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giovedì 11 novembre 2010

LA POLITICA SECONDO LA METAFORA DELLA SCRITTURA

- di Saso Bellantone
Ultimamente molti amici e conoscenti mi hanno rivolto la stessa esortazione: “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”. A seconda dei casi, ho annuito, ho dissentito, ho sorriso, ho digrignato i denti, ho fatto finta di nulla, ho simpatizzato, ho disputato, ho capito, ho frainteso ma ho sempre riflettuto a lungo sulle parole che mi sono state rivolte. Oggi ho deciso, cari lettori, di rendervi partecipi di queste riflessioni.
Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”. Quest’espressione può essere interpretata in vari modi: come un luogo comune, un detto di circostanza, un suggerimento ispirato da sentimenti benevoli oppure ostili, una follia. Eppure dà da pensare e può rappresentare qualcosa di più rispetto a tutto ciò che è stato appena elencato: ossia, una metafora con la quale soppesare il rapporto che intercorre tra il politico e i cittadini.
Quando qualcuno mi sollecita “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”, è uno shock. La frase testimonia certamente che chi l’ha pronunciata è un mio lettore o per sentito dire sa che scrivo. Il mio trauma però non proviene dal tentativo di capire il perché sono stato esortato in questo modo. Riguarda, invece, i chiari messaggi che la proposizione stessa comunica. Chi la pronuncia
1) si raccomanda a me;
2) mi esorta a fare quel che faccio in modo buono.
Questi messaggi sono inquietanti, principalmente perché chi li lancia è un vago conoscente o uno sconosciuto. Con il primo messaggio, il mio interlocutore si raccomanda a me. Raccomandarsi significa affidarsi totalmente a qualcun altro, il quale è obbligato, senza possibilità di fuga, a prendere su di sé chi si affida a lui. Mi chiedo: come posso prendere in carico la raccomandazione che costui mi rivolge? Mediante il secondo messaggio: fai quel che fai in modo buono, nel mio caso “scrivi articoli buoni!”. Buoni? In che cosa consiste la bontà di un articolo, secondo il mio interlocutore? Costui non lo specifica però ripete: “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”. Mi rendo conto che un articolo non è qualcosa di commestibile, dunque non può essere buono né cattivo per il palato. Dunque, immagino dovrebbe rinviare a una morale, al giudizio sul bene e sul male, e orientarsi in qualsiasi argomento in questo senso. Dal momento che il mio interlocutore non specifica qual è la sua concezione del bene e del male, dalla quale è possibile trarre ciò che è buono e ciò che è cattivo, devo lavorare di fantasia e fare quel che faccio in modo buono per il mio interlocutore diventa un’impresa ardua.
La frase “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”, assorbe il destinatario (scrittore) nella raccomandazione e nell’esortazione del mittente (lettore). Raccomandandosi, il mittente consegna totalmente se stesso al destinatario, senza ripensamenti. L’esortazione è un rafforzativo di questo atto di affidamento e il destinatario deve obbligatoriamente prendere su di sé il mittente e averne cura, facendo quel che fa in modo buono per lui (scrivere articoli). All’oscuro della concezione del bene e del male del mittente, il destinatario scrive articoli brancolando nel buio e sperando di azzeccare il gusto del mittente. Ma quando il mittente diventa giudice, si spalanca la voragine dell’assurdo.
Scrivendo un articolo bianco, il mittente si lamenta dell’assenza del nero o degli altri colori. Scrivendone uno nero, si lagna che non c’è il bianco né gli altri colori. Scrivendone uno multicolore, il mittente brontola che non c’è il bianco né il nero. Scrivendone uno bianco e nero, borbotta che non ci sono gli altri colori. Scrivendone uno bianco nero e multicolore, il mittente contesta che l’articolo deve trattare esclusivamente o del bianco o del nero o degli altri colori. Scrivendone uno totalmente privo di tinte, bofonchia che non c’è il bianco né il nero né gli altri colori. Smettendo di scrivere articoli, il mittente sbuffa che il destinatario non scrive articoli. Insomma chi prima afferma “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”, in seguito non è mai contento, trova sempre qualcosa che non va’. Basterebbe chiarire la propria concezione del bene e del male e il destinatario si prenderebbe cura del mittente, che si è affidato totalmente a lui, scrivendo articoli buoni per lui con più facilità.
