- di Saso Bellantone
Che accadrebbe se diventassimo tutti ciechi? Continueremmo a vivere così come abbiamo vissuto finora? La nostra identità, la relazione con altri, la società umana, il pianeta resterebbero gli stessi? O cambierebbe tutto? Verso quale futuro ci dirigeremmo? Da questi interrogativi prende avvio Cecità, di José Saramago. Pubblicato nel 1995, Cecità racconta in chiave metaforica l’evolversi di un’epidemia di massa, invisibile ma estremamente reale, che frantuma l’intera società nella quale viviamo. Questo morbo non è il solito ottenebramento della vista che a causa di difetti fisiologici o di disfunzioni strutturali, appunto, rende ciechi. Si tratta di altro: del “mal bianco”. Che cos’è?
Che accadrebbe se diventassimo tutti ciechi? Continueremmo a vivere così come abbiamo vissuto finora? La nostra identità, la relazione con altri, la società umana, il pianeta resterebbero gli stessi? O cambierebbe tutto? Verso quale futuro ci dirigeremmo? Da questi interrogativi prende avvio Cecità, di José Saramago. Pubblicato nel 1995, Cecità racconta in chiave metaforica l’evolversi di un’epidemia di massa, invisibile ma estremamente reale, che frantuma l’intera società nella quale viviamo. Questo morbo non è il solito ottenebramento della vista che a causa di difetti fisiologici o di disfunzioni strutturali, appunto, rende ciechi. Si tratta di altro: del “mal bianco”. Che cos’è?
Chi è cieco, non ha bisogno di cure, non spera affatto nell’esistenza di un rimedio fuorché in un miracolo: «i ciechi non vanno dall’oculista» (p. 20). Il mal bianco è una malattia sconosciuta, una cecità diversa dalla normale impossibilità di vedere quel che ci sta attorno. Questa cecità bianca non ha precedenti già noti né sintomi. Coglie alla sprovvista, impreparati. Per questo ci si rivolge all’oculista, per capire di quale genere di cecità si tratta. Il problema è che, visitandoci, l’oculista potrebbe non trovare «niente nella cornea, niente nella sclera, niente nell’iride, niente nella retina, niente nel cristallino, niente nella macula lutea, niente nel nervo ottico, niente da nessuna parte» e risponderci: «Non le riscontro alcuna lesione, i suoi occhi sono perfetti» (p. 23). Come si può esser ciechi quando non si ha nulla né agli occhi né all’intero sistema visivo? Come può manifestarsi un’epidemia del genere, una cecità che non è cecità? «Ma un’epidemia di cecità non si è mai vista […] Neanche si è mai visto un cieco senza motivi apparenti per esserlo» (p. 36).
La cecità di cui parla Saramago è anomala, invisibile ma reale: «se un cieco non vede, mi domando, come potrà trasmettere il male con la vista» (p. 98). Malgrado non sia trasmissibile ad altri, paradossalmente, questa cecità ci colpisce tutti, come la morte: «la cecità mica si attacca, Neanche la morte si attacca, e ciò nonostante moriamo tutti» (p. 38). Non è magia né un maleficio bensì un male dello spirito, del pensiero, della coscienza. Si diventa ammalati di cecità bianca quando «si comincia col cedere nelle piccole cose e si finisce per perdere completamente il senso della vita» (pp. 147-148); quando «ci si abitua talmente ad avere gli occhi che ancora si crede di poterli usare anche quando non servono più a niente» (p. 83). Il mal bianco è un effetto di una precisa abitudine. Quando consideriamo il vedere qualcosa di scontato, non ci accorgiamo più di quel che ci accade né di chi o di che cosa ci attornia né di quanto dipendiamo dagli altri e dalle cose stesse. In questa omnicomprensiva abitudine alla disattenzione, crediamo che “vedere” abbia ancora un senso e invece non lo ha più, perché non c’accorgiamo di nulla. La cecità che Saramago narra è un male latente nell’essere umano, che colpisce quando ci si abitua a essere noncuranti. È l’abituarsi a non vedere, a essere indifferenti nei confronti di tutto e di tutti fuorché di se stessi. È l’assuefarsi alla paura, all’indecisione, all’amor proprio che rende continuamente stanchi di vivere, di comprendere, di ricordare, di lottare, di sognare, di sperare: «la cecità è anche questo, vivere in un mondo dove non ci sia più speranza» (p. 180).
Quando inconsapevolmente si è avvezzati al non vedere, si diventa come dei fantasmi: i nostri nomi non hanno più senso perché è come se non esistiamo. Crediamo che tutto vada bene soltanto perché respiriamo ancora, quando invece il limitarci a sopravvivere costituisce la prova che tutto va male. Diventiamo freddi, spersonalizzati, omologati, egoisti, solitari; restiamo totalmente privi di valori e di norme trascendenti capaci di frenare il nostro istinto ancestrale alla guerra di tutti contro tutti per il potere, per il dominio, per la gloria, per la ricchezza, per la proprietà, per vincere. Questa abitudine al niente dei valori e di Dio, ci mantiene tutti ciechi contro altri ciechi, ci assuefa nel continuare a esser ciechi. È una regressione generale della civiltà umana e della società contemporanea che soltanto gli occhi di Saramago potevano vedere e denunciare, occhi diversi, come quelli della moglie del medico la quale, nel racconto, è l’unica a vedere in un mondo di ciechi.
