- di Saso Bellantone
Una figura piegata su se stessa, la testa china quasi fino a terra, coperta interamente da un lungo velo nero. È in disparte, là dove le mura di un’abitazione s’incontrano con le piastrelle di un marciapiede. La mano è aperta vicino a una ciotola vuota: chiede l’elemosina. Vicino a lei, una carta appallottolata e una cicca di sigaretta.
Una figura piegata su se stessa, la testa china quasi fino a terra, coperta interamente da un lungo velo nero. È in disparte, là dove le mura di un’abitazione s’incontrano con le piastrelle di un marciapiede. La mano è aperta vicino a una ciotola vuota: chiede l’elemosina. Vicino a lei, una carta appallottolata e una cicca di sigaretta.
Prima di essere un dipinto, La sofferenza e l’indifferenza è una visione, un incontro. Ma è tale soltanto per chi vede, non per chi è cieco. Mimmo Fadani immortala con la sua arte questa visione, questo incontro imprevisto per evidenziare qual è il dualismo dominante la società contemporanea, nel buio della morte di Dio, per mostrare che cosa non riusciamo a vedere: il dolore del singolo e la cecità della massa. L’opera s’intitola La sofferenza e l’indifferenza perché narra la nostra era mediante due soggetti – da un lato, la figura raccolta in se stessa e la ciotola vuota; dall’altro lato, il marciapiede, la cicca e la carta appallottolata – i quali rappresentano la frattura tra chi è umano e chi non lo è più. I due soggetti raffigurano due tempi: il tempo della sofferenza e il tempo dell’indifferenza.
Il tempo dell’indifferenza è quello dominante la società e la massa. Si vive in un’epoca buia, priva di valori e di verità assolute, nella quale, per sopravvivere, bisogna lasciarsi padroneggiare dalle logiche dell’attivismo, dal consumismo e dalla mercificazione degli enti, di tutto. Folgorati da questa illusoria luce, si diviene paradossalmente ottenebrati, accecati; si perde la propria umanità e si resta ingabbiati nella tela di ragno di una società incentrata sulla tecnica, sul lavoro, sul denaro, sulla fama, sul potere. Ognuno si standardizza, diventa liquido, uniforme, indifferenziato. Smarrita la propria personalità, ci si trasforma in un numero, in un pezzo della grande catena di montaggio del mondo globalizzato, sostituibile con tutti gli altri pezzi. Si è condannati a correre follemente, solitari, freddi e dissennati contro le lancette di un orologio fittizio che scandisce il tempo della propria perdizione. Non si conoscono limiti né confini né soste né frenate: come esseri liquefatti, estranei a se stessi, ci si perde in balia dei flutti di una società corrotta, perversa, distruttiva che non vede nient’altro né altri fuorché se stessa e la propria irrefrenabile e cieca ricerca di altra tecnica, altro lavoro, altro denaro, altra fama, altro potere.
L’essere umano contemporaneo è insomma un robot, dotato di un’immensa capacità di calcolo nella quale, come dentro un labirinto, ha perso la propria coscienza. Per questo motivo, di fatti, egli non è più umano: è un non-umano, chi cioè ha smarrito se stesso nell’illusione della società globale nella quale, pur sopravvivendo, non vive più. Il non-umano è la tipologia di vita o, meglio, di non-vita che domina la nostra era. Pur avendo gli occhi, il non-umano non vede: è cieco. Non vede la bellezza dei paesaggi, delle arti, dell’architettura, né quella della natura, del Creatore, dell’universo, né quella degli altri esseri, viventi e non, compresa quella dei propri simili. Non si accorge della presenza d’altri né di quella degli altri ancora, che scivolano silenziosi, come ombre, attorno alla confusa corrente di automi, proprio come la figura nel dipinto. Incapace di diagnosticare la propria cecità, il non-umano non ha visioni né incontri. La sua non-vita avviene là dove prima c’era la vita, come per esempio su di un marciapiede. Oggi, però, il marciapiede è uno dei simboli della non-vita che fluisce come un fiume impazzito e automatico per l’intero macchinario globale. È lo spazio della folla, del fluire continuo di esseri veloci, che consumano, che mercificano tutto, che si uniformano, liquefacendosi, perdendosi nello sfrenato desiderio di lavoro, di ricchezza, di fama, di potere che regge il grande meccanismo globale. È qui che, assurdamente, ognuno perde se stesso e diviene cieco, pensando alla propria sopravvivenza: è qui che la vita si trasforma in una non-vita e che si estinguono le antiche visioni, gli antichi incontri e avvengono, invece, le non-visioni, i non-incontri. Il marciapiede, insomma, è l’habitat artificiale di chi, da umano, diviene non-umano.
Malgrado ciò, il marciapiede continua a essere per pochissimi il teatro di visioni e di incontri. Alle rive di questo canale artificiale, cieco e frenetico, si posano ancora taciturne alcune figure misteriose come quella nel dipinto. Non ha pretese né voce. Si apparta in riva al fiume artefatto, senza disturbare la folle corsa ma anche per evitare di esserne travolta, a causa della propria debolezza. Posa innanzi a sé un contenitore, una ciotola, si accascia su se stessa e, muta come la morte, spera in un colpo d’occhio che non avviene mai. La ciotola, però, che simboleggia una silenziosa richiesta d’aiuto lanciata ai passanti, resta vuota. Non è il denaro che questa figura misteriosa chiede: una moneta è soltanto il mezzo per ottenere qualcos’altro di cui ha bisogno, forse, nemmeno per se stessa. Di che cosa avrà bisogno la figura nel dipinto? Perché non parla? Perché nasconde il proprio volto? Perché si copre interamente di quell’abito nero? Chi, si nasconde dietro quell’abito nero? Forse un uomo? O una donna? Oppure una fanciulla? E se fosse un ragazzo? Chi, e perché, si raccoglie in questo modo, si fa il più piccolo possibile, quasi fino a schiacciarsi, quasi fino a sparire? Che cosa spinge la figura a un tale raccoglimento? Quale dramma sottrae alla vista? Quale sofferenza immane non vuole che gli altri vedano?
