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venerdì 16 settembre 2011

L'ARTE PERIFERICA: intervista al poeta dialettale Rocco Nassi

- di Saso Bellantone
Nato a Bagnara Calabra, appassionato di dialetto, Rocco Nassi ha pubblicato due libri intitolati “Bagnara rari Bellizzi” e “Pe’ comu parru scrivu… Amari penzeri”. È stato citato nel nell’almanacco popolare “Il gran pescatore di Chiaravalle” anno 2010 e 2011. Collabora con i gruppi dialettali su Facebook, tra i quali “Parra e scrivi comu ti fici to’ mamma”, “Mottetti canzuni proverbi e detti calabrisi”, e il gruppo poetico “Solo Poesia”. Attualmente vive a Bagnara.

Come ti sei avvicinato alla poesia dialettale?
Sono nato e vivo a Bagnara e spero di morire qui. Amo il mio paese natio, perché mi ha dato tanto, soprattutto il mio amore per la poesia. Mi sono avvicinato alla poesia non per la mia bravura a scuola o per lo stile o per la grammatica eccetera bensì con la musica. Frequentando le scuole elementari e medie amavo ascoltare le poesie che avevano il senso della musicalità. Da lì è nato il mio amore verso questo tipo di letteratura. Fin da piccolo scrivevo poesie in italiano però non mi sentivo appagato abbastanza. In italiano scrivono in tanti. Dal momento che io scrivo della mia vita mi sono detto: “Perché non approfondire la poesia che è l’amore della mia vita, andando a raccontare la mia vita però in dialetto?”. Sentivo l’esigenza di sviluppare con la poesia qualcosa che era mio: il mio modo di essere un bagnaroto, di vivere i miei amici e i ricordi del mio paese. Così, ho iniziato a poetare su qualsiasi cosa, dalla mia nascita fino a ora e, affrontando tutti questi aspetti, ho deciso di pubblicare il mio primo libro, intitolato “Bagnara rari bellizzi”. Qui c’è la mia vita: si racconta di quando ero bambino, del modo di stare con gli amici e col mio paese. Poi metto in evidenza quegli aspetti familiari di un tempo, che oggigiorno tendono a svanire e che invece dovremmo recuperare, per esempio nella poesia “U capudannu ‘n famigghia”. Con la poesia racconto tante piccole storie. Ma la mia poesia non è soltanto cronaca. Vi è anche l’aspetto drammatico, teatrale. Ogni poesia può essere ironica o tragica. Inoltre, ogni poesia è colorata dal mio specifico modo di recitare, che tutti quelli che mi ascoltano e mi seguono conoscono. Nel corso del tempo, naturalmente, la cura del dialetto mi ha spinto ad approfondire anche il volto stilistico-grammaticale della poesia e questo mi ha aperto altri orizzonti. Ho scoperto che il nostro dialetto non è poi così male per raccontare storie ed esprimere emozioni, e non va banalizzato o ridicolizzato come fanno molti. Oggi, non riesco ad allontanarmi più dalla poesia.

Che cos’è la poesia dialettale?
La poesia consiste in ciò che racconta: momenti di vita, attimi. La mia poesia nasce da niente e da tutto. Da qualunque cosa: una parola, una frase, una situazione. Non è una cosa mirata, studiata, calcolata. Per esempio, in un discussione o un evento posso trovare lo spunto per fare una poesia e quando torno a casa concentro tutto quello che penso, per esempio sull’amuri, riportandolo in versi. Molte delle mie liriche nascono da casualità ma la particolarità è che nascono in dialetto. Io mi sento principalmente bagnaroto e meridionale al cento per cento. Ragiono, penso e scrivo in dialetto. Ormai, il dialetto è incarnato in me. Non esiste riesco a scostarmi da questa logica e da questa lingua a cui mi sento molto legato. I nostri detti non moriranno mai perché dicono soltanto la verità. Se io non pensassi, scrivessi, vivessi in modo dialettale, mi sentirei snaturato. È questo il mio forte legame con il dialetto: sapere di essere principalmente e carnalmente dialettale.