L’errore del mittente non è soltanto di trascurare di fornire il destinatario della propria concezione del bene e del male ma anche di dare per scontato che questi la conosca già, dunque è in grado di scrivere articoli buoni per lui. Prima di affidarsi totalmente al destinatario, obbligandolo a prendersi cura di lui, il mittente dovrebbe conoscere già il destinatario e sapere già “perché scrive? Che cosa? Come? Quando? Dove? Per chi? Per quale scopo?” e via dicendo. Se non lo conosce, dovrebbe cominciare a conoscerlo, dialogando con lui. Sicuro che la propria concezione del bene e del male coincide con quella del destinatario, il mittente sarebbe finalmente in condizione di dirgli: “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!”. Ma tutto questo non avviene. Si continua a dare per scontato che il destinatario conosca già la concezione del bene e del male del mittente e si continua a essere scontenti degli articoli che quello scrive.
L’assenza di un dialogo tra mittente e destinatario impedisce a entrambi di capire nuovamente lo scopo della scrittura: il benessere collettivo e non individuale. La scrittura infatti è sì personale ma, dal momento in cui viene diffusa, diviene di tutti, riguarda tutti e può influenzare tutti, causando benessere o malessere generale. Quindi, in assenza di dialogo tra mittente e destinatario, si dimentica che concretizzare e diffondere la scrittura, comporta l’assunzione di questa responsabilità. Questa deficienza può essere molto pericolosa, perché può legittimare sia il mittente sia il destinatario a considerare lo scopo della scrittura non il benessere collettivo, bensì quello individuale. Il destinatario può scrivere per interessi propri, trascurando di aver cura del mittente che si è affidato a lui. Il mittente può esortare il destinatario a scrivere per avvantaggiare i suoi interessi a scapito di tutti gli altri, persino del destinatario. Può accadere però che alcuni mittenti dialoghino e si accordino con il destinatario, allo scopo di curare gli interessi di entrambi, a scapito degli altri mittenti restanti. In questi casi, la scrittura si mostra come mero egoismo, tornaconto personale, propaganda, lavaggio del cervello, inganno, come uno strumento per dominare gli altri e affermare il benessere di uno o di pochi, e non come uno strumento per dialogare con gli altri e sostenere il benessere collettivo.
La scrittura oggigiorno è de-responsabilizzata perché non ci si confronta nemmeno mediante la lettura. Non solo non si legge ciò che si scrive attualmente, ma neanche ciò che è stato scritto nel passato. Non leggendo, sia il mittente sia il destinatario smettono di ereditare non soltanto gli scritti e la scrittura lasciati dai loro predecessori, ma finiscono per ignorare la concezione del bene e del male che quelli hanno trasmesso loro, codificandola. Per questa ragione, la scrittura è intesa oggi come uno strumento utile per il benessere individuale e ci ritroviamo in un generale relativismo morale, nel quale sia il mittente sia il destinarlo usano la scrittura per i propri scopi individuali. In altre parole, ognuno dà per scontato che la propria concezione del bene e del male sia quella giusta e pretende, pur senza esprimerla, che gli altri la rispettino e che coincida con la scrittura.
Se non ci si confronta nemmeno mediante la lettura e non si eredita la concezione del bene e del male tramandataci da chi ci ha preceduto, come si può scrivere per il benessere collettivo? Ossia, come si può immaginare che la scrittura possa perfezionare, aggiornandola, la visione del bene e del male tramandataci? Senza la lettura degli scritti e della scrittura che abbiamo ereditato, non si è capaci di giudicare se quelli odierni siano buoni o cattivi per il benessere collettivo, né si è in condizioni di opporsi all’uso della scrittura per il benessere individuale. Non si è capaci neanche di capire quando uno scrittore è intoccabile e quando non lo è. Vale a dire: se uno scrittore scrive in un blog privato, è libero di scrivere quel che vuole e il lettore non può dirgli nulla. Se però scrive in un blog pubblico, il lettore dovrebbe vedersi riconosciuto il diritto di contestare quel che lo scrittore scrive e di fare in modo che quello scrittore non scriva più in quella sede. Ma gli scrittori di oggi non riconoscono ai lettori questo diritto. Anzi, preferiscono spacciare la propria scrittura come comunitaria quando invece è egoistica e dissimulare quel che è egoistico come comunitario.
Ogni volta che mi dicono “Mi raccomando… scrivi articoli buoni!” sono felice di essere soltanto uno scrittore in quanto tale e non un politico. Ma se penso a quest’espressione come una metafora per indicare l’odierno rapporto tra i politici e i cittadini, è con amarezza, cari lettori, che rinvio nuovamente a quanto detto sopra, aggiungendo: “Benvenuti in Italia!”.

