IN QUESTO BLOG NON SI PUBBLICANO COMMENTI ANONIMI.

martedì 1 maggio 2012

L’ESSENZA DELLA GLOBALIZZAZIONE: Aristotele e la scienza dei principi primi e delle cause prime (3.3)


- di Saso Bellantone
Al tempo di Aristotele (Stagira 384/3 a.C – Calcide 322 a.C.) la filosofia è già una disciplina insegnata nell’Accademia, la scuola fondata da Platone che Aristotele frequenta al partire dal 367. Mentre in età giovanile Platone scrive opere poetiche e si avvicina alla filosofia per mezzo di Socrate, Aristotele scrive sin da giovane delle opere filosofiche, giunte a noi in forma frammentaria. Dai pochi frammenti pervenutici, è possibile tuttavia trarre alcune informazioni sul pensiero aristotelico di questo periodo, nelle quali s’intravedono già i presupposti della riflessione matura del filosofo stagirita. Per esempio, nel Grillo, Aristotele critica la retorica considerandola un mezzo per agire sugli affetti e, durante un corso tenuto in Accademia su questo argomento, per via del successo dello scritto, Aristotele sostiene che la retorica deve essere fondata sulla dialettica. Nel trattato Sulle idee Aristotele dichiara la sua difficoltà a comprendere il rapporto tra idee e cose, criticando la teoria della mixis eudossiana e la teoria platonica della separazione. Del trattato Sul Bene è rimasto qualche frammento ed è impossibile comprendere in quale maniera Aristotele ha affrontato tale argomento. Alcuni pensano sia sviscerato in maniera simile a quella contenuta nella Metafisica, dove Aristotele critica Platone e i Pitagorici per non aver chiarito il significato di partecipazione e di imitazione delle idee, ragion per cui Platone ha introdotto due principi, l’essenza, l’Uno, identificato con il Bene (principio formale), e la Diade, cioè il grande il piccolo (principio materiale), ma sono soltanto supposizioni. Nell’Eudemo o Sull’anima, dedicato al compagno omonimo morto in guerra, Aristotele sostiene la tesi dell’immortalità dell’anima razionale. Alcuni riconoscono in ciò un’adesione al platonismo, altri invece la negano, giustificando la tesi dell’opera in relazione alla morte dell’amico. Nel Protreptico  o Esortazione alla filosofia (conosciuto per le diverse citazioni contenute nell’omonimo scritto di Giamblico), Aristotele sostiene la divisione dell’essere umano in anima e corpo e afferma che la filosofia è il bene più grande, in quanto, diversamente dalle altre scienze che hanno come scopo qualcosa di diverso da sé, essa tende a se stessa. Nel De philosophia, diviso in tre libri, Aristotele definisce la filosofia conoscenza dei principi della realtà (libro primo); critica la teoria platonica delle idee e delle idee numeri (libro secondo); espone la propria teologia, considerando Dio necessario e immutabile, puro pensiero (libro terzo). Insomma, sin dalle opere giovanili è possibile desumere due certezze: la filosofia è ormai una realtà – tant’è che nel Protreptico Aristotele afferma il celebre aforisma “chi pensa sia necessario filosofare, deve filosofare e chi pensa che non si debba filosofare, deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloquio” –; ad Aristotele non va a genio la teoria delle idee (dualismo) e, quindi, la definizione platonica della filosofia. Non a caso, la tradizione ha nominato Platone “il filosofo della trascendenza” e Aristotele “il filosofo dell’immanenza”. Con Aristotele, infatti, appare una differente interpretazione del termine filosofia.