Forse la figura ha soltanto bisogno del tempo di qualcun altro ma questo tempo non arriva mai perché i passanti non sono più umani: sono ciechi e non si accorgono della presenza né della sofferenza di questa figura. Non si fermano, non la aiutano, non se ne curano, non le danno alcuna moneta. Non hanno tempo per lei perché non ne hanno per loro stessi. Passano veloci come fulmini, indifferenti a tutto e a tutti. Sono timorosi dell’orologio che scandisce la loro schiavitù alla non-vita del macchinario globale e sono concentrati soltanto sulla tecnica, sul lavoro, sul denaro, sul potere, su se stessi. Non si accorgono nemmeno di aver gettato in terra, vicino alla figura, una cicca e una carta appallottolata. Ormai, non fanno caso a nulla fuorché al diabolico meccanismo globale che li ha privati di sé, della vita, della loro stessa umanità. Calcolano, dalla mattina alla sera, ma non pensano più niente perché non vedono più ciò che merita di esser visto, come la figura vestita di nero del dipinto, accasciata in disparte sul marciapiede. A causa di questa cecità generale, la ciotola resta vuota e la figura resta sola con il proprio dolore, sola nel tempo della propria sofferenza. Mentre il tempo dei passanti scorre veloce e indifferente portandosi via quel che resta di ogni umanità (la sigaretta ormai non è che un mozzicone), il tempo di chi è solo e immobile con la propria sofferenza (la figura vestita di nero), invece, sembra non passare mai (la ciotola vuota) per chi ancora conserva in sé qualcosa di umano che nessuno vede più: il bisogno d’altri.
Una figura inginocchiata, coperta interamente da un lungo velo nero. È all’angolo di una via, in disparte, tra le mura di un’abitazione e le piastrelle di un marciapiede. Sembra stare in allerta, quasi a controllare il vuoto bicchiere di plastica posto innanzi a lei. Le piastrelle del marciapiede formano dei percorsi intricati somiglianti a dei canali sui quali sembra scorrere dell’acqua. Il marciapiede e i canali si perdono dietro l’angolo, dove s’intravede un cielo dai colori insoliti. L’ingorda è la trasfigurazione mistica de La sofferenza e l’indifferenza e ci narra metaforicamente, invece, della vita e della morte.
Che cos’è la vita? È un cammino che si svolge attraverso percorsi complicati e differenti ma che tutti porta, obbligatoriamente, alla medesima meta: la morte. L’essere umano vive nell’illusione del libero arbitrio e crede di poter scegliere il proprio destino. Per tutta la vita si trova di fronte ad alcuni bivi e deve decidere per quale strada proseguire il proprio viaggio. Illuso di aver tale facoltà di scelta, prende una strada anziché un’altra e non si rende conto che, qualunque strada intraprenda, il suo percorso è già segnato per grandi linee, sorvegliato dalla Nera Mietitrice.
La vita umana è simile a un rigagnolo d’acqua. Così come quest’ultimo, innanzi alle dighe naturali, cambia percorso ora da un lato ora dall’altro ma alla fine arriva al mare, allo stesso modo avviene per la vita umana. Viaggiando per itinerari diversi a causa degli ostacoli di percorso, alla fine si giunge innanzi alla morte. La vorace Dama Nera vigila la vita di ognuno e ha il compito di prenderla nel momento esatto in cui il destino ha stabilito. L’essere umano non sa l’ora di questo momento né il luogo: potrebbe incontrare l’Ingorda a qualsiasi ora, in qualsiasi angolo del proprio cammino e potrebbe perfino non riconoscerla. La Nera Mietitrice ci attende infatti sulla via, come una figura completamente coperta, celata alla nostra vista, inginocchiata in cerca di un’elemosina. Ma quando noi ci fermiamo per mettere qualche spicciolo nel suo recipiente, Lei ci salta addosso, ci afferra e si porta via la nostra anima. Diversamente dal viaggio del rigagnolo d’acqua che si ferma nel mare dove si perde, il viaggio dell’essere umano non si conclude con l’Ingorda: procede al di là dell’angolo, oltre Lei, là dove la strada continua ma non si sa verso quale luogo conduca.
Non è un caso che le opere esaminate si somiglino e siano nate nel medesimo periodo. La sofferenza e l’indifferenza e L’ingorda sono strettamente connesse. Con queste due opere, infatti, Mimmo Fadani da un lato, invita l’osservatore a prendere consapevolezza del momento storico nel quale vive e a riflettere su se stesso; dall’altro, evidenzia che non è possibile porsi il problema dell’indifferenza della società globale e della massa nei confronti della sofferenza del singolo individuo senza porsi i problemi del senso della vita, dell’inevitabilità della morte e di quale al di là ci attende, se esiste. Le opere esaminate dimostrano che Mimmo Fadani è non soltanto un attento osservatore della società e della specie umana, ma anche la voce pittorica di cui il mondo e l’essere umano hanno bisogno, per ritrovare ognuno la propria essenza e la propria coscienza innanzi alle domande fondamentali.*
* Le opere di Mimmo Fadani possono essere ammirate presso la Pinacoteca Fadaniana sita in piazza del Popolo 8, a Bagnara Calabra (RC). Per ulteriori informazioni telefonare al numero: (0966 371796).
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