9 commenti:

  1. Caro Bellantone , non ti conosco e per caso ho letto quanto tu sostieni a proposito di "Mi raccomando scrivi articoli buoni", volevo segnalarti un'altra interpretazione a questa richiesta da te dipinta in modo così negativa.
    Pensa se noi tutti avessimo scritto nel nostro dna il significato del bene e che per, supponiamo, il 99% coincidesse. In questo caso, la richiesta ".. scrivi...buoni" avrebbe senso richiamando al destinatorio, come tu lo chiami, quei principi che dovrebbero appartenere alla società più evoluta, cioè, la verità, l'onestà, e soprattutto l'umanità.Quindi le tue considerazioni, potrebbero indicare che è proprio il destinatario ad essere prevenuto negativamente verso una richiesta semplicemente di coraggio e che vive in un mondo falso, disonesto e disumano. Vedi le parole , a mio parere, sono da interpretare e quando ci si mette dal lato del professore che spiega agli studenti occorre avere la capacità di uscire da se stesso e di porsi in modo obiettivo rispetto al significato che le parole possono nascondere, ricordandosi come facevano gli antichi filosofi che la verità viene fuori attraverso il dialogo e non da un monologo che riflette soltando le proprie convizioni che possono essere completamente sbagliate.
    Possa il mio commento farti riflettere prima di dare giudizi definitivi.
    un saluto Benedetto

