IN QUESTO BLOG NON SI PUBBLICANO COMMENTI ANONIMI.

lunedì 21 febbraio 2011

L'Essere cronologico

- di Saso Bellantone
Ogni giorno, ogni notte, per tutta la vita l'essere umano si trascina dietro una palla al piede, simbolo della sua inevitabile schiavitù a un'esistenza proiettata verso la propria fine: il tempo. Ma che cos'è il tempo? È forse l'ombra della meridiana? O la sabbia della clessidra? La lancetta dell'orologio? Oppure la vibrazione di un atomo? È forse la mitosi? O il battito cardiaco? La respirazione? Oppure il crescere dei capelli? È forse il bruciare del fuoco? O lo scorrere dell'acqua? Il soffiare dei venti? O il mutamento delle stagioni? È forse il giro della Terra attorno al Sole? O forse il moto del Sistema Solare all'interno della Via Lattea? Il fluire di quest'ultima nello spazio vuoto? O il precipitare stesso dello spazio vuoto? Il tempo sembra trovarsi ovunque: sulla parete, sul comodino, sulla scrivania, al polso, nel cellulare, al computer, in tv, in radio, in automobile, alla fermata del tram, sulla facciata del municipio, in ospedale, su uno shuttle e via dicendo. Il tempo sembra essere onnipresente e risuonare in qualsiasi luogo i rintocchi del fato umano: la mortalità. Ma il tempo non è niente di tutto ciò, malgrado tutto sembri segnarlo e segnalarlo. Il tempo è niente e la sua onnipresenza è soltanto un'illusione. Il tempo è onni-assente, non esiste, non c'è.
Il tempo non è: malgrado questa consapevolezza, l'essere umano continua a guardare al tempo e lo fa perché avverte la propria mortalità. Quando si comporta in questo modo, a ben vedere, l'essere umano non guarda in direzione del tempo ma in direzione della propria vita. La coscienza della propria mortalità pone il problema della propria vita. L'essere umano si chiede che cosa farne di essa, collocandola all'interno dello scenario immenso e misterioso che è il cosmo. Questo interrogativo, naturalmente, varia di persona in persona, perché ognuno, anche nel pensare all'universo intero, non fa altro che ritagliare una porzione di esso dentro la quale situa la propria vita. Ognuno crea la propria immagine del mondo nella quale intravede se stesso e il dramma della propria mortalità. Guardare al tempo, dunque, non è altro che porsi il problema della propria vita alla luce di quello della propria mortalità, nello scenario enigmatico del cosmo. In altre parole, è chiedersi qual è il senso della propria esistenza. Ma oggi è davvero così?
Oggigiorno, pochissimi guardano al tempo per interrogarsi intorno al senso della propria vita. Ciò accade perché non si considera più il tempo un accesso alle dimensioni dell'essere, del contemplare, dell'oziare, della povertà, dell'estraneità, dell'impotenza. Il termine tempo non indica più l'accadere, il momento opportuno (kairós), né designa l'eterno, ciò che unisce a sé ogni momento (aión). Quando usa il termine tempo, l'umano contemporaneo intende sempre e soltanto quello cronologico (chrónos), quello quantificabile, misurabile. L'umano impiega sempre e soltanto questa tipologia di tempo e, più che impiegarla, la piega sul mondo, la installa in esso confondendo l'una con l'altro. In questo modo, ottiene una prospettiva sul mondo, appunto cronologica, trasformandolo in un mondo cronologico, cioè quantificabile, misurabile, usabile, manipolabile e dominabile al pari del tempo.
Il tempo (cronologico) è una chiave interpretativa del mondo, che rinvia esclusivamente alle dimensioni dell'avere, del fare, del lavoro, della ricchezza, della fama, del potere. È un modo di pensare, per dirla con Heidegger, “calcolante”, ma lo scopo del calcolare non è il calcolare stesso bensì l'avere, il fare, il lavoro, la ricchezza, la fama, il potere. Per questo motivo, l'umano non si pone il problema di situarsi all'interno dell'universo (o di un ritaglio di esso) per porsi il problema della propria vita alla luce di quello della propria mortalità. Egli considera il mondo e se stesso in modo cronologico, in maniera cioè calcolante, quantificante, misurante, usante, manipolante e dominante. L'umano non si pone il problema della mortalità né quello del senso della propria vita alla luce di quell'altro. Conosce un solo pungolo nella carne: calcolare allo scopo dell'avere, del fare, del lavoro, ricchezza, della fama, del potere.
