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sabato 15 gennaio 2011

FAHRENHEIT 451 di Ray Bradbury

- di Saso Bellantone
Futuro. Un totalitarismo apparentemente democratico. Una società nella quale il bene e il male assoluti sono rappresentati dalla tv e dai libri. I vigili del fuoco costituiscono l’unico corpo di polizia. Anziché spegnere gli incendi, li accendono quando qualcuno è accusato di commettere il male: possedere dei libri. Diversamente dalla tv, i libri sono pericolosi perché impediscono la realizzazione e il mantenimento di una società pacifica, equilibrata e votata esclusivamente al lavoro. Per questo motivo, vanno bruciati, vanno consumati con il fuoco. Chi si macchia della colpa di avere anche un solo libro, va giustiziato immediatamente perché è un ribelle, una minaccia per la società. Potrebbe coinvolgere altri a infrangere la legge, a trasgredire l’unico divieto che la tv, subliminalmente, diffonde: non si deve pensare.
Immaginando una società del genere, nel suo Fahrenheit 451 (Mondatori 1978), il visionario Ray Bradbury si cala in profondità nella nostra società e tenta di farci capire fino a che punto il silenzio del pensiero, che la tv rinvigorisce in ognuno di noi con il proprio continuo chiacchierio, è capace di dominarci. Ciò succede fino a quando non avvengono quegli incontri inaspettati che, ridestando le emozioni come eruzioni vulcaniche incontrollabili, ci spingono a prendere consapevolezza che c’è qualcosa che manca nella monotona e tranquilla quotidianità nella quale viviamo. Così accade al pompiere Guy Montag, appartenente alla Caserma del fuoco Fahrenheit 451, quando incontra la signorina Clarisse McClennan. A partire da questo incontro, Montag comincia una cammino di risveglio di sé e di ribellione, in cerca di ciò che manca nella propria vita, pensando che la risposta sia proprio nei libri: «“Abbiamo tutto quanto occorre per essere felici, ma non siamo felici. Manca qualche cosa. Mi sono guardato intorno. La sola cosa che abbia visto mancare positivamente sono i libri che io avevo bruciato in questi ultimi dieci o venti anni. E allora ho pensato che i libri forse avrebbero potuto essere utili”» (p. 88).
Ma non si può capire da soli cos’è che manca, c’è sempre bisogno di altri che ci aiutino gratuitamente, come Faber, nella nostra ricerca: «“Non sono i libri che vi mancano, ma alcune delle cose che un tempo erano nei libri. Le stesse cose che potrebbero essere diffuse e proiettate da radio e televisori. Ma ciò non avviene. No, no, non sono affatto libri le cose che andate cercando. Prendetele dove ancora potete trovarle, in vecchi dischi, in vecchi film, e nei vecchi amici; cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stesso. I libri erano soltanto una specie di veicolo, di ricettacolo in cui riponevamo tutte le cose che temevamo di poter dimenticare. Non c’è nulla di magico, nei libri; la magia sta solo in ciò che essi dicono, nel modo in cui hanno cucito le pezze dell’Universo per mettere insieme così un mantello di cui rivestirci”» (ibidem). In fondo, secondo Bradbury, sono tre le cose che ci mancano, quando cominciamo noi stessi questa ricerca nella società attuale: la vita nella sua complessità, il tempo libero per pensare e il «“diritto di agire in base a ciò che apprendiamo dall’influenza che le prime due possono esercitare su di noi”» (p. 90). E quando si comincia ad agire, non si torna più indietro.

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