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venerdì 2 dicembre 2011

L'ESSENZA DELLA GLOBALIZZAZIONE: dentro e fuori Platone (3.2)

- di Saso Bellantone
Come si è visto (3.1), la definizione platonica del termine filosofia come “amore per il sapere” acquista senso unicamente mediante due punti di riferimento, Socrate e la dottrina dei due mondi, senza i quali crolla non soltanto quella definizione ma tutta l’impalcatura platonica. Quel che spinge Platone a concepire la sua determinazione della filosofia e a porsi il problema della conoscenza, non è però l’amore per il sapere, il suo desiderio cioè di ricercare instancabilmente la verità, ma un avvenimento concreto, politico: la condanna a morte del maestro. Se questo accadimento non si fosse verificato, Platone molto probabilmente non avrebbe scritto nulla e, oggi, non conosceremmo né la sua definizione della filosofia né la sua dottrina dei due mondi, e forse, quel che oggi denominiamo con il termine filosofia sarebbe tutt’altro. Può anche darsi che avrebbe scritto lo stesso, ma chissà se le questioni da lui affrontate sarebbero state le medesime oppure differenti da quelle pervenuteci. Comunque sia, quel che è certo è che Socrate fu condannato a morte e questo fatto influì a tal punto su Platone da spingerlo a scrivere i suoi dialoghi, il cui protagonista è appunto Socrate. La morte del maestro, dunque un avvenimento politico e non gnoseologico, è la scossa tellurica che spinge Platone a scrivere, a occuparsi cioè del problema della politica in seno al problema della conoscenza, e non viceversa. Perché però Platone comincia a scrivere dopo questo fatto politico e non lo fa prima? E soprattutto, perché affronta la questione della giustizia in seno alla questione della conoscenza?
Per sciogliere questi interrogativi, occorre considerare alcuni fatti rilevanti. Innanzitutto, Platone è un allievo di Socrate. Quando s’incontrano per la prima volta, Socrate influisce a tal punto su Platone da spingerlo a distruggere tutti i suoi componimenti poetici giovanili, per dedicarsi esclusivamente al sapere. Se Socrate riesce a causargli una reazione del genere, allora è evidente quale influenza possa aver avuto nei confronti del suo allievo, mediante i suoi insegnamenti. Dopo l’incontro, adottandolo come maestro, Platone molto probabilmente stabilisce con Socrate un legame così stretto e morboso, da considerarlo il punto di riferimento per il proprio pensiero e per la condotta da tenere nella pòlis. In questa cornice, la morte del maestro rappresenta per Platone uno shock, una sisma psico-fisico che lo condiziona per il resto dei suoi giorni: Platone è orfano della sua stella fissa, la cui luce, però, ha lasciato in lui un segno indelebile.
Altro fatto indicativo. Secondo Diogene Laerzio, dopo la morte del maestro, assieme ad altri allievi, Platone si reca prima a Megara, poi a Cirene, infine in Italia presso i pitagorici Filolao ed Eurito. Perché Platone lascia Atene, dal momento che la condanna a morte riguarda soltanto il maestro? Che cosa c’entra lui con Socrate? Perché fuggire? Forse prova paura? Forse si sente a disagio nell’essere additato come allievo di un empio e di un corruttore dei giovani? Non si sa che cosa gli sia passato per la mente in quel momento, ma è chiaro quanto Platone possa sentirsi sconvolto a causa della morte del maestro. La conoscenza di Filolao ed Eurito è molto probabilmente l’accesso al farmaco capace di curare quello sconvolgimento interiore. Per loro tramite, Platone conosce la concezione della trasmigrazione delle anime, cioè una delle credenze alla base del movimento esoterico e mistico-religioso di cui Filoalo ed Eurito fanno parte, che diventerà il fulcro del pensiero di Platone e della sua dottrina dei due mondi. Non a caso, dopo la conoscenza dei pitagorici, Platone comincia a scrivere i suoi dialoghi. Perché però il protagonista dei suoi scritti è quasi sempre Socrate? Che cosa c’entra il maestro con quel movimento esoterico e mistico-religioso? Il fatto che il personaggio principale dei suoi dialoghi sia Socrate, dimostra che a Platone non interessa la conoscenza, esoterica o meno, della verità. Platone non ha digerito la morte del maestro: l’apprendimento delle dottrine pitagoriche, è lo strumento col quale affrontare questo chiodo fisso. Ma Platone vuole svolgere un’apoteosi di Socrate oppure ha di mira un altro scopo?