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  2. Caro Benedetto, grazie per il commento.
    Comincio dalla fine. L’articolo non è un giudizio definitivo ma un punto di vista personale, come specificato all’inizio. Ogni volta che ho ascoltato quella frase, al di là degli scopi e dell’intenzioni di chi me l’ha rivolta, mi è sempre venuta in mente il rapporto tra politici e cittadini. Ripensandoci, così ho deciso di affrontare questo problema mediante la metafora della scrittura, evocata indirettamente da chi ho avuto il piacere di incontrare.
    Questo blog dà la possibilità di dialogare. I commenti (autenticati) ne sono la prova. Ma per cominciare a dialogare mediante il blog, è necessario che chi lo cura parta da qualche cosa, proponga qualcosa ai lettori. Per questo scopo, deve obbligatoriamente cominciare con un monologo, a meno che non fa un’intervista o simili.
    Dal momento che è metaforico, l’articolo richiede una lettura paziente, allo scopo di generare nel lettore un’interpretazione di esso, farlo pensare su questo tema e farsi un’idea propria al riguardo.
    Sono felice che tutto questo sia avvenuto con te. Da una riflessione personale (la mia) si passa a conoscere la riflessione di altri (la tua), evidentemente stimolata dalla precedente: ecco il dialogo intorno al tema proposto nell’articolo.
    LA TUA INTERPRETAZONE: Se tutti avessimo scritto nel nostro dna il significato del bene e coincidesse per il 99% delle persone, a mio parere, non avremmo bisogno dei politici e, in un certo senso, nemmeno delle religioni, perché la Terra sarebbe già un Paradiso, un Regno di grazia e giustizia, il Nirvana. Purtroppo è difficile dimostrare questo scientificamente, ma è anche difficile dimostrare il contrario. Quel che è più facile dimostrare è che viviamo in un mondo falso, disonesto e disumano e che, ereditando geneticamente il significato di bene oppure, no, c’è chi se ne frega e approfitta degli altri (siano politici siano cittadini), per scopi personali.
    L’articolo contesta questa prassi diffusa. Come tu dici, il politico (destinatario) dovrebbe già, ereditando geneticamente oppure no il significato di bene, battersi coraggiosamente per rendere la società vera, onesta, umana. Al di là di dna e compagnia bella, un politico, guidato dai cittadini (e non viceversa) dovrebbe costruire (e praticare) questo concetto di bene.
    Ci sono alcuni politici e molti cittadini che intendono la politica diversamente da questa prassi diffusa: approfittare. Denunciarla, metaforicamente o in altro modo, è combatterla, anche a nome di chi pensa la politica diversamente da quella “legalizzata”. Nessun giudizio definitivo, dunque, solo denuncia.
    Un saluto, S. Bellantone.

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  3. la sensazione che si prova davanti all'articolo di Salavatore, a mio avviso, non è l'esaltazione della propria chiusura a monade, ma al contrario, una denucia della totale assenza di dialogo nella sfera socile che poi si trasferisce a quella del politico. è proprio da tale mancanza, secondo me, che nasce il fraintendimento tra "raccomandante" e "raccomandato" sulla concezione del bene e del male, e dei valori in generale. se non si discute mai a quattr' occhi diventa difficile, se non impossibile, interpretare il senso comune e non partire prevenuti in base ai propri convincimenti. credo infatti alle sagge parole del passato: "non c'è conoscenza dell'altro che non richieda conoscenza di se e non c'è conoscenza di se che non richieda il confronto con l'altro". è logico però che ciò deve avvenire nello spazio e nel tempo, ci deve essere cioè la disponibilità, di ognuno, alla parola e all'ascolto. FRANCESCA

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  4. Volevo aggiungere per chiarezza che l'avere scolpito nel dna il significato del bene non impone ad ognuno di noi di operare il bene;anzi, caro Saso, ciò avrebbe come diretta conseguenza che saremmo anche consapevoli del significato del male. Tale consapevolezze non determinerebbero nessun mondo felice. La libertà, che è alla base della nostra individualità, ci permette sempre di scegliere (operare il bene o il male) e quindi tornando alla richiesta dei tuoi conoscenti "scrivi.. articoli buoni.." si puo interpretare semplicemente come un'incitamento a scegliere la strada del bene. Chiaro il mio concetto?
    Inoltre, la richiesta non deve essere considerata come se il richiedente si affidasse alle tue mani ma dovresti considerarti solo un mezzo che i tuoi estimatori(come scrittore) vogliono utilizzare per comunicare ai tuoi lettori il proprio desiderio di cambiare in meglio la società e allo stesso tempo manifestano ai tuoi occhi la loro scelta cioè "il bene".
    Scusa, senza polemica.Benedetto

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  5. Cara Francesca, grazie per il commento.
    Hai colto in pieno il significato dell’articolo. Inutile aggiungere altro, fuorché questo: per ripensare la politica occorre ripensare il sociale, vale a dire praticare “altrimenti” la relazione con altri allo scopo di edificare una concezione del bene e del male comune e poi comunitaria. Disponibilità alla comprensione dell’altro, dialogo, ascolto, apertura all’altro e via dicendo, sono le parole prime per inaugurare questa rivoluzione. Grazie,
    S. Bellantone.

