si muove. Nessuno rischia per niente. Nel caso dell'arte, nessuno crea se non ha un tornaconto personale di cui è sicuro. Da questo punto di vista l'arte non esiste, è morta, non c'è più. Nessuno rischia, nessuno investe, nessuno crede. Chi lo fa, lo fa già sicuro al mille per mille che se investe uno ne ricava dieci. Ciò lo si vede da questi scrittori inventati dal business, dal commercio. Non sei uno scrittore: sei un personaggio famoso o dello spettacolo, scrivi un libro e sfondi, perché la gente ti vede in tv, nei giornali ecc. E allora non vendi quello che scrivi, quello che provi e tenti di trasmettere ad altri. Vendi la tua faccia, la tua immagine. Questo purtroppo uccide l'arte. Io non vivo della mia arte perché non faccio parte di questi meccanismi e preferisco starne al di fuori. Sacrificarsi per la propria scrittura, alcune volte, significa essere fuori dal mondo. Vivere una concezione personale che è solo tua. Nel momento in cui ti chiudi in una stanza o ti siedi sotto un albero per diverse ore e poi il giorno dopo e il giorno dopo ancora, questo ti porta a isolarti dal mondo circostante contemporaneo. Tuttavia, per me è salutare. Alcune volte percepisco quasi una preoccupazione esterna: chi mi vede pensa che io mi allontani dalla realtà. Ma non la vedo così: ho bisogno di quei momenti. Sia chiaro, è sempre un allontanarsi ma questo, se la vediamo in maniera globale, lo facciamo tutti. Tutti ci allontaniamo. Io che mi chiudo in una stanza oppure quello che passeggia alla luce del sole in una spiaggia enorme e bellissima, anche questo è isolarsi. Non è il contesto in sé, che può essere la stanza o l'aria aperta. Sei tu dentro di te che ti chiudi o non ti chiudi. È un allontanarsi dal mondo e uno scendere nelle sue profondità nello stesso tempo. Le due cose vanno insieme: non puoi andare in profondità se non ti allontani. Per andare dentro di te, quasi come un viaggio, e non è facile, devi uscire fuori da tutto quello che la vita, gli schemi, gli orari e la quotidianità ti impongono. Ma quest'ultima è un'invenzione dell'uomo. Le due cose vanno separate. C'è un mondo inventato dall'uomo con orari, schemi e tutto il resto. C'è poi un mondo interiore che non è inventato dall'uomo: è un qualcosa che tu hai. È nella natura, nell'essenza dell'essere umano. Questo non lo possiamo inventare. Puoi andare a scuola e studiare qualsiasi disciplina, ma non puoi inventare o studiare qualcosa che c'è solo dentro di te e che solo tu puoi raggiungere. Io non posso entrare dentro qualcun altro: se però vi entro, se l'altro mi offre tale possibilità, io entro fino a un certo punto, perché poi mi devo fermare. Quando entri in quest'altro mondo, è come un ingresso nella vita vera.

Cosa ti spinge a restare nella tua terra natia?
Credo che ognuno di noi ha una pianta o una radice. Anche noi abbiamo delle radici. Ciò che mi spinge a restare in questa terra è sapere che c'è un posto nella terra in cui siamo venuti al mondo e viviamo, in cui ognuno può riconoscersi più di tanti altri posti. Personalmente, è qui che sono nato e che ho vissuto determinate cose, sensazioni, emozioni, gioie, sofferenze. Per farla breve: chiunque si forma nei primi mesi e anni della vita. Da lì parte tutto, e cioè la vita che ognuno vive. Credo sia questo che mi porta sempre in questo posto. Anche se vado via, sento un bisogno quasi morboso di tornare. Perché è qui che sono nato, è qui che è nata la mia arte, la mia scrittura. Qui trovo i sentimenti, i colori, i profumi, tutto quello che sono. È stata qui la prima volta che ho pianto, che sono caduto con la bicicletta o che ho giocato al pallone. La prima volta che ho provato un'emozione di gioia, è stata quando magari mia madre ha fatto un preciso gesto. Qui ho provato quelle cicatrici non corporee ma nell'anima, positive e negative, che non posso dimenticare. Sono quest'ultime che ognuno si porta dietro. Possiamo crederci o non crederci, ma è con queste che ci siamo formati. Poi il mondo è bello da vedere, da scoprire, anche in viaggio, per formarti in maniera più completa. Ma questo è qualcosa che viene dopo.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Mi piace sognare. Sogno a occhi aperti da quando ero bambino. Sogno – e questo è il sogno di tutti – un mondo in cui il dialogo è al centro di tutto. Qualsiasi complicazione o intoppo si può risolvere col dialogo. Prima che succeda un evento, anche negativo, credo che si possa fermare col dialogo. Sogno un mondo in cui ci si può parlare, in cui ci si può comprendere guadandosi negli occhi. Al di là delle idee diverse o dei concetti opposti, che sono sempre da rispettare. Non dico che il mondo dev'essere come lo penso o lo vorrei io, perché lo vorremmo tutti un mondo a nostra immagine e somiglianza. Intendo un mondo in cui si potrebbe dialogare di più. Oggi, sia chiaro, c'è più dialogo rispetto a migliaia di anni fa, quando si faceva la guerra per niente. Viceversa, oggi si fa la guerra per cose per le quali migliaia di anni fa non si faceva. Se parliamo di sogni, questo è il mio sogno. Un mondo in cui si dialoghi di più. Un sogno è un sogno. Potrei dire altre cose ma non sono sogni perché si possono realizzare. Per esempio, potrei dire: “Il mio sogno è comprare una ferrari” ma questo non è un sogno. Per molti lo può essere, potrebbe esserlo anche per me, guardando tutto in ottica materiale. Potrei dire: “Mi voglio sposare con la donna più bella di questo mondo” ma anche questo è un sogno fine a se stesso. Una volta che questo tipo di sogno si realizza, ti accorgi che non ha più senso. Per me un sogno è qualcosa che nel materializzarsi riguarda l'universo intero e mantiene il suo significato. Sogno un mondo di dialogo, di apertura, con coscienza.

Alcune parole per i giovani.
Prima di tutto credete in voi stessi. Poi viaggiate, confrontatevi con i coetanei di altre culture attraverso il dialogo o facendo insieme delle cose semplici. Non c'è bisogno di cose troppo grandi o di trasgredire. Tutte cavolate. Quello che per te è trasgressione per me è normalità o viceversa. Quindi dipende da come la vedi. Scoprite il mondo, gli altri, cosa c'è al di là dell'orizzonte, di quella montagna, di quell'oceano. Forse solo così si può arrivare a un futuro in cui voi giovani, una volta diventati adulti, sarete tutti amici, nel senso che potrete dialogare. Il mondo è di tutti. Come diceva un mio vecchio amico, quando gli si chedeva “Da dove vieni? Da quale città o posto?”, lui rispodeva con molta semplicità: “Io non vengo da nessuna parte, io sono cittadino del mondo”. Allora, se tutti concretamente pensassimo, sognassimo, cominciassimo a dire la stessa cosa, comprendendo che il mondo è di tutti, tante cose negative si potrebbero migliorare e correggere. Sarebbe insomma una bella rivoluzione.

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