I suoi tre tentativi falliti di riformare Siracusa (388 a. C., 364 a. C., 361 a. C.) e alcuni specifici eventi – di ritorno dal primo, viene fatto schiavo e una volta liberato torna ad Atene dove fonda l’Accademia; nell’ultimo, è addirittura imprigionato dal tiranno Dionigi il Giovane – evidenziano come lo scopo principale di Platone non consista nell’apoteosi del maestro o, meglio, non soltanto in questo ma in qualcos’altro. Quale affinità avrebbe la morte di Socrate (un fatto politico ateniese) con il tentativo di riformare Siracusa (un fatto politico extra-ateniese)? E poi, perché Platone tenta di riformare Siracusa e non Atene? Ad Atene Platone non ha alcun appoggio politico, inoltre in quel periodo la città è insicura, perché è continuamente coinvolta nelle guerre con Sparta e Tebe prima e sotto l’influenza macedone poi. A Siracusa invece Platone ha l’appoggio di Dione, che condivide le sue proposte di riforma politica della città.
Dopo l’incontro col pitagorismo, Platone comincia a scrivere i suoi dialoghi, il cui protagonista è Socrate, ma il suo intento non è una divinizzazione del maestro. Se così fosse, come spiegare i suoi continui tentativi di riformare Siracusa, città che non ha nulla a che vedere con Socrate e con Atene? Il chiodo fisso di Platone è la morte di Socrate non come fenomeno della vita ma come evento politico, che riguarda cioè la giustizia, la legge che ha condannato a morte il maestro. Dopo la dipartita di quest’ultimo, Platone fugge da Atene perché ha paura di fare la stessa fine di Socrate, per mano della legge ateniese. Presso i pitagorici, trova lo strumento per liberarsi di questo suo chiodo fisso, ma dal momento che ad Atene non ha agganci politici tenta di usare tale strumento presso Siracusa, dove invece è sostenuto da Dione, ma invano.
Platone non fa differenza tra Atene e Siracusa in relazione al problema che lo assilla, il quale non è la giustizia (o la legge) di una singola città. La legge ateniese ha mandato a morte il maestro e lo ha costretto alla fuga, per evitare di fare la stessa fine, ma quella siracusana lo ha condotto una volta in schiavitù e un’altra volta in prigione. Il problema dei problemi di Platone è la legge delle pòleis greche – la giustizia degli uomini, la legge, verità sulla terra – all’interno delle quali gli amanti del sapere, come Socrate e lui stesso, non contano nulla e il cui sapere è inutile perché conduce alla morte, alla schiavitù, alla prigionia. Platone teme, odia la legge “umana”, quella cioè delle città greche, perché nei suoi confronti è impotente, e vuole esorcizzare una volta per tutte questa paura, vuole vendicarsi. Se Socrate, che sapeva di non sapere, è morto perché era impotente rispetto alla forza di legge (anche della tradizione) della città greca, Platone si rende conto che deve fare diversamente, cioè che deve mettersi in condizioni di essere “più forte della legge di qualsiasi città”, di essere il più potente di tutti e di scansare una volta per tutte la morte, la schiavitù, la prigionia. La figura di Socrate e il volto esoterico e mistico-religioso del pitagorismo sono il martello e l’incudine con i quali risolvere il suo enigma e realizzare la sua vendetta, che altro non è se non un progetto di potere universale: creare una nuova giustizia, una nuova legge alla quale assoggettare tutte le città greche, nessuna eccezione. Platone, però, non può far scoprire il suo reale intento. Per questa ragione, conferisce alla sua giustizia le sembianze di un sapere di origine sovrumana, sovrannaturale, divino, ma di fatto proveniente da lui stesso, usando: il volto mistico-religioso del pitagorismo, con il quale sdoppia la realtà in mondo vero (superiore ed eterno) e mondo apparente (inferiore e provvisorio); la figura del defunto Socrate, ignorante in vita, che accedendo nel mondo vero e dialogando con gli dèi diviene sapiente, cioè conoscitore della verità assoluta delle cose. Platone usa le figure degli dèi perché conta attraverso di loro di far presa sul timore divino dei popoli greci, che li venerano già prima dell’ellenismo e della formazione delle pòleis.