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  6. Caro Benedetto,
    il tuo concetto e la tua interpretazione sono abbastanza chiari. Ti chiedo, però, se hai capito che l’articolo qui discusso presenta la questione del rapporto tra politici e cittadini mediante la metafora di scrittori e lettori, e che non discute un fatto personale. Anzi, prendendo spunto da questo si passa a un problema più grande. Francesca è stata abbastanza acuta: ne è prova il suo commento. L’articolo in esame è una forma di ringraziamento rivolta a tutti coloro che, esortandomi, mi hanno fatto pensare e mi hanno “suggerito”, nel modo dell’incontrarsi stesso, un tema a mio giudizio decisivo: la politica secondo la rivoluzione nel sociale. In questo senso, l’articolo stesso è operare l’imperativo (o l’esortazione) che mi è stato rivolto da loro.
    Non vedo perché debba scusarti, grazie,
    S. Bellantone.

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  7. Caro Saso,
    adesso provo a spiegarmi meglio: quello che ho cercato di esprimere è la mia contrarietà al modo in cui vengono affrontati i problemi, nel senso che quello che tratta l'argomento si pone sempre da giudice camuffando le sue dichiarazioni come il suo punto di vista ;cosa che non è sempre valido quando ci si danno per scontati i significati di certe premesse. Nel nostro caso l'essere scrittore ( e nella traslazione metaforica l'essere politico) devono avere un significato condiviso da chi viene cinvolto dalla scrittura( o dall'azione politica). Così. a mio parere , il significato che tu dai dell'essere scrittore prescinde da quale funzione vuole svolgere la tua scrittura, invece esso dovrebbe essere proprio determinato da quest'ultima( cosi si dice ramanziere chi scrive romanzi, giornalista chi fornisce notizie, commentatore (politico, sociale, ecc..) chi analizza e cerca di spiegare i fatti ( politici, sociali , ecc..), poeta chi scrive poesie, ec.. Nel caso di politico in teoria il significato è noto a tutti, dovrebbe rappresentare gli interessi dei propri elettori, tutti gli altri significati che purtroppo oggi vengono esercitati da questa casta è la conseguenza di quello che sto cercando di spiegare in queste poche righe, cioè loro (i politici) come tutti noi spesso ci arroghiamo il diritto di dare un significato alla nostra attività indipendentemente dal riscontro che si ha negli altri e partiamo sempre da noi stessi senza mai porci nell'animo e nella mente dei nostri interlocutori.
    Non sono sicuro di essermi spiegato, tuttavia credo che il concetto si puo esprimere sinteticamente con questa esortazione: chi pone la discussione su un argomento la prima cosa che dovrebbe fare è porsi nei panni di chi sarà il destinatario dello stesso. Ad esempio chi parla di immigrati, di democrazia, di malati, di andicappati , di drogati, di lettori( che chiedono scrivi articoli buoni) , di cittadini, ecc..Dovrebbe vestire i loro panni.
    Forse adesso potrai capire le mie precedenti scuse.
    Un saluto Benedetto

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  8. Caro Benedetto,
    il punto è proprio questo: il politico non veste i panni di nessuno fuorché i propri. In altre parole, non si cura “seriamente” dei cittadini e dei loro problemi. D’altro canto, non tutti i cittadini avanzano delle richieste “utili” per tutti. C’è bisogno di una grande trasformazione generale, dei politici e di quei cittadini che simili avanzano richieste egoistiche. Ripensare la politica è ripensare il bene e il male. In una democrazia, il bene e il male devono essere collettivi, non personali. Per questo motivo, è necessario il dialogo e l’apertura all’altro e al nuovo (in qualsiasi forma) e una diversa formazione civile: dall’asilo al lavoro al sociale a tutto quanto il resto. Riconoscere i propri limiti e l’importanza del comprendere altri, è alla base di questo cambiamento necessario.
    Un saluto,
    S. Bellantone.

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  9. Caro Saso, concordo perfettamente.
    Ciao Benedetto

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