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mercoledì 24 novembre 2010

MALEDIZIONE DEL CALCIO

- di Saso Bellantone
È una consuetudine, oggigiorno, lagnarsi di due fenomeni, apparentemente diversi ma profondamente legati tra loro, a causa dei quali la nuova era sembra mostrarsi, anziché un progresso, una degenerazione totale. Si parla cioè di crisi dei valori e di crisi economica, lamentandosi melodrammaticamente con chiunque che tutto è peggiorato, che non ci sono più valori, che non si arriva a fine mese, che la fine del mondo è vicina e simili. Ma appena si presenta l’occasione, si taglia su due piedi la messinscena apocalittica, romantica, messianica o critica, si abbandona tutti e ci si reca nel posto più adatto – in casa propria, nei circoli, allo stadio – per seguire come indemoniati lo sport più famoso del mondo: il calcio. Quanta ipocrisia. Nessuno sottolinea come quelle crisi dipendano anche da questo sport (e da altri, naturalmente). Nessuno evidenzia come, d’altro canto, il calcio rispecchi la bestialità dominante l’era contemporanea, la ripugnante lontananza umana dalla civiltà, provocata dall’avidità di fama, di denaro, di potere.
Una volta, quando ancora non si parlava di crisi economica e di crisi dei valori (perché c’era la povertà), il calcio era un gioco, limitato nel tempo e negli spazi sociali. Costava poco o nulla. Era un luogo dell’incontro con l’altro che richiedeva disciplina, spirito di sacrificio, voglia di imparare e, per chi andava a scuola, almeno la sufficienza in tutte le materie. Era un’occasione per conoscere degli amici, per aggregarsi e scambiarsi l’un l’altro amicizia, simpatia, rispetto, fiducia, cura, aiuto, comprensione, dialogo, emozioni sincere. Era un’esperienza formativa di vita: s’imparava l’uguaglianza, a stare in comunità, il lavoro di squadra, a gioire e a soffrire insieme, il rispetto per ognuno. Era un punto di riferimento per tutti, un modo per affrontare assieme agli altri i problemi quotidiani di ognuno. Incarnava la speranza di poter cambiare le cose, di poter realizzare i propri sogni, indipendentemente dal fattore economico. Era un evento, una festa, una piacevole distrazione sotto controllo.
Oggi, nel tempo della crisi economica e della crisi dei valori (perché c’è benessere e consumismo), il calcio è un business senza tempo e senza spazio, perché è onnipresente. È un’epidemia cronica sfrenata ma anche una gallina dalle uova d’oro (per alcuni). Non è soltanto un investimento economico ben programmato ma anche uno spreco di tempo, di salute e di vita. Una moda, un lavoro serio, una possessione diabolica, una competizione continua contro tutti per guadagnare fama, ricchezza. Un luogo della disuguaglianza, della solitudine, dell’illusione, dello sfruttamento, dell’inimicizia, dell’antipatia, dell’insolenza, della diffidenza, del menefreghismo, della disattenzione, dell’intolleranza, della rabbia, dell’avvilimento, della sregolatezza, dell’incomprensione, dell’abbandono, della disumanizzazione, della corruzione, dell’infelicità, della vuota chiacchiera. Un luogo della cattiveria, dell’offesa, del razzismo, dell’ignoranza, della stupidità, della rissa, dello scompiglio, del sangue e della morte. Un luogo selvaggio, della decadenza dei costumi, della morale e dei valori.
Malgrado ciò, la gente continua con i propri infidi melodrammi e non smette di adorare il calcio più di ogni altra cosa, lasciandosi degenerare. Se nell’era contemporanea il calcio può essere soltanto questo, allora “Che il calcio sia maledetto!”. Se invece può tornare a essere ciò che era un tempo, allora occorre rendersi conto che questa metamorfosi può originarsi esclusivamente per effetto di un’altra: la nostra.

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