Come farà Paolo di Tarso più avanti, nelle sue Lettere, con la figura del Messia Gesù, Platone disegna a proprio piacimento, nei suoi Dialoghi, la figura di Socrate, puntando al suo progetto di potere universale, ossia alla creazione di una nuova giustizia, superiore a quella umana, ma in fin dei conti, come direbbe Nietzsche, “umana, troppo umana”, in quanto è soltanto la sua invenzione. Tutto il platonismo non è altro che una creazione continua ad opera di Platone, il quale non scopre verità ultime ma esprime le proprie opinioni conferendo loro le sembianze della verità, per realizzare i propri scopi. Il cuore pulsante, tuttavia, della sua invenzione è la sdoppiamento del mondo. Con questo gesto, Platone inaugura un modo di pensare che attraversa la storia dell’Occidente, denominato da Aristotele (lo vedremo più avanti) metafisica.
La divisione della realtà tra mondo vero e mondo apparente, consente a Platone di ragionare per differenza. Dal momento che vuole abbattere la giustizia umana, cioè di “questo” mondo, per impiantarne una nuova – la sua – Platone s’inventa un “altro” mondo che impiega per ottenere i suoi scopi in “questo”. Platone colloca la propria giustizia, il proprio sapere, se stesso nell’Iperuranio e delimita la giustizia e il sapere umani e tutti gli altri uomini nell’esistenza. Situando il centro di gravità dell’esistenza nell’“altro” mondo – che, in fin dei conti, è lui stesso – Platone comincia a pensare in modo ambivalente, Nietzsche direbbe in termini di valore e disvalore, declassando l’esistenza e potenziando l’Iperuranio. In altre parole, scioglie le coppie bene/male, bello/brutto, vero/falso, anima/corpo, immateriale/materiale, immortalità/mortalità, dèi/umani, eterno/provvisorio, uno/molteplice e via dicendo, assegnando le seconde all’esistenza e le prime all’Iperuranio. In questo modo, l’Iperuranio diventa il punto di riferimento dell’esistenza, la dimora di ciò che vale (essere), mentre l’esistenza la patria di ciò che non ha valore (non essere). Tutti gli avvenimenti terrestri in confronto a quelli sovra-terreni perdono di senso, a meno che non sono proiettati verso gli “altri” o non ne divengono un riflesso. La genialità di Platone consiste nel conferire alla sua giustizia le sembianze di una sapienza. Dal momento che esiste una giustizia superiore a quella del mondo transeunte, per regolare la propria condotta (all’interno della/e città) ed essere giusti, gli esseri umani non devono limitarsi a quella del mondo inferiore ma devono orientarsi in direzione dell’altra. Per farlo, però, occorre sapere dell’esistenza di questa “altra” giustizia, bisogna conoscere la verità: il mondo “superiore”. Ma come è possibile conoscerlo? E qui c’è l’altra intuizione geniale di Platone: sfruttare l’idea della trasmigrazione delle anime per dare centralità alla figura del sapiente, cioè se stesso.
La conoscenza della verità, della giustizia superiore, è possibile soltanto alle anime staccate dai corpi. Dal momento che queste, però, incarnandosi nuovamente in un altro corpo, la dimenticano, tutti gli esseri umani (fatti di corpo e anima) vivono continuamente all’oscuro della verità, cioè ingiustamente. Per fortuna loro, tuttavia, vi è un essere umano la cui anima, pur incarnatasi, ricorda la verità e può farla ricordare ad altri, consentendo loro di vivere giustamente. Chi è costui? Il sapiente, il filosofo, Platone stesso.
Naturalmente, Platone non può additare se stesso come unico conoscitore della verità e della giustizia superiore, altrimenti metterebbe in pericolo il proprio progetto di potere universale. Per questo motivo, usa la figura del defunto Socrate che dialoga con gli dèi e che trasmette questa sapienza ai discepoli, dunque anche a lui. Definendo Socrate un filosofo – colui che in vita è andato perennemente in cerca del sapere, scoperto soltanto nella morte, questo è il messaggio principale che trapela dai dialoghi platonici – Platone qualifica alla stessa maniera anche se stesso. Chi è il filosofo? Chi possiede un vago ricordo della verità, cioè della giustizia superiore, e che, continuando a ricercarla instancabilmente, ha il compito di farla ricordare ad altri mediante il dare e ricevere discorso. Dal momento che, però, la parola non esprime la verità nella sua interezza – perché è un fatto umano, mentre la conoscenza della verità è un fatto sovrumano, una visione esclusiva all’anima staccata dal corpo – il dare e ricevere discorso può bastare: ecco un’altra genialità di Platone. Per comunicare la verità e farla vedere agli esseri umani così come l’anima la scorge quando è staccata dal corpo, sceglie di impiegare il mito. Quest’ultimo non narra avvenimenti storicamente esatti (si pensi a Omero per esempio), ma per i Greci ha la funzione di mantenere la memoria di alcuni eventi passati, malgrado nel tempo tali racconti subiscano delle trasformazioni e degli adattamenti. Platone ricorre al mito non soltanto per esprimere i momenti chiave del suo pensiero e della sua giustizia, ma per rendere tutti i suoi dialoghi un immenso mito. Le conversazioni socratiche con gli dèi e con i discepoli, nella loro funzione rappresentativa-simbolica, sono capaci di trasmettere nell’immediato i contenuti del racconto stesso, cioè il pensiero di Platone, la sua giustizia.