Cosa pensi riguardo al senso, allo scopo e agli usi della poesia, sia a livello individuale sia sociale, nel mondo contemporaneo?
Credo che qualunque cosa si scriva in poesia dialettale, anche una sola parola, è una conservazione della nostra memoria storica, del nostro attuale modo di essere ed essere stati meridionali. Qualsiasi cosa leggo di altri, è come se fosse pane per il mio cervello. Per quanto riguarda i contenuti, invece, io non mi esprimo mai. Mi concentro su tutto l’aspetto della poesia, cioè su come è stata formulata dal poeta e dico la mia soltanto se mi viene chiesta dal poeta. Non vado mai a commentare una poesia di un altro. La mia poesia, nel bene e nel male, piace, e di questo sono molto orgoglioso e soddisfatto perché forse riesce a sensibilizzare ognuno di noi. Chi mi ascolta si rivede, s’identifica nei miei versi o quantomeno scorge il passato ed il mio amore per la poesia si raddoppia. Questo è uno dei miei obiettivi: scoprire il nostro passato, come eravamo, chi eravamo e mantenere questi ricordi.

I Greci impiegavano il termine “poiein” per significare “creazione”. Poi questa parola, nel corso del tempo, si è trasformata di linguaggio in linguaggio, fino a diventare in italiano per esempio, la parola “poesia”. Quando un poeta comunica se stesso, cioè scrive una poesia, è un creatore di mondi, riproduce il mondo, crea nel senso pieno della parola. Puoi definire le tue poesie d'arte, creazioni nel senso pieno del termine?
Considero la mia poesia come una creatura, un figlio, una figlia, mio padre, mio padre, come qualcosa che mi appartiene o una persona a cui voglio bene. In questo senso e soltanto in questo, per me è creare, fare poesia. Ma per quanto mi riguarda, poesia è ciò che si avvicina di più al dialetto. In qualsiasi posto andiamo o ci troviamo, infatti, il dialetto è famiglia, unione, calore, affetto. Artisticamente è meraviglioso, perché uno va a curare questo tipo di aspetto e lo fa proprio con chi gli vuole bene. Per me la poesia è questo. È una creatura.

Perché scrivi poesie? Perché senti l’esigenza di comunicare mediante l’arte della poesia?
Per varie ragioni, come quelle appena accennate. Ti ho spiegato di che cosa parla “Bagnara rari bellizzi”. Poi ho fatto anche “Pe’ comu parru scrivu”. Qui si trova la mia protesta personale verso il mio paese, ne ricostruisco gli aspetti negativi però li porto sempre nella lettura e nell’ascolto in modo ironico, per fare capire ancora di più alla gente la poesia sia sul piano della recita e della scrittura, sia su quello della protesta. La proposta è difficile da fare poeticamente, un poeta deve mettere in evidenza il problema. Per esempio, in questo libro, affermo: Mentimu ‘a facci. Cioè ognuno di noi si faccia avanti e dica la sua. Ecco la proposta, quando è possibile, non può mancare, nemmeno nella poesia.

Che cosa racconti nelle tue poesie dialettali?
Oltre che protestare, racconto il mio amore. Tutto si fa per amore. Si scrive per amore perché si ama la casa, la famiglia, la moglie, i figli eccetera. Se non c’è l’amore non si fa nulla. Se ognuno di noi mettesse un pochino di quell’amore che proietta su propri cari, allora il paese sarebbe diverso e tanti altri problemi no ci sarebbero. Per esempio, ci si lamenta del comune ritenendo che è tutto dovuto. Ma io mi chiedo: “Noi, cittadini, facciamo qualcosa perché questo comune funzioni bene?”. L’amore riguarda tutto, non soltanto i familiari o la poesia, ma tutto quello che è nella vita e nella nostra società.

Un poeta può sentirsi tale senza i pubblici?
Se la mia poesia non è sentita dagli altri, è qualcosa di personale: è sempre un sentimento, qualunque sia il soggetto. La mia poesia piace alla gente perché il mio messaggio viene ascoltato, colto, viene personalizzato ma anche perché piace ascoltare il nostro dialetto così come lo recito. Non dimentichiamoci che ogni mia poesia è musicata e recitata. La recita del verso per me è importante, mi soddisfa in pieno. Forse è proprio la recita a far sì che la gente mi ascolti e mi apprezzi. Quando si crea questo legame con la gente, questa familiarità, non desidero altro. Questo contatto che mi rende felice.

