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martedì 23 novembre 2010

OPIUM di Maxence Fermine

- di Saso Bellantone
Ognuno di noi, fin dalla infanzia, s’innamora di qualcosa e promette a se stesso di volerne sapere tutto. È un patto che inconsapevolmente stipuliamo con le sorgenti remote e sconosciute della nostra volontà, un invisibile contratto che ci spinge inevitabilmente a sapere di più e ancora di più a proposito di quel che amiamo. L’amore non possiede perché e non conosce il senso di se stesso. Proprio come il sapere. Entrambi vagano nel limbo dell’esistenza desiderosi di scoprirsi, ma ogni passo che li avvicina al proprio senso contemporaneamente li allontana da esso. L’amore e il sapere sono prigionieri di questo spleen, sono schiavi di questa interminabile caccia tra l’ignoto e il pericolo. Pur bramando se stessi, non possono conoscersi, non possono trovarsi. Se ciò accadesse, subitaneamente si smarrirebbero, divenendo altro da sé. Ma prima o poi tutto varca la soglia dell’impossibile e accade l’inatteso: l’etereo accordo si sfalda, l’amore diviene un ricordo, il sapere una visione e l’incoscienza la consapevolezza di aver vissuto davvero e di voler ricominciare tutto daccapo.
Nel suo Opium (2002), Maxence Fermine racconta la storia di Charles Stowe, avventuriero del the, la spezia che ama fin da bambino. L’amore per il the e il desiderio di conoscerne e gustarne le tre qualità vietate al commercio (verde, blu e bianco), lo spingono a intraprendere un viaggio in Cina. Qui, l’apprendimento dei segreti del the finisce per coincidere con la scoperta del vero amore e dell’oppio. Ma la conoscenza di questi ultimi gli fa capire che se l'amore e l'amaro benessere dell'oppio possono finire, invece «la vita è l’oppio di cui non ci stanca mai» (p. 165).

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