L'umano contemporaneo considera in modo cronologico e calcolante anche la società, interpretandola alla maniera di un'immensa piramide che esprime la quantità di avere, fare, lavoro, ricchezza, fama e potere che caratterizza coloro che ne occupano i vari livelli gerarchici. In questo senso, quando usa il termine tempo (cronologico), l'umano non fa altro che sondare la piramide per individuare quale posizione occupa in essa, ossia quanto avere, fare, lavoro, ricchezza, fama e potere lo caratterizzano. In altre parole, calcola: da un lato, quale è la propria posizione sociale; dall'altro lato, in quale modo vivere per ascendere a una posizione più alta, fino a scalarne la vetta. Il termine tempo, quando lo si usa, svela quale posizione gerarchica si occupa nella piramide: chi ha più tempo è colui che sta al vertice, mentre chi gradualmente ne ha sempre meno (fino a non averne affatto) è colui che sta al di sotto (fino al gradino più basso, l'oblio). Il tempo (cronologico) non mostra, però, il volto degli altri: guardando verso la vetta della piramide, si scorgono soltanto le spalle di chi sta al di sopra, sulle quali s'intravedono esclusivamente numeri. Indietro, non ci si guarda mai, perché si compete con gli altri per arrivare per primi alla vetta.
La conformazione iper-tecnologica, iperattiva, nichilistica, consumistica, omologante, glaciale e spersonalizzata dell'umano, della società, del mondo dipende (anche) da questa concezione cronologica, cioè calcolante, dell'ente in generale. Tutto è quantità: la qualità non trova posto perché non può essere quantificata, misurata, usata, manipolata e dominata allo scopo dell'avere, del fare, del lavoro, della ricchezza, della fama e del potere. Assieme alla qualità, anche le domande essenziali dell'umano sul senso della vita alla luce della mortalità non trovano spazio.
Malgrado si viva in uno scenario esclusivamente cronologico, non è esclusa la possibilità di guardare al tempo – e dunque all'umano, alla società, al mondo – in modo alternativo. La visione cronologica dell'ente infatti non soddisfa tutti o, meglio, soddisfa soltanto pochissimi nei termini di avere, fare, lavoro, ricchezza, fama e potere. Pochissimi sono coloro che riescono a scalare la vetta della piramide; per contro, moltissimi coloro che retrocedono, vedendosi sbarrate le porte dei livelli più alti. Quando si prova tale insoddisfazione – perché soltanto dopo averla sperimentata è possibile tentare un cambiamento di registro – occorre trovare la forza per distogliere lo sguardo dal tempo (cronologico), ossia dalla piramide, e guardare indietro. In questo modo si comincia a intravedere, uno per uno, chi sta dietro di noi, finché, sceso l'ultimo gradino della piramide, si raggiunge un luogo dove è possibile incontrare più persone nel medesimo istante, perché tale luogo si sviluppa su di un piano: l'agorà. Nel momento in cui ci si trova in questo spazio pianeggiante, lo sguardo cambia e s'inizia a vedere in un altro modo. Non si guarda più in modo cronologico perché il tempo cronologico non c'è più. Davanti ai nostri occhi, adesso, c'è un altro tipo di tempo che si spalanca per mezzo del volto degli altri: c'è Kairós.
In questa occasione, non si è più dei numeri né si calcola più. Ognuno comincia a scoprire il proprio nome e quello degli altri e questo fa pensare, anche alla propria mortalità e al senso della propria vita, nei meandri enigmatici del cosmo. In questo momento, il tempo torna a essere niente e ognuno sperimenta il dischiudersi delle porte di aión.

Nessun commento:

Posta un commento