Che cosa significa oggi vivere come poeti e vivere esclusivamente della propria arte? Quali sacrifici comporta accettare questo incarico, questa missione?
Per me la poesia non è un sacrificio. Mi hanno sempre chiamato poeta fin da piccolo perché ho sempre scritto poesie, ma non so se sono un poeta. Questa valutazione spetta alle persone. So che mi hanno dato questo nomignolo e a me sta bene. Anzi, devo essere orgoglioso di questo. Io lascio tutto al giudizio delle persone. Su Facebook collaboro ad alcuni gruppi dialettali nei quali metto tutte le mie poesie e lascio il giudizio della gente. Questo perché voglio capire ancora oggi se effettivamente la mia poesia colpisce la gente, se piace o non piace. Ad alcuni sì, ad altri no. Io non so se sono effettivamente un poeta nel senso pieno della parola. Io so chi è l’uomo Rocco Nassi, non il poeta. Ogni mattina, come tutto il resto della mia vita, da quando ne ho compresa l’importanza, rifletto su molte cose. Nella vita non si comprende l’importanza del pensare subito. Ognuno ha i suoi tempi. Personalmente, ho iniziato a capire certe cose da 17 anni in su, più o meno. Prima non capivo. Ero un ragazzo che cresceva per giocare, per pensare ad altre cose ma non alle cose reali. Da allora, ogni giorno della mia esistenza è dedicato alla riflessione. Io vorrei che in tutto quello che abbiamo e facciamo a Bagnara, dal più piccolo al più grande, ci sia amore. Faccio un esempio. Faccio parte di un’associazione, ho partecipato alla Società Operaia, alla Sagra del pesce fritto, del pescespada eccetera. Tutto questo lo faccio con piacere e ci metto tutta la passione e tutto l’amore possibile. Perché faccio queste cose? Perché credo che se si fa qualcosa in modo personale, come fosse della propria famiglia, tutto sarebbe diverso. Io non sono per la distruzione o per la critica distruttiva, ma per quella costruttiva. Ogni qualvolta succede qualcosa e chiedono la mia disponibilità per un evento, lo faccio con entusiasmo e lo considero come la mia famiglia. Ovunque vado, voglio che tutti i componenti che sono seduti con me abbiamo rispetto l’uno con l’altro, ascoltandosi. Non gradisco quando uno dice una cosa e l’altro che non è d’accordo se la prende a male e fa di tutto per distruggere quel che si era costruito. Preferisco che ci siano i pareri, anche contrari, e che alla fine tutto quanto porti alla conservazione di quel che è stato fatto.

Che cosa ti spinge a restare nel Sud?
Da ragazzo ho tentato di prendere un posto nella ferrovia e ho chiesto qualche raccomandazione. E mi sono vergognato. Ho rinunciato a un posto nelle poste per tre mesi e per tanto tempo mi sono chiesto “Perché non ci sono andato?”. Poi questo grande amore di cui ti parlavo (la poesia) mi ha portato a dire: “Caro mio, nessuno ti dà niente”. E questo non l’ho detto io. È una frase che rimarrà per secoli. Nessuno ti aiuta. O ti fai una cosa per i fatti tuoi o decidi di abbandonare il tuo paese e come va va. Parti all’avventura come partivano tantissimi nostri antenati e nonni. Siccome questo paese è la mia carne, ormai è dentro di me, fa parte del mio essere, ho deciso di restare qua. Mi sono convinto di fare le cose da solo, mi riferisco all’attività lavorativa, ho fatto un po’ di tirocinio e poi mi son messo in privato. Una volta sono stato per un mese in Polonia, per miei problemi personali, e lì è nata “Ndi tìa vozi tornari”. La parte finale di questa poesia dice: “Girai tutto ‘u mundu ma paìsi ‘i stessi no’ ndi trovai. Amici cari restati ccà e no ‘bbandunati mai”. Cioè il mio è un voler dire a tutti quanti: “Attenzione noi abbiamo un bene che si vede, che è alla vista di tutti però noi lo distruggiamo e non facciamo niente per migliorarlo. Il problema siamo noi. Io voglio restare qua per continuare a mettere in evidenza questo.

Puoi definirti un sognatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Sono un sognatore per natura, nel senso che sogno, però non sono un sognatore nella vita. E credo che chi sogna troppo sbaglia. I sogni glieli lascio ai bambini perché è giusto che i bambini sognino però man mano crescono devono capire che non tutti i sogni sono realizzabili. Il sogno non è reale, vero al cento per cento: può esserlo, ma per me non va bene. Io sono o per il sì o per il no. Realizziamo o non realizziamo, si può o non si può. Occorre essere realisti.