La concezione platonica dello Stato è il fiore all’occhiello del pensiero di Platone, della sua giustizia. Per essere giusto, ossia partecipe della verità, il mondo terrestre dev’essere regolato, sulla base di quello ultraterreno e l’unico che può farlo è il sapiente, il filosofo, Platone stesso. Diversamente dai commercianti e dai guerrieri che badano agli interessi personali e ignorano l’Iperuranio, il filosofo, che invece conosce quest’ultimo, è l’unico capace di ordinare lo Stato e di legiferare in modo giusto, consonante cioè all’Iperuranio stesso. Socrate è una figura rimasta nella memoria dei Greci e nei dialoghi platonici si manifesta come l’unico conoscitore della verità, della giustizia superiore. Però è defunto. A chi è possibile rivolgersi, in “questo” mondo, per diventare sapiente e vivere giustamente? Soltanto a chi ne racconta le gesta ultramondane ed è stato suo discepolo: Platone. La concezione platonica dello Stato è la conferma del suo progetto di potere universale. Non a caso va per tre volte a Siracusa: Platone vuole realizzare la sua giustizia, sostituirla a quella terrena, vigente nelle pòleis. Platone vuole il potere dei poteri, vuole governare. Malgrado in teoria abbia costruito un sistema di pensiero e una giustizia efficace per realizzare la sua vendetta contro la legge terrestre, in pratica tuttavia non c’è riuscito.
Alla luce di queste considerazioni, la definizione platonica del termine filosofia acquista un nuovo senso. L’“amore per il sapere” è una determinazione funzionale al pensiero di Platone, alla sua giustizia, ai suoi scopi reconditi; non ha un senso gnoseologico in quanto tale né esistenziale. È l’atteggiamento di quell’essere umano che, nello scenario di una realtà spezzata tra mondo vero e apparente, è chiamato a organizzare il secondo sulla base del primo, il filosofo. Come si è visto, però, questo sdoppiamento del mondo è soltanto un’invenzione di Platone per ottenere il potere, per sostituire la sua giustizia a quella delle pòleis. L’“amore per il sapere”, in altri termini, è la maschera che Platone stesso indossa per conseguire il suo progetto. Una finzione che, nel quadro del mondo sdoppiato, deve indurre gli altri a eleggere il filosofo, cioè Platone stesso, al governo della città. Tutto il sapere di cui Platone parla non è altro che una sua trovata, geniale senz’altro, per il potere, ma in quanto tale, è soltanto un’illusione. La filosofia, dunque, è un’illusione.
Nel corso della storia dell’Occidente, tuttavia, la trovata platonica è considerata come vera, non come fittizia. Platone inaugura un modo di pensare attorno al quale si basa buona parte della storia dell’Occidente, denominato da Aristotele (lo vedremo più avanti) metafisica. Il platonismo, il cui epicentro è il concetto di mondo vero, non è altro che una teoria sulla giustizia, un pensiero politico dalle sembianze gnoseologiche. La filosofia non esiste. Quel che oggi denominiamo filosofia è soltanto platonismo, cioè l’esclusivo pensiero di Platone, la sua giustizia: un inganno. La filosofia è soggettivismo, una creazione di Platone e, malgrado ciò, resta una delle ombre che condizionano la storia dell’Occidente. Nonostante sia un artificio, il concetto platonico di “mondo vero” ha fortuna. L’Iperuranio, così come Platone lo immagina, è lo spazio che detiene tutte le qualità positive dell’esistenza, mentre quest’ultima è soggetta a qualità negative. È la patria della verità, della giustizia, della bellezza, dell’immortalità, dell’anima, di Dio, dell’eternità, dell’unità, mentre l’esistenza è la dimora della falsità, dell’ingiustizia, del brutto, della mortalità, degli uomini, del transitorio, della molteplicità. Il concetto di “mondo vero” è il solco sul quale s’installerà Aristotele per edificare l’altra ombra che pervade la storia dell’Occidente e che costituisce l’essenza della globalizzazione.

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