Il morbo bianco, secondo Saramago, proviene da un modo di pensare che fa del “non vedere” il punto di forza per inglobare tutto e tutti, come isolati, nel circolo vizioso del potere. La cura consiste in un modo di pensare che considera il “vedere” il baricentro necessario per proiettare tutto e tutti nella rete dell’amore, della solidarietà, della cura dell’altro, della comprensione. Mentre la logica del non vedere considera tutto secondo la prospettiva del potere e in questo modo smantella l’intrinseca connessione di ogni cosa e persona con tutti gli altri, la logica del vedere ricalca questa interconnessione generale degli enti e l’importanza delle piccole cose e degli altri per la vita. Un tozzo di pane, un po’ d’acqua, un abito, una casa, un letto, un gabinetto puliti, farsi un bagno, darsi la mano, accarezzarsi, amarsi, capire, pregare, respirare aria pulita, ricordare un avvenimento passato, avere un amico e via dicendo – dare a valore a tutte queste piccolezze vuol dire dare valore alla vita in generale. In questo modo si genera – o si scopre – il senso della vita. La cecità dell’era contemporanea consiste nell’incapacità di riconoscere che sono le piccole cose ad alimentare la vita e che tutto è legato a tutto il resto. Soltanto se si colma tale ignoranza, la vita stessa può acquisire un senso: «probabilmente solo in un mondo di ciechi le cose saranno ciò che veramente sono» (p. 113).
Quando si prende consapevolezza di questa cecità bianca, ci si trova in un momento critico, in un punto zero tra due modi di pensare. All’inizio, è una situazione opprimente, dolorosa, insostenibile perché si è i soli a vedere: si crede di non avere «il diritto di guardare se gli altri non possono guardare me» (p. 63). Poi però s’incomincia a capire che «oggi è oggi, domani è un altro giorno, e io la responsabilità ce l’ho oggi, non domani, se sarò cieca, Responsabilità di cosa, La responsabilità di avere gli occhi quando gli altri li hanno perduti, Non puoi guidare o dare da mangiare a tutti i ciechi del mondo, Dovrei, Ma non puoi, Aiuterò per quanto sarà nelle mie possibilità» (p. 213). “Vedere” non è un optional, non si tratta di premere l’interruttore a piacimento, di accendere e spegnere la vista quando conviene. “Vedere” è una responsabilità: da ciò dipende il destino nostro e altrui, del genere umano, della società, del pianeta. Se la maggior parte di noi è soggiogata da tale falso biancore della vista, quei pochi che ancora vedono sono chiamati a dare voce a quel che vedono, sono interpellati a spezzare il monotono pallore della quotidianità con il rumore dissonante della propria voce, perché «il rumore è indiscreto, impossibile da mascherare» (p. 50). Se si spengono anche questi ultimi occhi, come pensare alla storia e al futuro dell’umanità e del pianeta Terra? Tutto svanirebbe.
Il mal bianco è la malattia invisibile che si diffonde nel nostro mondo, per mezzo del modo di pensare dominante legato al potere, che rende indifferenti, spaventati, egoisti, disperati. In questo senso, non fa differenze di colore, idioma, etnia o cultura, può colpire tutti e, per questo motivo, può minacciare il nostro destino. Se tutti ci ammalassimo di questa cecità bianca, ci ritroveremmo ognuno a far guerra contro tutti gli altri: «sarebbe terribile, un mondo di ciechi, Non voglio neanche immaginarlo» (p. 54). Con Cecità, Saramago denuncia questo morbo invisibile celato nella nostra società, perché sa che la posta in gioco è il destino del genere umano. Il racconto ci pone su di una prospettiva che è oltre i confini delle leggi finora adattate per regolare la nostra condotta. Da questo panorama al di là della legge, dobbiamo tornare a ri-vedere tutto, tornare a circoscrivere, definire, misurare e connettere ogni ente con tutti gli altri, vivente e non, umano e non. Tutto, anche i sentimenti e la fede, dipendono dalla capacità di comprendere l’importanza delle piccole cose, degli altri, del pianeta e dell’interconnessione cui tutto e tutti sono coinvolti. È questa la sfida delle sfide dell’era contemporanea: occorre tornare ad accorgersi di tutto e di tutti e ad apprezzarli così come sono nella loro semplicità, vale a dire per la vita che alimentano. Da ciò scaturisce la riscoperta del senso e della qualità della vita. Il punto di partenza, secondo Saramago, è porsi il problema del mal bianco, della nostra abitudine a non vedere niente: «Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono» (p. 276).
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