Aristotele vuole individuare un principio eterno e immutabile per spiegare il divenire. Diversamente da Platone, che scorge tale principio nel mondo delle idee, Aristotele pensa che gli enti mutino secondo schemi e regole fisse connaturati. La filosofia deve innanzitutto declinarsi nel senso di una scienza delle cause prime, allo scopo di indagare e scoprire le cause secondo le quali un ente perviene a determinate forme e non ad altre. Le cause mediante le quali un ente passa da una forma a un’altra, secondo Aristotele, sono quattro: formale (qualità dell’ente); materiale (materia di cui l’ente è costituito); efficiente (l’agente che attiva il mutamento); finale (scopo per cui un ente esiste). Configurandosi alla maniera di una scienza delle cause, la filosofia consente non soltanto di indagare le cause del mutamento degli enti ma anche di affrontare in maniera organica e razionale il problema posto da Parmenide: quello dell’Essere e delle sue possibili determinazioni. Dicendo che l’Essere è e non può non essere, secondo Aristotele, Parmenide non ha chiarito che cosa appunto è l’Essere. Lasciandolo senza determinazioni, si corre il pericolo di confonderlo con il non-essere. Per questo motivo, Aristotele si pone il compito di determinare l’Essere parmenideo e, a tal fine, concepisce la filosofia non soltanto come una scienza delle cause prime ma anche come una scienza dei principi primi, scienza dell’Essere in quanto tale (ontologia).
Nel definire la propria filosofia prima, l’ontologia, Aristotele introduce due concetti-chiave: quello di sostanza e di ente. Lo scopo dell’ontologia è di indagare sia l’una sia l’altro. La sostanza può essere sia prima sia seconda: la prima, consiste in ciò che è in sé e per sé, in ciò che per essere non ha bisogno di esistere; la seconda, consta di una serie di sostantivi generici che specificano meglio la sostanza prima, consentendo di rispondere alla domanda “che cos’è”. Prescindendo tuttavia dall’aspetto materiale, ogni ente esprime secondo Aristotele l’essenza, vale a dire la sostanza prima, l’essere. Mentre con il termine Essere Aristotele intende ciò che è in sé e per sé, uno e immutabile, con il termine ente giudica tutto ciò che è, che esiste ed è soggetto alla molteplicità e al divenire. Con il concetto di ente, Aristotele tenta di conciliare l’Essere parmenideo con il divenire eracliteo. L’ente è, secondo Aristotele, un sinolo indivisibile di materia e forma. Ogni ente è governato da una entelechia, da una ragione interna che ne regola il mutamento secondo leggi e schemi fissi, le quali consentono di attuare le possibilità che ogni ente ha in seno. Oltre a quello di sostanza, Aristotele introduce altri nove concetti o categorie, mediante i quali è possibile classificare gli enti – quantità, qualità, dove, quando, relazione, agire, subire, avere, giacere – e che tuttavia hanno senso soltanto se riferiti al concetto di sostanza. Secondo Aristotele si può avere una conoscenza valida e universale soltanto dell’Essere, di ciò che è stabile e immutabile mentre gli enti, che divengono e sono soggetti al mutamenti, non sono conoscibili. Per farlo, occorre sempre riferirsi all’Essere.
Pur essendo generato dalle quattro cause, se si risale a ritroso il movimento si giunge a un punto che lo alimenta: Dio (l’ontologia si risolve nella teologia). Dio è il motore immobile e la meta ultima del movimento del tutto, perché è causa incausata, atto puro. Mentre negli enti l’essenza è qualcosa di potenziale, nel motore immobile è esclusivamente tradotta in atto. Tutti gli enti, secondo Aristotele, sono attratti dalla forza d’attrazione di questo motore immobile, da questa sostanza pura, pura necessità senza possibilità, nella quale tutto è assolutamente compiuto, senza divenire alcuno né difetti materiali. La conoscenza, secondo Aristotele, mira in un’ultima istanza a questo motore primo.
Aristotele pensa vi siano diversi gradi della conoscenza ma, ai suoi occhi, tutto parte dall’esperienza sensibile. L’essere umano non possiede idee innate ma soltanto alcune capacità: quella di cogliere l’essenza in atto negli enti, andando oltre il loro apparire specifico; quella di organizzare le conoscenze. Come avviene dunque la conoscenza secondo Aristotele?