I titoli dei tuoi primi due libri sono: Bagnara rari bellizzi e Pe’ comu parru scrivu… Amari Penzeri. Di che cosa parlano, rispettivamente?
Il primo parla della mia vita, della vita dei miei compaesani, di antichi uomini e donne che non ci sono più, della bellezza di questo paese. Cerco di raccontare, amodo mio naturalmente, tutto quello che hanno visto i miei occhi. Il secondo, “Pe’ comu parru scrivu… Amari penzeri”, è diverso. Qui i penzeri sono amari anziché duci, però non possono essere altrimenti. Ogni mia pubblicazione futura, uscirà sempre con la parte ironica e quella tragica. Questa parte per me è importante. Non smetterò mai di pensare che le mie poesie non siano poesie teatrali. Perché è il giusto messaggio al giusto argomento. Non ci dimentichiamo che parliamo di dialetto, cioè di vita paesana, nella quale c’è soprattutto questo aspetto. Io non lo dimentico e non voglio che altri lo dimentichino. Faccio un esempio. Chiunque scrive, anche io stesso, tendiamo a storpiare il dialetto con l’italiano o viceversa, e questo da molto fastidio. Molti dimenticano che chi scrive poesie, specie in dialetto, non può fare a meno di scrivere veramente in dialetto, e ciò è un controsenso. Invece loro si giustificano parlando dell’evoluzione della lingua. Io sono d’accordo ma quest’ultima non può essere un taglio drastico. Cioè se io dico una cosa in dialetto e poi scrivo una cosa in italiano, che non ha niente a che fare col dialetto, è li che cozza. Per esempio, il termine vandiari non è la stessa cosa di vindìri. ‘U vindiri è riferito al fatto che tu vendi qualcosa, ‘u vandiari significa che tu vai a gridare, a pubblicizzare il tuo prodotto. ‘U vandiari è una nostra caratteristica. Per esempio, in una poesia ho messo tenori ‘i vita. Ho dovuto farlo perché “tenori” in dialetto non esiste. Dovevo andare a trovare un termine. In quel momento non lo trovai e misi “tenori”. Un altro esempio. In una poesia “Capudannu ‘n famigghia”, nel verso sotto ho messo brindari e nella parte di sopra ho messo struzzari, che è un termine dialettale. Perché ho usato “brindari”? Perché mio zio, che non è del Sud, diceva “brindamu” e io ho messo “brindari” in ricordo di lui. Chiaramente non tutti lo sanno. Quindi occorre non dimenticare la vera parola dialettale e aprirsi a un nuovo termine quando occorre. Per questo motivo, ho fatto il gruppo su Facebook, “Parra e scrivi comu ti fici to’ mamma”, lasciando a tutti la possibilità di scrivere qualunque cosa che non sia legata a un modo di dire, a un proverbio eccetera, perché questo servirà come conservazione della memoria storica dialettale. Pochissimi, però, hanno capito il senso di questa pagina. Molti mi hanno fatto degli appunti sul mio modo di recitare, cantilenante, in quanto la mia poesia dialettale è musicata. Mi sono chiesto perché la gente mi facesse notare questo e ho fatto una ricerca. Nel corso della storia, di persona in persona, pur in epoche diverse, si ripete ciclicamente qualcosa. Quello che ho pensato io adesso lo ha già pensato uno del Settecento. Nella ricerca ho scoperto che la lirica, anticamente veniva cantata. Io non so se è una cosa ereditaria, però molte volte parlo, recito e dico le mie poesie con quella caratteristica: cantando. Perché per me è così.

Oltre ad acquistare i tuoi libri, chi desidera saperne un po’ di più su Rocco Nassi e la sua poesia, dove può rivolgersi?
Alcune parole per i giovani.
Avvicinatevi alla letteratura, qualunque essa sia, italiana o dialettale, perché avete tanto da imparare da essa e nulla da perdere. Nelle parole della letteratura, forse un po’ strane, è racchiuso il nostro modo di essere meridionali. Lì è la storia meridionale. Lì possiamo capire se sono venuti qui i greci, i romani, gli arabi, i francesi, gli spagnoli e tanti altri ancora. La nostra lingua testimonia questo. E allora non c’è nulla da vergognarsi se noi usiamo termini dialettali che non sembrano somigliare all’italiano. Al contrario, è qualcosa di cui essere orgogliosi. Quindi, avvicinatevi alla letteratura, qualunque essa sia. Se però preferirete quella dialettale, è chiaro, mi renderete felice.

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