La conoscenza aristotelica è di tipo induttivo, cioè astrae l’universale dal particolare. Il punto di partenza, dunque, è la sensazione delle cose particolari. L’intelletto è potenzialmente capace di astrarre l’essenza in atto, l’universale dall’ente particolare ma per farlo necessita di una qualche realtà, di un lato di sé già in atto nello scorgere l’essenza (forma). Questo versante attivo dell’intelletto è l’intuizione intellettuale (nous), la capacità da parte della mente umana di pensare se stessa (consapevolezza) e di decidere autonomamente (libertà). Questa forma di conoscenza, di tipo contemplativo, conduce a una corrispondenza tra realtà e intelletto.
Aristotele non si ferma alla conoscenza noetica riguardante cioè la verità degli enti, ma si occupa di altre questioni come la biologia, l’astronomia, la logica, la dialettica, il linguaggio (che per il momento non ci interessano), l’etica. Coerentemente con la sua ontologia, Aristotele pensa che la condotta migliore per poter vivere un’esistenza felice è quella di realizzare la propria essenza. L’essere umano può realizzare se stesso mediante tre forme di vita: edonistica (cura del corpo), politica (rapporto sociale con gli altri) e teoretica (conoscenza contemplativa della verità), quest’ultima, naturalmente, è al di sopra delle altre. Questi stili di vita devono integrarsi tra loro, perché l’anima umana è contraddistinta da tre volti che devono essere appagati: anima vegetativa, comune alle piante e agli animali (attiene ai processi nutritivi e riproduttivi); anima animale, comune agli animali (riguarda le passioni e i desideri); anima razionale, esclusiva dell’essere umano (esercizio dell’intelletto). Mentre lo scopo dell’anima vegetativa è nella ricerca del piacere e della salute, quello dell’anima animale di dominare le passioni mediante l’esercizio della ragione e la ricerca del giusto mezzo, dalla quale scaturiscono le virtù etiche (coraggio, temperanza, liberalità, magnificenza, magnanimità, mansuetudine). Ma dal momento che l’essere umano è un animale sociale, deve guidare in modo equilibrato i rapporti con gli altri, sulla base del riconoscimento degli onori e del prestigio scaturenti dall’esercizio delle cariche pubbliche, e mediante l’uso della virtù della giustizia che riassume tutte le altre virtù. All’anima razionale toccano secondo Aristotele le virtù dianoetiche, suddivise in calcolative e scientifiche. Lo scopo dell’anima razionale è la creazione di strumenti in vista di qualcos’altro (tèchne); l’uso della saggezza per guidare le virtù etiche e l’azione politica (phrònesis) e far sì che qualsiasi forma di Stato, la monarchia, l’aristocrazia o la democrazia, non degeneri in tirannia, oligarchia, oclocrazia; la conoscenza disinteressata della verità (sophìa). Al raggiungimento di quest’ultima collaborano la scienza (epistème), la capacità di compiere dimostrazioni, e l’intelligenza (nous) che fornisce i principi primi da cui scaturiscono quelle dimostrazioni.
La conoscenza, secondo Aristotele, è uno “stile di vita” slegato da ogni finalità pratica cui tutti gli uomini tendono ma realizzata soltanto i filosofi (come Platone) perché non ha nessuna finalità pratica. I filosofi dunque generano un sapere inutile ma proprio per questo motivo tale sapere è secondo Aristotele assolutamente libero. La felicità (eudamonìa) consiste secondo Aristotele nella contemplazione della verità, elemento cardine che distingue l’essere umano dagli animali e lo rende simile a Dio, atto puro, pensiero di pensiero, pura riflessione autosufficiente che ricerca esclusivamente se stesso.

Nessun commento:

Posta un commento